L’arma del gaming
Questo episodio potrà sembrare merce per appassionati ma, in realtà, tratta di politica. Quella molto spiccola.
Ma se leggi questo pezzo è improbabile che tu lo sia già
Cercare di dare un contesto a una serie di storie che parlano di povertà è un’impresa perché sai già, nel momento stesso in cui inizi a scrivere, che rischi di fare un lavoro svuotato di senso: le persone povere non lo leggeranno mai e non potranno beneficiarne. Le persone ricche o benestanti, ammesso che ne abbiano voglia, faranno fatica a immedesimarsi. Le persone che si trovano in contesti intermedi potrebbero avere lo stesso problema. È facile anche cadere nelle trappole degli stereotipi: rappresentare i poveri come mendicanti e senzatetto e dimenticare tutto il resto.
È per questo che è importante partire da altre storie.
«Se penso alla mia esperienza come partita IVA degli ultimi cinque anni, devo dire che, sì, come al solito sono preoccupato. Ma poi credo che anche quest’anno cadrò in piedi».
Dice così Michele(*), 36 anni, a dicembre del 2022 mentre parliamo dell’instabilità dovuta alla sua vita da freelance. Questa instabilità comporta, per esempio: nessuna possibilità di avere ferie pagate, niente mutua, una visione sul futuro molto incerta per quanto riguarda la pensione. Sta pianificando il suo 2023 ed è, per lui, uno dei momenti più delicati: è il massimo di pianificazione a lungo termine che può concedersi.
Alessandra, 42 anni, racconta la: «Come andiamo avanti noi? Surfiamo sull’imprevisto. Siamo due freelance e siamo in quattro, in famiglia. Fino a oggi siamo riusciti a mantenerci, a mantenere i nostri figli, a pagare il mutuo, persino a fare qualche viaggio di tanto in tanto. Ma ogni volta sappiamo che potrebbe non durare e che tutto dipende da noi, dalle nostre energie, dal fatto che le cose devono andare bene e che non deve accaderci mai nulla di male, se no potrebbe essere tutto a rischio».
Michele e Alessandra sono solamente due delle persone con cui abbiamo parlato per scrivere questo pezzo. Non si possono certo definire poveri: non lo sono, in effetti, secondo alcun indicatore tra quelli più usati.
C’è un altro elemento da prendere in considerazione: Michele e Alessandra possono permettersi di fare i ragionamenti e la vita che fanno grazie alla loro storia personale e ai loro trascorsi. Un po’ per capacità, un po’ per fortuna, come ammettono entrambi, sono riusciti a costruirsi una posizione che rappresenta, perlomeno, un equilibrio instabile.
Hanno fatto entrambi le scuole pubbliche, non hanno capitali alle spalle né grossi privilegi o tesoretti da investire, non hanno i genitori inseriti nella società “bene” e nessuno dei due è stato aiutato dalle famiglie a trovare lavoro, non hanno una casa di proprietà senza debito.
Eppure, in un certo senso, sono entrambi concordi nel dire che «sì, in effetti siamo comunque dei privilegiati». E lo dicono ridendo, un po’ amaramente, un po’ vergognandosi del fatto che a volte si lamentano. Perché sanno che c’è chi sta peggio.
Come se non bastasse, Michele e Alessandra sono sostanzialmente invisibili nella rappresentazione mediatica. Ma cosa sarebbe successo, per esempio, se Michele o Alessandra fossero partiti da una condizione di partenza meno fortunata? E cosa accadrebbe loro se non dovessero riuscire, per una volta, a «cadere in piedi»?
Per capirlo, dobbiamo capire, prima di tutto, cos’è la povertà, chi sono le persone povere, che cos’è la povertà educativa, che cos’è la povertà ereditaria. Infine, che cos’è il rischio di povertà.
La povertà è un problema complesso. Il senso comune di solito definisce povere le persone che non hanno soldi a sufficienza. Ma a sufficienza per cosa? Per esempio, per il cibo, l’alloggio, i vestiti. Eppure non basta.
Spesso si pensa che siano povere le persone che non hanno un lavoro. Però anche questo non è sufficiente: esiste anche il lavoro povero. Esistono, cioè, persone che hanno un’occupazione retribuita ma non a sufficienza.
In più, la povertà è anche mancanza di accesso ai servizi di base, all’assistenza sanitaria, all’istruzione. Si può nascere già poveri. Si può diventare poveri.
