Ep. 02

Favola di Natale congolese

La più bella storia di Natale, che guarda avanti a ciò che c’è da fare, l’ha raccontata Mukwege alla diaspora congolese.

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Storia di un Nobel

La violenza sessuale è usata come arma d’assalto nelle guerre contemporanee ma non ha mercanti né venditori, non si traffica né si commercia. Non uccide, non sempre, ma falcidia le comunità piegandone la colonna portante: le donne.

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23 dicembre 2018. La Repubblica Democratica del Congo va alle urne e, per la prima volta dal 1997, sulle schede non c’è il cognome più ingombrante della storia moderna del paese africano, ex colonia del Belgio e prima ancora ex giardino personale di re Leopoldo II: il cognome Kabila.

Era il 20 maggio 1997, il culmine del “maggio congolese”, quando Laurent-Désiré Kabila rovesciò il regime di Mobutu Sese Seko: proprio quel giorno Kabila entrò a Kinshasa, megalopoli sulla riva meridionale del fiume Congo, alla guida dei tutsi del sud-Kivu, sostenuto militarmente e politicamente da Burundi, Uganda e Ruanda. Mobutu fuggì in Marocco, sarebbe morto in meno di quattro mesi di cancro alla prostata a Rabat, mentre Kabila entrava in città e si autoproclamava presidente, creando il “governo di salvezza pubblica” e ribattezzando l’allora Zaire in Repubblica Democratica del Congo. Uno Stato che di repubblicano e di democratico ha avuto ben poco.

Kabila si dichiarava marxista e declinò questa filosofia mescolando un capitalismo collettivista tutto congolese alla retorica panafricanista tradizionale: culto della personalità e accentramento del potere, autoritarismo, indifferenza ai diritti civili e cleptocrazia dilagante (il termine fu coniato dalla comunità internazionale per descrivere il regime di Mobutu negli anni Settanta, profondamente corrotto e indebitamente appropriatosi delle ingenti risorse minerarie, economiche e finanziarie del paese) furono le caratteristiche della presidenza Kabila. In meno di un anno Uganda e Ruanda tolsero il sostegno al neo-presidente, che trovò nuovi amici nello Zimbabwe, nell’Angola e nella Namibia, fomentando una nuova ribellione dei tutsi: la lotta tra i ribelli, gruppi armati frammentati, e Kabila diede vita alla “guerra mondiale africana” nel Congo orientale (o Seconda Guerra del Congo), un conflitto che ha visto fronteggiarsi gli eserciti regolari di sei nazioni africane e diverse decine di gruppi irregolari armati e accecati dall’odio etnico e dalla corruzione, tutti attori interessati unicamente al controllo dei ricchi giacimenti di diamanti, oro e soprattutto di coltan e cobalto, minerali che sono il primo anello della catena dello sviluppo tecnologico globale. Senza il coltan che compone tablet, computer, telecamere, smartphone, orologi digitali, etc non sarebbe stato possibile nemmeno scrivere questo articolo.

In questo conflitto, durato fino al luglio 2003, i morti ammazzati furono 350.000 ma se si includono i morti delle carestie e delle malattie causate da questa guerra si arriva alla cifra sbalorditiva di 2 milioni di morti.

Il pomeriggio del 16 gennaio 2001 Kabila fu assassinato da Rashidi Kasereka, un tutsi membro del suo staff ucciso subito dopo. Gli succedette, il 26 gennaio, il figlio ventinovenne Joseph che fece della vendetta la sua prima azione politica: 135 persone furono arrestate e giudicate colpevoli da un tribunale militare speciale dell’omicidio di suo padre, suo cugino Eddy Kapend fu ritenuto leader del tentato colpo di Stato e condannato a morte con altri 25 complici. Altri 64 furono condannati a marcire in galera. Joseph Kabila non aveva mai aspirato all’essere un leader politico, la sua stessa formazione era militare: terminate le scuole superiori a Mbeya in Tanzania si arruolò immediatamente tra le forze ribelli del padre e terminato il conflitto che portò al potere la sua famiglia si dedicò a perfezionare la formazione militare all’Università Internazionale di Difesa di Pechino. Rientrato in Congo nel 1998, nel 2000 fu nominato Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. La mentalità militare ha caratterizzato l’agire politico, sia il fare che il disfare, di Joseph Kabila, che oggi ha la barba e i capelli decisamente più bianchi e continua a parlare un francese povero e stentato: nel luglio 2003 gli eserciti di Uganda e Ruanda si ritirarono dal conflitto in Congo, il governo di Kinshasa riuscì a strappare un accordo fragile ai ribelli e iniziò il conflitto in Kivu, nelle stesse zone dove da anni già si combatteva e si moriva di violenza, di stenti, di malattie. Nel maggio 2004 i ribelli guidati da Laurent Nkunda occuparono Bukavu, sulla riva ovest del lago Kivu, nel cuore dell’Africa nera. Nel 2005 si celebrò un referendum per approvare la nuova Costituzione. Le prime elezioni multipartitiche in 45 anni, nell’aprile 2006, si protrassero fino a luglio e il ballottaggio fu tenuto solo in ottobre opponendo Jean-Pierre Bemba a Joseph Kabila, con la vittoria di quest’ultimo. A gennaio 2008 si firmò un nuovo accordo di pace ma nell’ottobre di quell’anno il conflitto riesplose più violento che mai: intervennero le forze del Fronte di Liberazione del Ruanda, la missione delle Nazioni Unite MONUC, i guerriglieri Mai-Mai e gli eserciti stranieri di Angola e Zimbabwe, oltre all’esercito della Repubblica Democratica del Congo. Nel 2011, in novembre, si tennero nuove elezioni in un clima di grande tensione e Kabila, questa volta sfidato alle urne da Èthienne Tshisekedi, ne uscì nuovamente vincitore.

