Ep. 01

Denis Mukwege: l’uomo che ripara le donne

Quando violenze e sofferenze divengono due facce della stessa medaglia Denis Mukwege decise di dedicarsi allo studio.

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La violenza sessuale è usata come arma d’assalto nelle guerre contemporanee ma non ha mercanti né venditori, non si traffica né si commercia. Non uccide, non sempre, ma falcidia le comunità piegandone la colonna portante: le donne.

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«Oggi lo stupro non è più un effetto collaterale della guerra: ne è diventato una parte, è un’arma nei conflitti bellici. In particolare lo abbiamo visto nella Repubblica Democratica del Congo»
Denis Mukwege

Il dottor Denis Mukwege è un omone imponente, una di quelle persone di cui si avverte la presenza quando entra nella stanza. È uno di quegli elefanti che non si possono ignorare: è nato terzo di nove fratelli nel 1955 a Bukavu, una città sulla riva ovest del lago Kivu nel cuore dell’Africa nera, in un Paese che all’epoca si chiamava Congo-Leopoldville ed era una colonia belga proprietà personale dell’allora re Baldovino, fratello di Maria José, ultima regina del Regno d’Italia.

Cresciuto nello Zaire, come si è chiamato quel Paese dall’Indipendenza del 1960 fino al 1996, si sviluppa e diventa uomo sotto tre presidenti: Joseph Kasa-Vubu fino al 1965, il primo presidente al mondo a ricevere il potere direttamente da un re straniero, Mobutu Sese Seko fino al 1996, che strappò con violenza il potere al primo, e Laurent-Désiré Kabila, che nell’ottobre di quell’anno diede inizio alla prima guerra del Congo alla guida dei Tutsi in sud-Kivu, sostenuto da Burundi, Uganda e Ruanda.

Gli bastarono 7 mesi per arrivare a Kinshasa, la capitale, prendere il potere e ribattezzare il Paese Repubblica Democratica del Congo. Una dimensione, quella «democratica», ancora da realizzare: alla morte di Kabila, assassinato nel 2001, è stato il figlio Joseph a raccoglierne l’eredità ma il nuovo corso politico si è aperto nel segno della repressione violenta: 135 persone furono giudicate da un Tribunale militare speciale, 26 i condannati a morte – tra cui il cugino dello stesso Joseph Kabila – ed altri 64 al carcere, tutti coinvolti nell’assassinio del padre del neo-presidente.

Mentre nel Paese di Mobutu violenze e sofferenze divengono due facce della stessa medaglia Denis Mukwege decide di dedicarsi allo studio. Il padre è un pastore della Chiesa pentecostale e trasmette ai figli la forza della compassione (patire-con), ragion per cui Denis emigra in Burundi per studiare medicina. Tornato da medico in Congo comincia a lavorare nel piccolo ospedale di Bukavu prima di trasferirsi in Francia, dove si specializza in ginecologia presso l’Università di Angers. Rientrato nuovamente in Congo, nel 1998 fonda a Bukavu il Panzi Hospital.

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DDenis Mukwege incontra la diaspore congolese a Roma, 15 novembre 2017 © Slow News

«Mi sono specializzato in ostetricia e ginecologia perché volevo dare la vita» ha detto il dott. Mukwege nel corso dell’intensissimo incontro pubblico con la diaspora congolese «mai avrei pensato di vedere tali orrori, non ero preparato ad affrontare certe lesioni: si distrugge una persona, una comunità e una nazione intera». Mukwege non ha paura a puntare il dito contro il potere: un potere che non lo protegge, tanto che a Bukavu il medico è costretto a girare scortato dai caschi blu dell’ONU, e che anzi lo perseguita.

È dal 2012 che la sua vita è appesa ad un filo sottilissimo, da quando ha denunciato pubblicamente e dal podio più «alto», quello delle Nazioni Unite a New York, i rapimenti e gli stupri di massa nella Repubblica Democratica del Congo. Una denuncia ampia, nella quale sono state incluse accuse precise anche al governo del Presidente Joseph Kabila, colpevole di non fare abbastanza per proteggere le donne vittime di violenza, ed anzi di soffiare sul fuoco delle violenze.

«È un potere che non mostra alcuna voglia di elezioni» ha detto con voce forte di fronte alla diaspora la sera prima della nostra intervista: «Nel 2006 fummo ingenui, non si votò e nessuno protestò e si è visto che cosa succede quando il potere viene esercitato dall’alto: anche nel 2011 non si sono tenute le elezioni locali ma la questione è stata trattata come di poca importanza. Così il potere centrale ha imposto localmente i suoi uomini e ora c’è solo repressione. Siamo continuamente presi in giro: come si può credere ancora a chi promette elezioni per il 2018?» dice tra gli applausi. La sua è una missione più ampia di quella, già titanica, per «riparare le donne».

