Le soluzioni degli altri
Venezia è unica. Ma non è l’unica. E non è sola.
L’Italia che invecchia, la concezione monolitica degli anziani, l’invecchiamento attivo e il ruolo dei fondi della politica di coesione UE.
Negli ultimi cinquant’anni l’Italia è progressivamente invecchiata. I tantissimi figli del boom economico hanno vissuto in una società sempre più in grado di rispondere ai loro bisogni, vivendo più a lungo, e per la prima volta da decenni non si sono riprodotti allo stesso ritmo delle generazioni precedenti. È così che la piramide dell’età – il grafico che rappresenta la composizione demografica di una popolazione e che storicamente ha avuto alla base molti bambini e al vertice pochi anziani – in pochi decenni è diventata, prima, una botte sottile agli estremi e larga al centro e, ora, sta sempre più diventando una piramide rovesciata.
È un fenomeno europeo ma in Italia è particolarmente evidente, complice anche quella che negli anni i media hanno chiamato “la fuga dei cervelli” che, oltre a una perdita di risorse lavorative, ha contribuito anche a un innalzamento dell’età media nel Paese.
L’aspettativa di vita (sia generale che in buona salute) si è allungata così tanto che il termine “anzianità” diventa in realtà un ombrello al di sotto del quale si possono individuare almeno tre fasce di età differenti, con bisogni crescenti e opportunità decrescenti all’aumentare dell’età. Un anziano, oggi, può aspirare a vivere per almeno vent’anni da anziano, dieci o 15 dei quali possono essere caratterizzati da piena autonomia e attività. E quando ciò avviene, porta non solo un miglioramento per l’individuo, ma anche un arricchimento per la società.
Affinché ciò avvenga però servono fondi e riforme organiche, perché favorire il cosiddetto invecchiamento attivo significa smantellare l’attuale semplificazione legislativa e culturale per cui la vecchiaia è concepita come un’unica fascia di età in cui non c’è distinzione tra obiettivi, bisogni e servizi. Al contrario, andrebbe costruito un sistema più complesso e maggiormente in grado di rispondere agli attuali bisogni della società. Occorre, in altre parole, lavorare in anticipo per non arrivare impreparati al 2030, anno in cui l’Italia potrebbe arrivare ad avere un pensionato per ogni lavoratore. Ad oggi, uno scenario simile sarebbe catastrofico per il nostro sistema previdenziale.
Gli ultimi dati ISTAT affermano che in Italia ci sono più di 14 milioni di persone nella fascia di età over 65, molti dei quali pensionati. Significa più di una persona su cinque. Inoltre secondo l’ultimo rapporto INPS, al 31 dicembre 2021 in Italia si contavano circa 16 milioni di pensionati (cioè più del numero complessivo di anziani), di cui 7,7 milioni di uomini e 8,3 milioni di donne. INPS evidenzia che 15,5 milioni di persone ricevono 22 milioni di assegni pensionistici, per una spesa totale di 305 miliardi di euro. Emerge una grande differenza di genere nei redditi: mediamente la pensione di un uomo supera quella di una donna di più di 6mila euro l’anno. Le donne pensionate – pur essendo più degli uomini – beneficiano solo del 44% della spesa pensionistica totale. Tale divario si sta progressivamente assottigliando.
Nel 2021, il 40% dei pensionati ha percepito un reddito pensionistico che non supera i 12.000 euro lordi. Uno su cinque non è arrivato a 10.000 euro lordi nel 2021, e di questi solamente il 15% ha ricevuto un assegno sociale, mentre il 26% ha ricevuto una pensione al superstite. Tra il 1995 e il 2021 è aumentato di circa il 10% il cosiddetto indice di concentrazione di Gini dei redditi pensionistici, che misura le disuguaglianze nell’ambito pensionistico.
In termini di salute, i dati indicano che più della metà degli anziani è sovrappeso (44%) o obeso (14%), due problemi che tendono a ridursi superati i 75 anni. In generale gli anziani italiani godono di una salute migliore rispetto ai loro coetanei europei, specie tra i 65 e i 74 anni.
In Italia inoltre c’è una crescente digitalizzazione degli anziani. Secondo una ricerca di Intesa Sanpaolo solo il 5,5% non usa WhatsApp né alcun social e la quasi totalità degli anziani è dotata di uno smartphone, spesso usato per telefonare, collegarsi ai social e navigare internet alla ricerca di informazioni semplici o essenziali.
Nella nostra società il concetto di produttività è strettamente legato al lavoro e all’efficienza sul lavoro. Si misura spesso in termini di produttività media del singolo dipendente, calcolando il rapporto tra il fatturato di un’azienda e il numero dei suoi addetti. Essendo l’anziano il più delle volte uscito dal mercato del lavoro, da questo punto di vista, non è considerato produttivo.
Il discorso però cambia se si adotta una visione più complessa. Ad esempio, in Italia gli anziani hanno storicamente svolto il ruolo che in paesi con sistemi di welfare più sviluppati (come i paesi scandinavi) è spesso demandato ai servizi per l’infanzia. Non solo: gli anziani in salute possono provvedere anche ad aiuti economici. Nel 2015 il 10% degli italiani adulti chiedeva una mano ai propri genitori per arrivare a fine mese, e negli ultimi anni si stima che il valore sia progressivamente aumentato.
