Ep. 4

Le troll farm non sono solo sui social media

Mafe de Baggis è una pubblicitaria e si occupa di strategie digitali. Ecco cosa pensa di questa vicenda.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Il caso del Mondo al contrario di Roberto Vannacci è interessante per analizzare debolezze e problemi dell’ecosistema mediatico. E non solo.

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Ho chiesto a Mafe de Baggis di darmi il suo punto di vista su questa vicenda: Mafe ha fatto di più, con qualche incursione qua e là che ha arricchito quel che avevo scritto – sue, per esempio, le riflessioni sul pensiero occidentale e sulla sua tendenza alla dicotomia e all’essere binario. E sua questa parte. 

 

Gli spunti di Mafe de Baggis

Potrebbe essere tutto vero, potrebbe essere tutto spontaneo. Dopo decenni di infowar, però, cioè di una guerra giocata anche e soprattutto sulla creazione di finte opinioni (molto più pericolose delle finte notizie), il dubbio che le centinaia di persone che pubblicavano la foto del libro sui social media o andavano in libreria a chiederlo siano parte di un progetto di disinformatja non può essere liquidato facilmente.

Sappiamo da anni dell’esistenza di troll farm, cioè di finti account sui social media usati per accompagnare e diffondere le posizioni desiderate. In alcuni casi sono facili da riconoscere: pochi follower, pochi contenuti, quasi nessun background. In altri sono perfetti: intere vite, con tanto di vacanze, famiglie e hobby. Nei casi peggiori sono opinion leader riconosciuti e finiti a libro paga. 

 

Sappiamo, grazie al lavoro di giornalisti come Marta Federica Ottaviani, che queste fabbriche di opinioni e di consenso non sono solo sui social media. Possono essere centri di ricerca, a volte dipartimenti di università, a volte libri. Vannacci potrebbe non essere il primo autore a comprarsi centinaia di copie del suo libro per farlo salire in classifica, con l’autopubblicazione l’investimento è minimo. Potrebbe anche non essere il primo autore a creare decine o centinaia di finti lettori entusiasti. Potrebbe essere il primo a farlo per costruirsi una candidatura o uno spazio politico (ma sono sicura che andando a cercare bene troveremo altri casi). 

Torno a dire: potrebbe essere tutto successo spontaneamente e potrebbero esserci migliaia di italiani pronti a fondare l’equivalente nazionale del Ku Klux Klan, ma il dovere di farci venire il dubbio è parte di un reportage che si rispetti.

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