Lei ha tracciato un fil rouge tra le violenze sulle donne e l’estrazione di minerali come il Coltan in Congo. Ce lo può illustrare?

«Oggi nell’ambito della globalizzazione sono richiesti dei presupposti base nei consumi, affinché non abbiano limiti. Credo che questo sistema economico abbia mostrato tutti i suoi limiti: le persone vogliono continuare a consumare senza fine e quindi occorrono risorse senza fine. Dunque per avere tali risorse non si ha paura ad utilizzare ogni metodo possibile.

Oggi la guerra che c’è nella Repubblica Democratica del Congo non è una guerra tribale, di fanatismo religioso o tra regioni: è una guerra per controllare le risorse naturali del Congo da parte di imprese multinazionali, persone che attraverso questo conflitto semplicemente possono avere accesso ai minerali utilizzando la popolazione come degli schiavi, nelle miniere.

Ci sono zone dove ad esempio non esistono moderne tecnologie per sfruttare il Coltan: sono i bambini, persone che lavorano come schiavi, a permetterci di avere un telefono e il nostro laptop. […] Penso che ciò che osserviamo oggi in Congo sia conseguenza dell’avidità, di una mondializzazione avida. Bisogna tornare ad una mondializzazione economica positiva, che possa permettere il rispetto dei diritti umani. Ne siamo ancora lontani».

Quindi possedere uno smartphone è una responsabilità che tutti portiamo in tasca, rispetto ai crimini che vengono commessi in Congo?

«Assolutamente sì. Penso che tutte le volte che si riceve una telefonata bisognerebbe pensare alle migliaia di donne che vengono mutilate e uccise affinché questo traffico possa continuare. Penso sia un vostro diritto di consumatori, un mio diritto di consumatore, quello di poter porre la giusta domanda: ciò che consumo, ciò che utilizzo, da dove proviene? Penso che un movimento di consumatori europei, americani, asiatici, possa interrogare le multinazionali sull’uso del Coltan: credo che questo possa portare ad una soluzione e non bisogna pensare che ciò non è possibile.

È stato fatto con gli abiti che arrivavano dalla Thailandia per impedire l’importazione di vestiti cuciti da bambini. Abbiamo la responsabilità, come consumatori, di chiedere che il Coltan sia pulito. Ed è possibile farlo».

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La bandiera della Repubblica Democratica del Congo

Come si trasforma un medico in un’attivista per i diritti umani?

«Il medico che ero era obbligato a osservare le violazioni dei diritti umani. Ho iniziato a prendermi cura delle prime vittime di stupro nel 1999 e circa 10 anni dopo ho visto che il numero non smetteva di crescere ed ho iniziato a curare la seconda generazione di vittime. Poi è arrivata la terza generazione e ho capito che non potevo medicare solo le conseguenze dello stupro, ho capito che quello che si doveva fare era essere sopratutto la voce di queste vittime, denunciare al mondo e difendere i diritti di queste persone. Penso che sia stato un passaggio forzato, dovuto alla situazione catastrofica in cui versavano le vittime degli stupri di guerra».

Ha sempre denunciato la violenza sessuale e lo stupro come arma di guerra. In che modo lo stupro può diventare tale?

«Credo che quando abbiamo visto il primo caso non potessimo immaginare ciò che accadeva, pensavamo fosse qualcosa di accidentale. Dopo aver osservato la situazione più da vicino e con maggior approfondimento ci siamo accorti che lo stupro era compiuto sulle popolazioni di un preciso luogo, villaggio o comunità, sempre in modo sistematico. Erano stupri metodici, lo stesso gruppo faceva la stessa cosa sulle donne: le ferite loro inferte erano sempre dello stesso tipo, c’era un metodo. C’è un metodo. E poi erano massivi: le donne di interi villaggi, anche 300 persone, potevano essere violentate tutte nella stessa notte».

Come cambia una società quando subisce tali orrori?

«Questi stupri vengono commessi pubblicamente, per mostrare a tutto il mondo ciò che si è capaci di fare e la forza che si ha rispetto colui che viene considerato un nemico, e sono allora un’arma assoluta. Quando le violenze vengono commesse in questo modo si distruggono le donne e farlo significa distruggere le generazioni a venire. Destabilizzare la popolazione sul piano mentale significa metterla in una situazione in cui non può più resistere perché si sente svilita: violentare tua moglie o tua figlia in tua presenza è come dirti che non sei un uomo, che non vali niente.

Lo stupro, oggi, è l’arma da guerra per eccellenza: è stato utilizzato nel conflitto siriano, lo si vede in quello iracheno da parte di Daesh, che ha ampiamente utilizzato quest’arma contro le donne yazide semplicemente per diminuirne la popolazione. E più vicino a voi c’è la Bosnia, dove lo stupro è stato ampiamente utilizzato per diminuire il numero dell’altra comunità».

