I servizi e le misure che favoriscono la conciliazione vita-lavoro, attraverso il welfare aziendale, sono importanti dal punto di vista europeo perché si pongono l’obiettivo di ridurre il gap di genere nel mercato del lavoro, aumentare il tasso di occupazione femminile e rilanciare le nascite in un continente che invecchia sempre di più. Attraverso queste misure, si cerca anche di rendere più equa la distribuzione del tempo impiegato nelle quotidiane attività domestiche tra uomini e donne. Questo vale soprattutto nel caso in cui il welfare aziendale si rivolge a lavoratori con figli.
Secondo la Commissione europea, la perdita economica dovuta al divario di genere nei livelli di occupazione nell’Ue ammonta a 370 miliardi di euro all’anno.
Il nono dei venti principi del Pilastro europeo dei diritti sociali, adottato nel 2017, è titolato proprio “Equilibrio tra attività professionale e vita familiare” e recita: «I genitori e le persone con responsabilità di assistenza hanno diritto a un congedo appropriato, modalità di lavoro flessibili e accesso a servizi di assistenza. Gli uomini e le donne hanno pari accesso ai congedi speciali al fine di adempiere le loro responsabilità di assistenza e sono incoraggiati a usufruirne in modo equilibrato».
I dati Eurostat dicono che la disparità tra uomini e donne nel lavoro aumenta all’aumentare del numero dei figli. Nell’Ue, per le persone con tre o più figli, il tasso di occupazione scende dal 67 al 58 per cento in media, mentre per gli uomini sale dal 75 all’85 per cento.
Questa dinamica si osserva nella maggior parte degli Stati membri, Italia compresa. Nel nostro Paese, le madri hanno meno probabilità di essere occupate: per quelle con un figlio il tasso di occupazione è del 56,3 per cento, mentre con tre e più figli si scende al 44,2 per cento. E alla nascita dei figli, la quota di donne che abbandona il lavoro è pari all’11 per cento nel caso di un figlio solo, al 17 per cento con due figli, al 19 per cento con tre o più.
E se le donne non rinunciano del tutto al lavoro dopo l’arrivo di un figlio, in molti casi rinunciano in parte alle ore di lavoro, e quindi a una fetta dello stipendio, optando spesso per il part time. In Europa il 29,9 per cento delle donne occupate ha un contratto part time, contro l’8,4 per cento degli uomini.
In Italia, il 38,3 per cento delle donne occupate ha apportato almeno una modifica all’orario di lavoro dopo la nascita di un figlio, contro l’11,9 per cento dei padri occupati. È la cosiddetta child penalty pagata dalle donne, che si traduce in cifre allarmanti: la perdita di lungo periodo nei salari annuali delle madri determinata dalla nascita di un figlio è del 53 per cento, di cui il 6 per cento è dovuta alla riduzione del salario settimanale, l’11,5 per cento dovuto al part-time e il 35,1 per cento dovuto al minor numero di settimane retribuite (Dati Inps, 2020). A questo si aggiunge il fatto che la riduzione dell’orario di lavoro non sempre è voluta: il part-time involontario riguarda quasi 1,9 milioni di donne italiane, ovvero il 61,2 per cento: tre volte la media europea (21,6 per cento).
Anche i congedi parentali per la cura dei figli e quelli per cure familiari sono principalmente utilizzati dalle donne, così come l’assistenza informale ai familiari e le attività domestiche sono sempre maggiormente a carico della componente femminile. Nel settore privato, gli uomini che hanno usufruito dell’astensione dal lavoro per occuparsi dei figli nel 2020 sono stati il 22,3 per cento a fronte di quasi il 78 per cento di donne.