Il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti sociali, economici e culturali propone questa definizione:
«La povertà può essere definita come una condizione umana caratterizzata da privazione continua e cronica delle risorse, capacità, scelte, sicurezza e potere necessari per poter godere di uno standard di vita adeguato ed altri diritti civili, culturali, economici, politici e sociali».
È una definizione molto importante, perché, nominando chiaramente anche la privazione della possibilità di scelta, della sicurezza, del potere, sposta il discorso dal denaro e dal lavoro a una serie di ambiti che sono solo parzialmente legati alla questione economica.
Potremmo dire, per semplificare, che la povertà è la mancanza di risorse economiche e sociali necessarie per soddisfare i bisogni fondamentali della vita. Tra questi bisogni fondamentali c’è, per esempio, anche il diritto al riposo e allo svago, riconosciuto fin dal 1948 dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo: è bene ricordarlo per sfatare una serie di miti legati alla dedizione al lavoro e al sacrificio, spesso reiterati da una certa ideologia politica e da un certo racconto giornalistico.
Uno dei lavori più interessanti mai pubblicati sulla povertà è sicuramente I Poveri (2020), di William T. Vollman, in particolare per lo sforzo empatico, non populista e non elitario.
Vollman si occupa, raccogliendo testimonianze per più di vent’anni, del mondo delle persone povere senza mai dimenticarsi che non può capirlo fino in fondo:
«A volte ho paura dei poveri», scrive. «Io ritengo di far parte della classe fortunata. Chiudo la mia porta blindata davanti ai problemi degli altri e mi ritiro fra le pareti del mio cranio, dove a volte neanche i miei problemi riescono a penetrare».
Sa che anche i suoi lettori sono come lui: «Qualunque sia il prezzo di vendita [di questo libro], per un povero sarà sempre troppo alto per valere la spesa».
Oltre alle testimonianze – tra le centinaia di persone che Vollman intervista e racconta ci sono mendicanti e donne delle pulizie, insegnanti e allibratori, prostitute e persone che raccolgono l’immondizia, in varie parti del mondo – e a continue domande che costringono a interrogarsi sul senso più profondo delle cose, fa un elenco delle caratteristiche che ha individuato nella povertà.
Le chiama per nome, così:
Non è detto che tutte le persone povere condividano tutte queste “dimensioni” della povertà, ma se le pensiamo una a una ci verrà anche troppo facile immaginarle e capirle.
Forse l’invisibilità e la separazione meritano approfondimento, perché sono concetti che richiamano l’assenza, siano quelli che meritano più approfondimento.
«I posti invisibili», scrive Vollman, «sono quelli dove non andiamo mai, ci pensano la polizia, la pressione economica, l’istinto di conservazione e la semplice abitudine a collocare lì gli estranei […] Quante volte avete visto un accattone dentro un complesso residenziale privato? Chiunque sia abbastanza squilibrato a recitare una parte così visibile verrebbe immediatamente neutralizzato da anticorpi in uniforme e poi espulso dal corpo sociale. Stiamo parlando del crudele sistema basato sull’invisibilità reciproca delle classi, detto segregazione».
«Tra i poveri», scrive ancora Vollman, «la separazione si esprime mediante la paura del contagio, o tramite il fratello gemello della paura: l’odio per l’altro. A volte accompagna un fenomeno più impersonale, la competizione per le scarse risorse».
Ecco: i poveri non si vedono, anche mentre competono.
Se si vedono, non vorresti passarci del tempo.
Per sopravvivere dipendono da qualcun altro, e questo li rende vulnerabili, li fa soffrire; la loro condizione li può gettare in uno stato di torpore; a volte la povertà li rende deformi (oppure sono diventati poveri perché diventati deformi). E nell’economia di mercato, come avrai sicuramente visto accadere, anche la deformità può diventare una merce da vendere per ottenere denaro. Per consentire al ricco di togliersi qualche peso dalla coscienza. Oppure per levarsi il povero di torno.
«DONATE QUI e aiutatemi a stare fuori dal vostro quartiere» è il cartello di una mendicante fotografato da Vollman che rende meglio l’idea. Non solo della povertà, ma anche di come l’esser poveri fa sì che si introietti il desiderio del ricco di non vedere, e che si provi addirittura a mercanteggiare, a fare marketing su quel desiderio, per trarne un po’ di profitto.