I figli di questi stupri come si inseriscono nella società in Congo?

«Anche questo credo faccia parte di quest’arma di guerra: una volta che si mettono incinte delle donne queste sono le donne del nemico e hanno dei bambini, che nascono nella comunità ma diventano i bambini del nemico. Non sono amati, non ricevono affetto, vengono rifiutati e il risultato è che sono bambini respinti, la società non li accetta. È un problema che abbiamo iniziato solo adesso a gestire, molto complesso da risolvere perché ci sono migliaia di bambini che non hanno alcuna appartenenza alla comunità, nessun ruolo all’interno di questa. Per questo lo stupro viene fatto apposta, per destabilizzare le comunità».

L’agenda del dottor Mukwege è pienissima, anche quando viaggia. Nel 2014, dopo essere stato candidato al Nobel per la Pace, è stato insignito del Premio Sakharov per la libertà di pensiero e per questo è richiestissimo in tutto il mondo: Slow News lo ha incontrato a Roma grazie all’interessamento dei giovani della diaspora congolese in Italia, che ci hanno aiutato ad organizzare l’intervista nella fittissima agenda del medico africano.

Nel 2004 il dott. Mukwege ed il suo staff hanno curato (c’è chi dice «riparato») al Panzi Hospital ben 4.000 donne, un numero grandissimo ma che non rappresenta la totalità degli stupri di guerra commessi nella Repubblica Democratica del Congo. Oggi al Panzi si curano circa 1.800 donne ogni anno, un numero rassicurante rispetto qualche anno fa ma altrettanto impressionante.

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Il Nobel Peace Centre di Oslo, 2018. © Slow News

Ci si potrebbe chiedere cosa spinga un grosso omone congolese, in un certo senso privilegiato perché ha potuto studiare ai massimi livelli, a rinunciare a tutto per aiutare gli ultimi ma in realtà sarebbe la domanda sbagliata. Sbagliata perché il dottor Denis Mukwege non rinuncia a quel «tutto», anzi lo possiede con forza tra le mani, utilizzandolo per portare avanti una battaglia che non è personale ma è di un popolo intero, quello congolese.

I contatti con le fondazioni e le università di mezzo mondo, con le associazioni umanitarie e le istituzioni internazionali più importanti, le cospicue donazioni alla Panzi Foundation che gestisce l’ospedale a Bukavu e la possibilità di ricevere protezione ovunque, tranne che in Congo, sono le armi non convenzionali che il dottor Mukwege utilizza per la causa del popolo e delle donne congolesi. Quelle convenzionali sono invece le sue competenze, messe a disposizione degli ultimi.

«Occorre ripristinare i diritti umani tramite una revisione della cultura consumistica della globalizzazione, perché sia più rispettosa dei diritti dei cittadini»
Denis Mukwege

Cosa la spinge ad andare avanti?

«Credo che sia il coraggio delle donne. Trovo che le donne di cui mi prendo cura abbiano un coraggio eccezionale: ritengo che se mi trovassi io nelle loro condizioni mi deprimerei, mollerei, non farei più niente. Ma quando vedo il coraggio che hanno, con tutta la sofferenza che subiscono continuando a lottare per i loro diritti, per i diritti dei loro figli e delle loro comunità, mi sento fortunato di poter fare quello che faccio per loro.

Ammiro molto le donne, credo che abbiano un senso comunitario molto forte e che non si battano mai per il proprio interesse ma per l’interesse della famiglia, della comunità, dei loro bambini. Credo che mi impressioni vedere la loro sofferenza ma la loro volontà di continuare a battersi mi permette di continuare a fare quello che faccio».

Si può dire che le donne si sono fatte speranza per lei e che lei lo è per loro?

«Quando fuggii all’estero tutte queste donne mi hanno scritto, hanno scritto al Segretario Generale delle Nazioni Unite, hanno scritto al Presidente della Repubblica Democratica del Congo, per dirmi: «vogliamo che ritorni, la proteggeremo, ci occuperemo della sua sicurezza, non ci sarà più bisogno della polizia, la proteggeremo noi».

Ero a Boston e loro iniziarono a vendere delle verdure, portando i soldi guadagnati all’ospedale di Panzi per pagare il mio biglietto: ho capito che erano determinate a far sì che io fossi lì. Ma non hanno compreso che io non potevo che tornare per via della loro forza. Ed è questa forza che mi dona forza, e può essere che il poco che io faccio le incoraggi. Credo che ci sia della complicità».

Si ringrazia Silvia Soligon per la traduzione dal francese.

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