Da quel momento il paese è caduto in una profonda depressione economica, politica e umorale, un clima di sfiducia generale che ha persuaso Kabila a rinviare le successive tornate elettorali presidenziali ma celebrando tutte quelle amministrative, in cui il presidente è riuscito a piazzare i suoi uomini come amministratori delle zone più remote del paese.

Mentre il conflitto distruggeva la società civile e mentre la dittatura fagocitava la società politica un uomo, proprio a Bukavu, nel cuore della regione del Kivu, iniziava una battaglia di resistenza, riparazione e nonviolenza che lo ha portato ad essere riconosciuto come leader da milioni di congolesi, in patria e soprattutto altrove: lui è il dottor Denis Mukwege, nato nel 1965 proprio a Bukavu. Fummo gli unici, in tutto il panorama mediatico italiano, a prenderci appuntamento e a parlarci durante un tour italiano nel novembre 2017, un primato che non è secondario nello sviluppo di questa storia: l’intervista puoi leggerla qui o in fondo a questa pagina. Grazie a quella pubblicazione infatti abbiamo avuto il privilegio di essere invitati dal Comitato promotore per il Nobel a Mukwege al gran gala la sera del riconoscimento.

Specializzato in ginecologia e ostetricia, il dottor Mukwege fondò nel 1998 il Panzi Hospital divenendo negli anni il massimo esperto mondiale nella cura dei danni fisici interni e nel sostegno ai danni psicologici causati dagli stupri. Decine di migliaia di donne, negli anni dell’orribile conflitto in Congo orientale e ancora oggi, sono state curate dal dottor Mukwege dopo essere state rapite, seviziate, torturate e stuprate da militari, miliziani, ribelli. “Stupri di guerra”, li chiamiamo oggi questi atti efferati, una vera e propria «arma di distruzione di massa» ci disse il medico congolese quando lo intervistammo.

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La diaspora congolese a Oslo in occasione della cerimonia di conferimento del Premio Nobel per la Pace a Denis Mukwege e Nadia Murad, novembre 2018. © Slow News

Il Nobel per la Pace

Lunedì 10 dicembre 2018 a Oslo, capitale della Norvegia, è stato conferito al dottor Denis Mukwege il Premio Nobel per la Pace: il merito del medico congolese non è solo quello di essere il massimo esperto al mondo di come si curano i danni fisici delle donne che hanno subito degli stupri di guerra ma anche quello di essere la voce autorevole degli ultimi esseri viventi sulla faccia del pianeta. Donne, nere, congolesi, provenienti dalle zone più remote dell’Africa, persone che anche lo sforzo solidale più virtuoso e slanciato rischia di dimenticare. Con lui, sul podio del municipio della capitale norvegese, c’era la 27enne yazida Nadia Murad, rapita dai miliziani dell’Isis in Iraq, costretta a guardare l’esecuzione dei fratelli e della madre, sequestrata per anni nella Mosul occupata dagli islamisti, violentata dai suoi aguzzini per tutto quel tempo. Un orrore che Nadia ha avuto il coraggio di raccontare, dando voce al più dimenticato dei popoli dimenticati: quello degli Yazidi.

In comune Murad e Mukwege non hanno solo la prima lettera del cognome ma un impegno divenuto una missione per cui non è possibile sentire fatica, per cui l’abnegazione e la rinuncia sono gli strumenti principali della lotta: una lotta di conoscenza ma anche di diritto, sociale, psicologica, medica ma anche umanitaria.