Ci sono ancora tre definizioni che vale la pena di riprendere da Vollman, perché rendono bene l’idea della complessità di quel che stiamo trattando. Eccole:
Normalità – Il contesto locale a partire dal quale andrebbero considerati la povertà relativa, il benessere individuale e altre astrazioni di questo genere. […] È un termine arbitrario. La normalità può essere fatta di insufficienza, disperazione, superfluità o di molte altre condizioni.
Povero – Persona che non ha, o desidera quello che io ho; infelice nella propria normalità.
Ricco – Persona soddisfatta della propria normalità e ragionevolmente in grado di comprenderla.
Le parole sono scelte accuratamente. La componente economica è marginalizzata o del tutto assente. Eppure, l’unico modo che abbiamo, oggi, per misurare la povertà è legato al denaro.
Cerchiamo di dare definizioni che possano aiutare chi non si occupa abitualmente del tema. La povertà assoluta (o estrema) a livello globale viene misurata dagli anni ‘60 del secolo scorso rispetto a un livello minimo di reddito pro capite giornaliero chiamato international poverty line.
Da settembre del 2022 è un valore fissato a 2,15 dollari al giorno (in precedenza era di 1 $ al giorno e poi era stato aggiornato a 1,9 $ al giorno).
Il valore è talmente basso che se lo utilizziamo per misurare la povertà diremo che al mondo ci sono sempre meno poveri, e il problema ci sembrerà risolto. Ma la povertà si misura in base al contesto in cui ti trovi: dove vivi, quanto costa viverci, come vivono gli altri, per esempio.
In Italia, l’ISTAT dà una definizione di soglia di povertà assoluta che dovrebbe aiutarci a mettere le cose nella giusta prospettiva:
«La povertà assoluta rappresenta il valore monetario dei beni e servizi che, nel contesto italiano e per una famiglia con determinate caratteristiche, vengono considerati essenziali per una determinata famiglia per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile».
Il sito dell’ISTAT offre un simulatore per calcolare questo dato.
Facciamo un esempio a partire dalla famiglia di Alessandra di cui parlavamo all’inizio.
Quattro persone, di cui due minori sotto ai 10 anni, nel nord Italia, in un Comune con meno di 50.000 abitanti: la soglia di povertà assoluta per il 2021 è pari a 1.560,56 di spesa mensile.
Questo valore è variabile. Modificandolo a seconda dei contesti (numerosità della famiglia, località geografica e tipologia di comune), Se consideriamo questi calcoli, scopriremo che in Italia nel 2021 c’erano 1,9 milioni di famiglie (circa 5,6 milioni di persone) in condizione di povertà assoluta.
Poi c’è la povertà relativa.
In Italia, sempre l’ISTAT definisce relativamente povera «una famiglia di due componenti con una spesa per consumi inferiore o uguale alla spesa media per consumi pro-capite». Se consideriamo questa definizione (per avere un numero di riferimento, nel 2021 per una famiglia di 2 persone era pari a 1.048,41 euro al mese), allora in Italia erano povere 2,9 milioni di famiglie per un totale di 8,8 milioni di persone.
Tutti questi valori e definizioni ci guidano attraverso la complessità della povertà. E non sono nemmeno sufficienti, perché la povertà è multidimensionale. «Considerare solo il reddito», scrivono Gianluca Monturano, Giuliano Resce e Giulia Valeria Sonzogno su Eticaeconomia, «vuol dire ignorare, tra le altre cose, i patrimoni individuali e l’eterogeneità territoriale delle condizioni socioeconomiche oltre che di qualità, efficacia ed accessibilità dei servizi pubblici, che storicamente caratterizza il nostro Paese».
A livello europeo, si misura anche il rischio di povertà o esclusione sociale. Si rientra in questa categoria se si sperimenta almeno una fra tre situazioni distinte
Considerando questi tre indicatori, 95,4 milioni di persone vivono a rischio povertà o esclusione sociale in Europa.
Il dato italiano è superiore a quello europeo e riguarda 1 persona su 4.
5,9 milioni di persone in Europa sperimentano contemporaneamente le tre condizioni prese in esame. Cioè, vivono con un reddito più basso della soglia di povertà, sperimentano deprivazioni materiali e sociali e vivono in famiglie con poco lavoro.
Probabilmente fra di loro non ci sono né Michele né Alessandra, ma questi valori sono calcolati con una soglia. Essere un po’ lontani da quella soglia non significa essere fuori pericolo. O non significa che si sarà fuori pericolo tra due, cinque, dieci anni.
