Ep. 01

Un piano B per Taranto

Schiacciata tra la crisi dell’ex Ilva e la transizione energetica, Taranto ha bisogno di un piano B alla monocultura dell’acciaio. I 796 milioni di euro del Just Transition Fund possono aiutare la riconversione del territorio

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Oltre l’acciaio

Taranto ha un’occasione da 796 milioni di euro per cambiare pelle e non dipendere più dall’ex Ilva. Come la sta usando?

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«Alle scuole medie, mi facevano studiare l’Ilva, non mi davano altre prospettive: mi sono diplomato come tecnico elettronico perché dovevo essere pronto per la fabbrica. La speranza di tutti era avere il posto fisso là dentro, perché è quello che ci è stato sempre raccontato».

 

A parlare è Raffaele Cataldi, 53 anni, uno dei 1.500 operai Ilva in cassa integrazione a zero ore dal 2018. Come tanti colleghi, Cataldi è stato operato di tumore alla tiroide. A differenza di molti altri operai, lotta per la chiusura dell’ex Ilva, come attivista del Comitato Cittadini e lavoratori liberi e pensanti, una delle tante associazioni locali che chiede la chiusura della fabbrica.

Taranto e l’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia (Adi), sono un luogo simbolo del conflitto tra lavoro e salute, ma anche di quello tra lavoro e ambiente. L’Onu ha definito la città una «zona di sacrificio», cioè un territorio in cui le istituzioni hanno stabilito e mantenuto produzioni inquinanti a discapito della salute dei cittadini. Non è solo un problema sanitario: produrre acciaio genera, oltre che inquinanti nocivi per le persone, anche alte emissioni di CO2 che aggravano la crisi climatica.

 

In città, le «altre prospettive» di cui parla Cataldi mancano da decenni, da quando l’operaio sedeva sui banchi di scuola. Oggi, per provare a immaginarle e concretizzarle, c’è il Just Transition Fund (Jtf), un nuovo fondo di coesione europea che aiuta i territori più colpiti dalla transizione energetica, che in Italia sono il Sulcis Iglesiente in Sardegna e, appunto, Taranto.

 

Per la provincia pugliese, il Jtf vale 796 milioni di euro, ma il rischio è che non vengano spesi.

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Raffaele Cataldi, operaio Ilva in cassa integrazione. Foto di Matteo Barsantini

Non si potrà più vivere di solo acciaio

Il futuro dell’acciaieria, nel mezzo di un quadro intricatissimo di commissariamenti, processi e autorizzazioni ambientali scadute, è un’incognita: potrebbe chiudere o rimanere aperta. L’unica certezza è che produrre acciaio con il carbone, come avviene ora, non è più sostenibile: non solo a livello ambientale e sanitario, ma anche dal punto di vista economico, a causa delle misure di disincentivo alle fonti fossili del Green Deal europeo.

 

Anche se la fabbrica dovesse restare aperta, quindi, la conversione a un modello di produzione a minori emissioni porterebbe comunque la perdita di migliaia di posti di lavoro. 

 

L’ex Ilva, infatti, è l’unica acciaieria in Italia che ancora lavora a ciclo integrale, cioè svolge l’intera produzione in loco con gli altiforni a partire da ferro e carbone. La complicata transizione del settore siderurgico va verso un tipo di impianti meno inquinanti, con forni elettrici e tecnologia Dri (Direct Reduced Iron), ma questo passaggio implica il taglio di oltre due terzi della manodopera richiesta dal ciclo integrale.

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L’acciaieria di Taranto. Foto satellitare di Google Earth

«A Taranto per produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio con forni elettrici più Dri si avrebbe bisogno di tra 2.000 e 3.200 lavoratori. Attualmente ce ne sono 8.000, quindi la forza lavoro si riduce notevolmente» spiega a Slow News Lidia Greco, sociologa esperta di transizione energetica e autrice dello studio La decarbonizzazione dell’industria siderurgica italiana.

 

La stima delle perdite occupazionali causate dalla transizione, riporta il piano nazionale Just Transition Fund, oscilla tra 1.300 e 5.200 lavoratori, a seconda della modalità del piano industriale dell’acciaieria, più altri 1.500 posti persi nella filiera del carbone.

 

Queste cifre, va sottolineato, sono state calcolate prima dell’ultima crisi e del commissariamento di Acciaierie d’Italia: ora, con la fuoriuscita di ArcelorMittal, la multinazionale indiana che era socio di maggioranza di Adi, la situazione occupazionale del siderurgico a Taranto è ancora più precaria, soprattutto per i lavoratori dell’indotto.

Quale transizione? E con quali fondi?

In questo contesto di crisi, sono oggi a disposizione i 796 milioni del Just Transition Fund. Le risorse però, anche se può sembrare controintuitivo visto il nome del fondo, non saranno spese per la transizione dell’acciaieria.

 

Il Jtf, infatti, è pensato per la diversificazione economica di Taranto, cioè per creare alternative alla monocultura dell’acciaio, e tocca l’ex Ilva solo indirettamente, in due modi: con la formazione dei lavoratori in esubero e con interventi di risanamento ambientale per mitigare lo storico impatto inquinante dell’acciaieria.

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Una ciminiera dell’acciaieria vista del cimitero San Brunone del quartiere Tamburi. Foto di Matteo Barsantini

Questa scelta, come spiegato dai funzionari Ue a Slow News, è stata concordata tra la Commissione europea e l’Italia ed è dovuta a più ragioni.

 

Una è che finanziare la transizione dell’ex Ilva con il Jtf significava assorbire la maggior parte del budget per intervenire su un’azienda con molti problemi e un futuro incerto. Già nel 2021, mentre veniva scritto il programma JTtf, e ancora di più oggi. 