Secondo Franca Maino, direttrice del laboratorio di ricerca Percorsi di Secondo welfare, una persona anziana e in salute può essere una risorsa per almeno tre ragioni: familiare, che consiste nell’aiutare i propri figli e nell’avere un ruolo attivo nella crescita o nell’accudimento dei propri nipoti; per la comunità, attraverso attività di volontariato utili alle comunità in cui vivono; e infine quello della cura dei rapporti intergenerazionali, che consentono l’avanzamento della società sulla base di conoscenze storiche provenienti dalle generazioni precedenti.
Al momento sì. Grazie al miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie che ha attraversato l’Europa poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e al fatto che i figli del baby-boom si sono riprodotti meno dei propri genitori, oggi in Europa le persone adulte e prossime alla pensione sono moltissime. In Italia, ad esempio, Tito Boeri, quando era presidente INPS, sottolineò il grande rischio di fallimento dell’istituto pensionistico italiano per il 2030-2032, quando i baby-boomer andranno in pensione.
Ad oggi l’Italia è il paese più anziano d’Europa e il secondo più anziano del mondo dopo il Giappone. Ma anche l’Europa avrà sempre più pensionati e sempre meno popolazione in età da lavoro.
Secondo il rapporto OCSE Working Better with Age, nei prossimi vent’anni il numero di persone che dovranno essere sostenute dai lavoratori potrebbe arrivare a una media di 58 ogni 100 lavoratori nell’area OCSE e, in Italia e Polonia, potrebbe esserci addirittura un pareggiamento tra chi lavora e chi è in pensione. Per questo continuare con una gestione monolitica dell’anziano uguali per tutti indipendentemente da età, bisogni e opportunità potrebbe diventare finanziariamente disastroso. Al contrario, andrebbero prese in considerazione politiche per promuovere l’invecchiamento attivo e per evitare il prematuro ingresso nella fase di vita meno autosufficiente. Mentre al momento le voci di spesa principali sono allocate a favore di politiche pensionistiche o al limite di natura assistenziale.
Considerare l’invecchiamento un concetto multidimensionale significa segmentare il blocco monolitico degli anziani in fasce molto differenziate per età, per opportunità e per necessità. Adottare una visione simile consente dunque di superare la visione dell’età anziana associata a una fase passiva dell’esistenza e determinata da bisogni di assistenza e da marginalità̀ sociale. E porta quindi all’idea di invecchiamento attivo, secondo la quale la persona anziana può ancora per un lungo periodo della propria vita essere al centro della vita non solo familiare, ma dell’intera comunità.
Politiche che incoraggiano l’invecchiamento attivo (specie in ambiti come occupazione, partecipazione sociale, vita autonoma e fattori ambientali) – per esempio investendo in cure o rapporti sociali che posticipano l’ingresso nell’età della non autosufficienza – possono avere vari benefici. Ad esempio possono contribuire maggiormente al benessere familiare, partecipare ad attività di volontariato o prendere parte attiva alla vita sociale per un periodo più lungo della propria vita, alleggerendo i costi dovuti all’invecchiamento passivo. Soprattutto, lasciare spazio alle attività sociali degli anziani consente loro di ritardare di molto l’ingresso nella fase di non autosufficienza, tipicamente considerata molto onerosa sia per lo Stato che per le famiglie.
Si, in particolare in due missioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Nella missione sei, gli anziani sono tra i beneficiari del rafforzamento dell’assistenza sanitaria intermedia, della rete sanitaria territoriale e della telemedicina. Gli interventi sono sostenuti da cinque miliardi di euro, ma non riguardano solo gli anziani. La missione cinque, invece, prevede un investimento complessivo di 1,45 miliardi dedicato proprio “alle persone con disabilità e agli anziani, a partire dai non autosufficienti”, per soluzioni abitative, percorsi di autonomia, servizi per dare continuità all’assistenza domiciliare.
Inoltre, sempre nell’ambito del PNRR, il Governo Meloni è chiamato ad approvare la Legge Delega della non autosufficienza entro metà del 2023, e attualmente è già disponibile uno Schema di Disegno di Legge Delega. Come ha sottolineato la ricercatrice di Secondo Welfare Valeria De Tommaso, «Oggi abbiamo la certezza che una riforma ci sarà, ma non sappiamo ancora se sarà una buona riforma».
Nel PNRR, però, mancano dei fondi “preventivi” per garantire un ingresso nella non autosufficienza il più ritardato possibile. Manca, insomma, di nuovo, l’investimento sulla prevenzione e si continuava a lavorare solo sul problema già emerso.
Venezia è unica. Ma non è l’unica. E non è sola.
Soluzioni per contrastare lo spopolamento
Ticket d’accesso e Smart Control Room sono soluzioni contro l’iperturismo?
Il problema è l’iperturismo? O lo spopolamento? Oppure sono i soldi?