Chi sono le persone a rischio, oltre ai precari? Per capirlo dovremmo misurare, per esempio, la distanza dalla soglia di rischio.
Una risposta a questa domanda, almeno parziale, si ottiene leggendo i report periodici di Istat (pag. 8) che analizzano le situazioni in cui la povertà è più presente.
Sono a rischio le persone che vivono sole (soprattutto se anziane), le famiglie numerose, le famiglie in cui la persona di riferimento è in cerca di occupazione o ritirata dal lavoro. Le famiglie che hanno anche persone anziane al loro interno sembrano meno a rischio delle altre, a riprova del ruolo importante che possono avere gli anziani.
E allora, se i numeri sono questi, se la sensazione di precarietà non è un tema raro, perché, il discorso politico e la conversazione mediatica non si occupano di questo tema?
Forse perché la riproduzione delle disuguaglianze e delle gerarchie è talmente forte, sia nei luoghi dove si gestisce il potere sia in quelli dove si produce cultura di massa, che prevale un’altra tendenza. Quella a semplificare e ad attribuire la colpa, lo stigma alle persone povere.
Secondo una lunga tradizione che affonda le proprie radici nella predestinazione calvinista e che poi sfocia negli ospizi per i poveri del XIX secolo non ci sono dubbi: se sei una persona povera è perché te lo meriti. «I meritevoli», scrivono i sociologi Anthony Giddens e William Sutton spiegando questo tipo di convinzioni, «prima o poi avevano successo, i meno capaci e i deboli erano destinati a fallire. L’esistenza di vincitori e perdenti era considerata un dato di fatto». Secondo Charles Murray, libertario capitalista, addirittura, sarebbe lo stato sociale a disincentivare l’occupazione, l’ambizione personale e la capacità di provvedere a sé stessi.
Queste tesi comportano uno stigma, un biasimo costante nei confronti dei poveri.
Eppure, già nel 1782 il saggista britannico Samuel Johnson aveva colto un’evidenza: essere poveri non è una mancanza di carattere, ma è una mancanza di denaro.
Sembrano difficilmente sostenibili oggi eppure, sorprendentemente, trovano spesso vigore nella retorica del sacrificio, della meritocrazia, dei giovani che non vogliono lavorare, dei fannulloni: in Italia, l’attacco frontale della politica e dei giornali al Reddito di cittadinanza fa parte di questa retorica. E impedisce di vedere sia i lati positivi del RdC (per esempio, il fatto che venga effettivamente erogato in aree ad alta vulnerabilità), sia di problematizzare e di vederne i reali problemi.
Che non sono i furbetti (quelli sono aneddotica e fisiologica violazione delle norme). Sono problemi connessi all’idea stessa di redditi minimi con condizioni: «Tutti i redditi minimi prevedono l’attivazione», diceva la ricercatrice di Percorsi di secondo welfare Chiara Agostini già nel 2020. «Ma ci sono persone povere che, nel breve periodo, non sono attivabili. Io ritengo che le politiche di contrasto alla povertà debbano essere separate dalle politiche per il lavoro, perché sono due cose diverse».
Eppure l’attacco frontale al reddito di cittadinanza funziona a livello mediatico, al livello della conversazione. E funziona molto bene proprio tra coloro che sono a rischio, o che percepiscono di avercela fatta, di essersi messi al sicuro e che vedono nel fatto che altre persone possano ricevere del denaro una specie di affronto. «Non capisco perché», mi dice Andrea, 45 anni, «io dovrei pagare le tasse per dare dei soldi a qualcuno che non ha voglia di lavorare».
Però, di fronte al rischio di povertà, anche questa logica vacilla: sono le persone a basso reddito, i freelance, i precari, i genitori single, le famiglie numerose ad essere a rischio povertà. Non quelle che non hanno voglia di lavorare.
Guy Standing in Precari. La nuova classe esplosiva (2012) parla proprio di queste persone: prive di opportunità adeguate nel mercato del lavoro, senza tutele occupazionali, con lavori instabili, senza garanzia di formazione se non a proprio carico, senza diritti sindacali.
Ecco: sono proprio Michele e Alessandra.
Come loro, Standing stima che siano circa il 25% delle persone che vivono nei paesi industrializzati in questa condizione: non sono povere. Sono deboli, insicure, precarie, appunto.