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Il Museo del Nobel di Oslo, novembre 2018. © Slow News

Alle ore 13:30 del 10 dicembre la sala conferenze del Nobel Peace Center di Oslo è esplosa: centinaia di congolesi e di yazidi arrivati da tutto il mondo, principalmente dall’Europa, urlarono all’unisono alla consegna della targa e della medaglia attestanti il prestigioso riconoscimento. Seduti nelle prime due file della sala c’erano bambini di età non superiore ai 7 anni, bandierine della Repubblica Democratica del Congo sventolanti tra le mani, felpe e cappellini con la scritta “Mukwege is my hero”: le bambine, più composte, erano vestite come si usa la domenica nelle chiese pentecostali africane, merletti, pizzi e scarpette lucide, mentre i chiassosi bambini erano scalmanati nell’acclamare il nuovo Nobel africano. Intere famiglie di congolesi da Bruxelles, Parigi, Berlino, Lisbona erano arrivate a Oslo per guardare e ascoltare in uno schermo il loro eroe pronunciare il discorso più importante di tutti a meno di 500 metri di distanza: bambini e ragazzi, uomini d’affari e pensionati, casalinghe e insegnanti, medici e impiegati della diaspora congolese si erano dati appuntamento in Norvegia per commuoversi, festeggiare tutti assieme quell’importante evento.

«È in nome del popolo congolese che accetto il Nobel per la pace. È a tutte le vittime di violenza sessuale in tutto il mondo che lo dedico. È con umiltà che mi presento a voi portando la voce delle vittime di violenza sessuale nei conflitti armati e le speranze dei miei compatrioti»
Denis Mukwege
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La fiaccolata per la Pace a Oslo, uno dei momenti che fanno da corollario alla cerimonia del Nobel per la Pace. Novembre 2018. © Slow News

Il Comitato di sostegno ufficiale per il Nobel per la Pace a Denis Mukwege è un agglomerato di associazioni formatosi per promuovere la candidatura del medico al premio, associazioni perlopiù costituitesi nella grande diaspora congolese in tutto il mondo. Dal 2014 questa è riuscita a promuovere e sponsorizzare la storia e l’operato di Denis Mukwege riuscendo in un’operazione di comunicazione tanto sartoriale quanto su larga scala, sfruttando la capillarità del mondo dell’associazionismo diasporico. Nel suo discorso Mukwege non si è limitato alla realtà più cruenta degli stupri di guerra, che nascondono particolari tanto crudeli quanto probabilmente irriferibili, e al recupero delle vittime di atrocità sessuali ma è entrato, come fa da anni, in un ragionamento più ampio e profondo riguardante la responsabilità personale di ognuno.

«Mi chiamo Denis Mukwege. Vengo da uno dei paesi più ricchi del pianeta. Eppure la gente del mio paese è tra le più povere del mondo. La realtà preoccupante è che l’abbondanza delle nostre risorse naturali – oro, coltan, cobalto e altri minerali strategici – alimenta la guerra, fonte in Congo di estrema violenza e grande povertà. Amiamo auto bellissime, gioielli e gadget. Ho uno smartphone anch’io. Questi oggetti contengono minerali che si trovano in Congo, spesso estratti in condizioni disumane da bambini piccoli, vittime di schiavitù e violenza sessuale. Mentre guidi la tua auto elettrica, usi il tuo smartphone o ammiri i tuoi gioielli pensa per un momento al costo umano della produzione di questi oggetti. Come consumatori il minimo che si possa fare è insistere sul fatto che questi prodotti siano realizzati nel rispetto della dignità umana. Chi chiude gli occhi di fronte a questo dramma è complice»
Denis Mukwege

Le terze e quarte file erano piene di ragazzi e ragazze, il più grande avrà avuto 25 anni. Le luci degli smartphone facevano brillare la sala, le canzoni e le urla caricavano l’aria di allegra tensione. Terminata la cerimonia mancavano ancora tre ore alla tradizionale fiaccolata celebrativa, che dalla stazione dei treni arriva fino al Grand Hotel: la sala si è svuotata in fretta e tutti si sono gettati nuovamente nel gelo norvegese. L’attesa, per tutti i congolesi arrivati a Oslo, era tutta per la serata: la fiaccolata, un momento in cui tutta la città si stringe attorno agli ospiti arrivati da lontano per celebrare tutti insieme i nuovi premi Nobel, e soprattutto la cena di gala organizzata dal Comitato per il Nobel che ha portato Denis Mukwege dal duro lavoro di chirurgo al Panzi Hospital di Bukavu all’altrettanto duro ruolo di speaker e premiato di fronte alla famiglia reale norvegese.