 

L’altra è che il Jtf a Taranto era pensato per agire in modo complementare al Pnrr, che prevedeva per l’ex Ilva un progetto pilota per la produzione di acciaio “verde”, fatto con Dri e idrogeno prodotto da fonti rinnovabili. 

«A Taranto per produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio con forni elettrici più Dri si avrebbe bisogno di tra 2.000 e 3.200 lavoratori. Attualmente ce ne sono 8.000, quindi la forza lavoro si riduce notevolmente».

In base al decreto “Aiuti Ter” del settembre 2022, questo progetto doveva usare un miliardo di euro del Pnrr, ma il governo ha fatto marcia indietro perché non lo considerava realizzabile entro le scadenze europee di fine 2026. «Servono certezze, non fare scommesse e rischiare poi di non farcela» aveva dichiarato il Ministro dell’Ambiente Pichetto in un comunicato in merito alla rimozione del progetto dal Pnrr.

 

Le risorse per la “decarbonizzazione” dell’Ilva sono quindi finite su dei fondi nazionali: l’ultimo decreto Pnrr di marzo sposta alcuni interventi del Pnrr sul Fondo di Sviluppo e Coesione e sul Fondo Complementare, incluso il miliardo per «l’utilizzo dell’Idrogeno in settori hard-to-abate», cioè i settori industriali particolarmente difficili da decarbonizzare o riconvertire, tra cui il siderurgico. Il finanziamento sarà spalmato tra 2024 e 2029. 

 

Più tempo quindi per spendere, ma ancora nessun progetto concreto, anche perché Acciaieria d’Italia è al momento in amministrazione straordinaria, in attesa di un nuovo acquirente e di un piano industriale. A prescindere da chi sarà il nuovo proprietario, secondo diverse fonti stampa, il miliardo per il progetto pilota per l’acciaio green sarà destinato a Dri d’Italia spa, una società pubblica che si occupa di studiare la fattibilità di impianti di produzione di acciaio con, appunto, tecnologia Dri a idrogeno.

Sognando Pittsburgh

«Una cosa pare comunque chiara a molti», scriveva il giornalista e scrittore tarantino Alessandro Leogrande già nel 2016. «Che la fabbrica resti al suo posto o venga chiusa», «Taranto deve comunque uscire dalla “monocultura siderurgica” che nell’ultimo mezzo secolo non ha fatto altro che alimentarsi dalle sue stesse viscere». 

Una statua dalla polvere di minerale di ferro emessa dall’acciaieria. Foto di Matteo Barsantini

Già allora, Leogrande considerava la missione «molto difficile»; oggi ci sono più fondi a disposizione, ma la sfida rimane tale. E la domanda è sempre la stessa, quella che Alessandro Marescotti si sente rivolgere dagli studenti quando va nelle scuole a sensibilizzare sull’inquinamento dell’Ilva: «Sì, ma poi? Come si cambia questa situazione?». 

 

Ex professore tarantino e presidente di Peacelink, una rete di attivisti che usa la telematica per finalità pacifiste ed ecologiste, Marescotti è da anni in prima linea nel denunciare l’impatto sanitario dell’Ilva, sempre con dati alla mano: come nel 2008, quando Peacelink trovò la diossina in un pezzo di pecorino locale, o, più di recente, nel 2023, con la rilevazione dell’aumento dei picchi di benzene nel quartiere Tamburi, alle spalle dell’acciaieria. 

 

Il benzene causa leucemia ed è uno degli inquinanti per cui Taranto registra ancora eccessi di mortalità per tumori e anomalie congenite, documentati dall’Istituto Superiore di Sanità nello studio epidemiologico SENTIERI del febbraio 2023 (più un focus su Taranto).

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Una targa di denuncia all’inquinamento apposta nel quartiere Tamburi da alcuni cittadini. Foto di Matteo Barsantini
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Una parete arrossata dalla polvere di minerale di ferro emessa dall’acciaieria. Foto di Matteo Barsantini

Ma denunciare, a Taranto, non è mai stato sufficiente. 

 

«Non riuscivamo a trasformare l’indignazione per il disastro ambientale in una proposta alternativa», racconta Marescotti a Slow News. Così, iniziò a documentarsi cercando esempi di città che fossero riuscite a superare la monocultura dell’acciaio. Trovò Pittsburgh, in Pennsylvania, una città siderurgica tra le più inquinate degli Stati Uniti che si è trasformata in un polo green, ricco di università e servizi ad alta tecnologia. E iniziò a raccontarla nelle classi.

 

«Questo esempio positivo finalmente colpisce gli studenti e fa capire che anche a Taranto ce la possiamo fare. Da qui, l’idea di scrivere un piano B» prosegue Marescotti. 

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Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, racconta del Piano B per Taranto. Foto di Matteo Barsantini

Peacelink pubblica nel 2014 una prima versione del Piano B per Taranto, che poi confluirà nel 2018, grazie al lavoro di altri gruppi locali, nel Piano Taranto: si tratta di un programma creato dal basso che punta alla rinascita della città dopo la chiusura dell’Ilva, attraverso le bonifiche, l’economia circolare e le rinnovabili. Per finanziare la conversione, il programma suggerisce l’uso di vari fondi europei.

 

«Quando poi è arrivato il Fondo per la transizione giusta (il Jtf, introdotto nel bilancio Ue 2021-2027, ndr) è arrivato quello che attendevamo: l’intervento illuminato dell’Europa che destinava al Taranto e al Sulcis un miliardo e 200 milioni». 

 

Eppure, quasi due anni dopo, i bandi aperti per Taranto sono zero, i ritardi si accumulano e in città si respira pessimismo. 

In copertina: Quartiere Tamburi, Taranto. Foto: Matteo Barsantini

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