E la loro precarietà è più evidente a partire dalla crisi finanziaria del 2008, anche se è iniziata a partire dalle progressive richieste di flessibilità sul lavoro dal 1970 in avanti. Con il sistema economico globale, scrivono ancora Giddens e Sutton nel loro manuale di sociologia, «la posizione contrattuale dei lavoratori si è indebolita progressivamente e parallelamente è cresciuta l’insicurezza sociale cronica in una parte della popolazione».
Davide è un bambino di nove anni. La mamma se n’è andata quando era piccolo, il papà ha un problema di alcolismo, lo cresce la nonna che, spesso, dice di essere costretta a lasciarlo da solo in casa per fare commissioni, per lavorare.
Davide va a scuola, ma ha meno giochi dei suoi compagni di classe, fa meno attività dei suoi compagni, non ha nessuno a casa che lo possa seguire per i compiti quando ha bisogno di aiuto. Nella chat di WhatsApp dei genitori dei compagni di classe, a volte, qualcuno cerca di dare una mano alla nonna.
Davide è un bambino nato e cresciuto in un contesto svantaggiato. E non ne ha nessuna colpa.
Come lui, tutte le bambine e i bambini che provengono da famiglie svantaggiate hanno meno possibilità di:
– partecipare ad attività sociali
– avere accesso ad ambienti culturalmente stimolanti
– partecipare ad attività ricreative
– svilupparsi emotivamente
– realizzare i propri potenziali
Queste bambine, questi bambini, si trovano in una situazione di povertà educativa.
Le cause possibili sono l’estrazione sociale, la condizione economica, la situazione della famiglia, a volte il genere, o la provenienza geografica, o il luogo di residenza.
La povertà educativa è un circolo vizioso: di solito chi si trova in questa situazione ottiene risultati scolastici sotto la media. E da adulto avrà più difficoltà a trovare lavori di qualità.
Nel 2021, in Italia, 1,4 milioni di bambini (14,2%) era in condizioni di povertà assoluta. Erano il 5% nel 2011: il numero è triplicato negli ultimi 10 anni.
«Le condizioni di povertà vissute al momento presente dipendono e sono collegate alle situazioni di povertà del passato. Quasi sei persone su dieci che si rivolgono alla Caritas a chiedere aiuto risultano vivere una condizione di precarietà economica in continuità con quella vissuta dalla propria famiglia di origine», si legge nel Rapporto 2022 su povertà ed esclusione sociale della Caritas.
Secondo lo studio OCSE “A Broken social elevator? How to promote social mobility in Italia occorrono cinque generazioni affinché da una famiglia povera si arrivi a una persona che raggiunge un livello di reddito medio. E ovviamente non è detto che questo accada.
Pensiamo che non ci sia bisogno di altri rapporti o di altri dati per convincerci che il problema esiste e che non sia imputabile alla cattiva volontà dei singoli.
I fondi europei investiti per affrontarlo sono parecchi. Sul portale di Open Coesione vediamo che alla voce inclusione sociale sono monitorati progetti per 17,8 miliardi di euro, di cui 15,8 provenienti dai fondi della politica di coesione europea.
Per il ciclo di fondi che va dal 2021 al 2027, dei 42,7 miliardi di euro che arrivano all’Italia, 15 miliardi di euro (dai fondi ESF+) saranno dedicati a politiche di inclusione sociale. «Per affrontare la carenza di competenze», si legge nel comunicato dedicato al modo in cui l’Italia prevede di usare questi fondi «e aumentare la flessibilità del mercato del lavoro, l’Italia investirà nel miglioramento e nella riqualificazione dei lavoratori. Saranno compiuti sforzi sostanziali per aiutare gli indigenti, in particolare per far uscire i bambini dalla povertà, in linea con la garanzia europea per l’infanzia».
Tuttavia, la politica di coesione esiste almeno dal 1957, questi fondi hanno visto un aumento notevole a partire dal 1988. Se ci concentriamo poi sui tre cicli monitorati da Open Coesione (dal 2007 in poi) e visto che gli indicatori di povertà in Italia sono in peggioramento da 10 anni, dovremmo farci venire un legittimo dubbio.
Che al di là dei soldi, che evidentemente ci sono, ci sia un problema di idee che richiede diversi modi di affrontare i problemi e dunque diverse soluzioni.
Perché mai dovremmo vivere con l’ansia? E perché i poveri devono per forza rimanere poveri? Ci sono delle soluzioni possibili.