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Denis Mukwege e Nadia Murad salutano la folla a Oslo. Novembre 2018. © Slow News

Il gala

Alla serata per Mukwege erano almeno 400 gli invitati all’Oslo Kongress Center: uomini elegantissimi e donne coloratissime, bambini, tanti quanti ce ne erano alla cerimonia del mattino, tirati a lucido come in occasione del Natale o del matrimonio di un parente importante: sul palco, durante la cena, artisti e giornalisti, rapper e vittime di violenza si alternavano per portare ciascuno il proprio ringraziamento all’operato dell’ingombrante, e per buona parte assente, ospite d’onore: Denis Mukwege.

Il neo-Nobel si trovava infatti a Palazzo Reale, ospite dei reali con la collega Nadia Murad per la cena veramente esclusiva, quella cui il popolo resta lontano. Ma dopo la cena, come un uomo del popolo, Mukwege si è presentato in smoking alla sua gente, quelle centinaia di compatrioti che avevano sfidato il freddo di Oslo per vederlo. Per essere parte della storia. Salito sul palco alle 11 di sera Mukwege ha preso il microfono e parlando un francese preciso e ponderato, con un tono perentorio e durissimo che ha colpito tutti gli ascoltatori, ha redarguito la diaspora congolese che si era unita per celebrarlo:

«Voi siete ricercatori, medici, professori e lavoratori, restituite tantissimo alla società in cui vivete lasciando che questo non sia riconosciuto, considerato il lavoro che fate qui» ha detto il Nobel puntando il dito indice contro la sala, quasi sbigottita e ammirata di quelle parole così chiare e precise. Denis Mukwege non si era presentato per ricevere gli onori ma per dare compiti e istruzioni, per imporre con la sua ingombrante presenza il marchio della rivoluzione, del cambiamento che parte da ciascuno di noi. Come Ghandi, che il Nobel non lo ottenne mai, è il soggetto il centro del cambiamento che si vuole vedere nel mondo e Denis Mukwege ha ammonito la diaspora congolese dal sentirsi depressa perché discriminata, sola perché esclusa dalla nostra società. Ha chiesto riscatto, risposta, dignità ai suoi ascoltatori. E li ha colpiti come con un pugno in pieno volto, prima di passare al colpo finale, quando ha parlato delle elezioni in Congo del successivo 23 dicembre.

«Vorrei concludere dicendovi che oggi voi della diaspora congolese avete ancora più responsabilità dei concittadini rimasti nel paese. Nel paese non abbiamo informazione, ci viene chiesto di votare attraverso macchine computerizzate di cui non si conoscono i sistemi, tantissime persone non hanno accesso ai computer perché manca completamente l’energia elettrica mentre voi avete accesso all’informazione. A partire dal momento in cui voi avete questa possibilità e potete usare le informazioni per cambiare le cose in Congo voi avete una responsabilità. Non accetterò mai più che puntiate il dito accusando altre persone di avere delle responsabilità: loro certamente le hanno ma le vere responsabilità sono di ciascuno di noi. E il giorno in cui noi ci prenderemo seriamente le nostre responsabilità le cose allora cambieranno».
Denis Mukwege

La sala era satura di commozione e giubilo. E dopo aver ricevuto i compiti era ora di uscire per affrontare la vita, il lavoro, la lotta. La più bella storia di Natale, quella che guarda avanti a ciò che c’è da fare, l’ha raccontata il dottor Denis Mukwege ammonendo la diaspora congolese, cui è stato chiesto uno sforzo ulteriore di denuncia, di attenzione, di protesta sulle prossime elezioni nel paese. Due giorni dopo a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, un incendio scoppiato alle 2 del mattino in uno dei magazzini centrali dove sono conservate le macchine per il voto ha distrutto l’80% di queste e del materiale elettorale e le autorità congolesi hanno cominciato a paventare la possibilità di rinviare le elezioni. Per quanto tempo dipende dal funzionario interpellato: una settimana secondo la Commissione elettorale, a tempo indeterminato secondo il governo, qualche mese secondo altri, a mai secondo l’opposizione.

La grande beffa dell’incendio è solo l’ultimo evento “strano”, dopo il veto posto ad alcune candidature e addirittura a interi movimenti politici, i numerosi rinvii della decisione circa la data delle elezioni, il clima pesante di violenza e intimidazioni, la totale assenza di informazioni sul funzionamento del voto e il divieto di comizi elettorali a Kinshasa per motivi di sicurezza. A questo si aggiunge il rifiuto del presidente Kabila di ospitare osservatori elettorali internazionali indipendenti, per certificare o meno il rispetto degli standard costituzionali del voto congolese.

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