Una è sicuramente ripensare il reddito di cittadinanza che nei primi tre anni di vita è stato percepito da 4,7 milioni di persone diverse, ma secondo Caritas Italiana raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti (44%). «Per questo», scrive Lorenzo Bandera su Percorsi di secondo welfare, «occorre capire come raggiungere anzitutto coloro i quali versano nelle condizioni peggiori».
Il reddito di cittadinanza è una forma di reddito minimo, che ormai troviamo in tutti i sistemi di welfare europei. L’Italia è stata l’ultima a dotarsi di questo strumento. È universale nel senso che si rivolge a tutti i cittadini e a tutte le cittadine, ma è selettivo perché ha una condizione: si rivolge a persone che si trovano in condizioni di povertà. Di solito, il soggetto che percepisce il reddito minimo, insieme al suo nucleo familiare, si impegna in un determinato percorso, che può essere di inserimento sociale, di inserimento lavorativo.
Poi c’è una soluzione più radicale: la sperimentazione e poi l’introduzione di un reddito di base universale incondizionato.
Osteggiato da molte persone con una serie di obiezioni che risentono dell’incapacità di immaginare un mondo diverso (abbiamo dato risposta a queste obiezioni qui, e continuiamo a raccoglierle per analizzarle e offrire risposte), potrebbe essere uno strumento di stabilizzazione degli equilibri precari e di emancipazione.
Nel suo libro Utopia per realisti, Rutger Bregman affronta il tema della possibile fine della povertà e del reddito di base universale in due capitoli molto convincenti, che mettono in evidenza alcune assurdità delle misure di contrasto alla povertà: «Invece di curare i problemi, continuiamo a curare i sintomi, con la polizia a caccia di vagabondi in giro, i dottori che curano i senzatetto per poi rimandarli in strada, assistenti sociali che curano con i cerotti ferite già in suppurazione».
Chi vuole dare un prezzo a tutto obietta che il Reddito di Base Universale costa. Ma anche la povertà costa. E quando sono stati fatti i conti si è visto che un Reddito di Base universale costa meno della povertà e di tutte le sue conseguenze sociali. Per esempio, in Canada, dove purtroppo i conservatori hanno chiuso anzitempo il progetto sperimentale di reddito di base universale in Ontario, si è stimato che la povertà ha un costo che si aggira intorno agli 80 miliardi di dollari all’anno. Il costo comprende maggiori spese assistenza sanitaria, assistenza sociale, sistema giudiziario, perdita di produttività, costi attribuibili alla povertà che si trasmette di generazione in generazione.Il costo netto del reddito di base universale, invece, sarebbe di 51 miliardi di dollari all’anno.
Il punto finale di questo lungo viaggio, allora, è che per attuare concrete misure di contrasto alla povertà dovremmo ripensare il mondo in cui viviamo: abbiamo avuto la speranza che potesse succedere durante e dopo la pandemia da Covid-19, ma probabilmente quell’ottimismo era mal riposto. Questo non significa che non si possa ancora fare.
Istat (2022), Statistiche sulla povertà relative all’anno 2021
Con i Bambini e Demopolis (2022), Quanto futuro perdiamo?
Data Hub Save The Children:
Save The Children (2022), XIII Atlante dell’infanzia a rischio
Regione Lombardia (2020), Contrastare le povertà
Open Polis e Con i Bambini, Focus su povertà educativa
data hub di Save The Children, che unisce dati di diverse fonti.
L’anellodebole, Rapporto Caritas 2022
I Poveri, di William T. Vollman (2020),
How The Other Half Lives, Jacob Riis (1890)
Sia lode ora a uomini di fama, James Agee, Walker Evans (1936)
Fondamenti di sociologia, Anthony Giddens, William T. Sutton (2021)
A Broken Social Elevator? How to Promote Social Mobility, OCSE (2018)
Utopia per realisti, Rutger Bregman, 2017
Multidimensional Poverty Measurement and Analysis, 2015
(*) I nomi sono di fantasia per evitare di rendere le persone riconoscibili. Le interviste sono estratte da un’ampia serie di conversazioni effettuate tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023
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In Africa, la cannabis fu introdotta all’inizio del XVI secolo dall’Asia meridionale e, da allora, la sua cultura si è diffusa in tutte le sottoregioni.
Il Piano Mattei è una mezza paginetta molto vaga con cinque aree tematiche di intervento nei prossimi anni.
La crisi del debito africano può vanificare ogni sforzo per la transizione energetica globale.