Ep. 03

La disorganizzazione non impedì alla città di Rieti di affrontare l’emergenza in maniera adeguata.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Il terremoto, dentro

Il terremoto di Amatrice ha avuto anche degli effetti a lungo termine. Li scopriamo in questo reportage.

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Il terremoto c’era per davvero, e quella notte uccise 300 persone.

Le ore immediatamente successive al sisma furono molto confusionarie anche a Rieti, che pure si trovava sufficientemente lontana dall’epicentro per evitare vittime e crolli ingenti. «Tutti erano scesi per strada a notte fonda» ricorda Gaia, «e dopo pochi minuti già sapevamo che Amatrice era distrutta. Su Google non si trovava niente ma in quel caso le voci corsero più veloci di internet».

Amatrice è sempre stata un vanto per i reatini. Vicina al confine con l’Abruzzo, era una meta popolare non solo per le vacanze nelle seconde case ma anche un orgoglio per la forte tradizione culinaria che l’aveva resa famosa in tutta Italia. Anche per questo motivo, spiega Gaia, nei reatini si innescò subito la necessità di aiutare concretamente uno dei centri più famosi della propria provincia. «Essendo abituati ai terremoti, sapevamo che recarsi immediatamente nei posti dell’emergenza può essere inutile o addirittura dannoso. E fu così che si attivò spontaneamente una macchina di solidarietà e sostegno dal basso a favore dei terremotati».

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I primi problemi

Rieti è un capoluogo di provincia con meno di 50mila abitanti dove i gruppi politici giovanili rappresentano ancora un elemento cardine della vita sociale. Subito dopo il terremoto i due principali movimenti giovanili riuscirono a ottenere le chiavi del palazzetto sportivo e a trasformarlo rapidamente in un punto di raccolta di beni di prima di necessità da destinare alle zone terremotate. I gruppi organizzarono una rete di comunicazione molto fitta su Facebook, dove le persone venivano avvisate in tempo reale non solo di cosa serviva e non serviva portare ma anche quali percorsi fare e quali strade evitare per raggiungere Amatrice. Alcuni volontari iniziarono a fare la spola tra Rieti e Amatrice, o tra i supermercati e il palazzetto, in uno sforzo condiviso ma scarsamente coordinato.

«Alle volte succedeva che i messaggi sul gruppo Facebook fossero discordi tra loro. Dicevano “basta portare questa cosa” e poi dopo un’ora scrivevano “ci serve urgentemente questa cosa”. Altre volte ci facevano scaricare i prodotti che raccoglievamo in un punto salvo poi dirci di portarlo in un altro punto». La disorganizzazione – dice Gaia – non impedì alla città di Rieti di affrontare l’emergenza in maniera adeguata. «Ma successe solo per la compresenza casuale di due fattori: i reatini avevano già vissuto il terremoto forte de L’Aquila e Rieti è una città piccola, in cui il senso di comunità è forte e dove errori logistici o organizzativi hanno un impatto ridotto».

Se gli stessi errori fossero stati commessi in un contesto diverso, i risultati sarebbero stati disastrosi. I soccorsi sarebbero stati rallentati e un numero maggiore di persone sarebbero morte a causa di un volontariato mal gestito e organizzato, spiega Gaia, che già qualche anno prima del terremoto di Amatrice aveva iniziato a studiare all’università proprio la gestione delle emergenze.

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La Fase Zero

Quell’azione spontanea organizzata dai reatini a favore di Amatrice durò per circa dieci giorni, per sostenere quella che gli esperti dell’Ufficio ONU per gli Affari Umanitari (OCHA) chiamano Fase 1, ossia le settimane immediatamente successive al verificarsi dell’emergenza. Nonostante la gestione delle crisi si articoli in più fasi, la letteratura tecnica è concorde nell’individuare ciò che OCHA chiama Fase Zero come quella più importante. La Fase Zero è la prevenzione dell’emergenza, e consiste in un ampio ombrello di operazioni che servono a evitare che un’emergenza si verifichi o – nell’impossibilità di evitarla o prevederla, come nel caso dei terremoti – a fare in modo che il numero di vittime e la gestione delle fasi successive sia più immediata ed efficiente.

Ad esempio, la formulazione di un piano per le emergenze e una sua adeguata diffusione presso i cittadini fanno parte della Fase Zero, così come degli investimenti pubblici su edilizia antisismica o l’adeguamento degli argini dei fiumi per prevenire le esondazioni. «Ma l’esperienza diretta vissuta nei giorni successivi al terremoto di Amatrice mi fece capire che il vero investimento da fare per prevenire i disastri è quello sul senso di comunità», dice Gaia.

Secondo la sua analisi, quando un gruppo di persone che vive nello stesso posto diventa una comunità vera, la risposta alle emergenze è migliore. Migliora la resilienza della comunità, cioè la sua capacità di reagire a traumi esterni, come ad esempio un terremoto. Per farlo bisogna coinvolgere i cittadini nel processo decisionale e/o operativo legato alla Fase Zero poiché «se le persone sentono di essere coinvolte, non solo diventano una cittadinanza più informata e coesa, ma in caso di calamità sanno già cosa fare, dove andare e come comportarsi». Un’idea simile l’ha espressa lo psicoterapeuta Valerio Valeriani nella seconda puntata de “Il Terremoto Dentro”. Secondo Valeriani una delle principali cause dell’attuale malessere delle popolazioni terremotate è l’assenza di una catena decisionale chiara e trasparente e l’esclusione dei cittadini dalle decisioni riguardanti i processi di ricostruzione post-sisma.

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Nel settembre del 2017, le idee di Gaia sono convogliate in BRETmaps (Building Resilience Empowering Technologies & Maps), una start-up innovativa a vocazione sociale con l’obiettivo di potenziare il senso di comunità e il coinvolgimento diretto della cittadinanza nei comuni italiani a rischio idrogeologico, che secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) sono il 91% del totale. Dietro pagamento alla start-up, i Comuni potevano dare modo ai propri cittadini di scaricare un’app sul telefono attraverso la quale poter segnalare alle istituzioni e georeferenziare situazioni di potenziale rischio idrogeologico, quali argini prossimi al crollo o infrastrutture logore e ricevere, in caso di emergenza reale, dati ed istruzioni utili alla sicurezza ed alla gestione dell’emergenza stessa. Anche se, dice Gaia, «il nostro business model era in realtà basato principalmente sullo sviluppo del senso di comunità e il potenziamento della resilienza delle popolazioni».

La principale ricerca propedeutica allo sviluppo dell’idea imprenditoriale è avvenuta a Genova, città simbolo dei problemi idrogeologici del territorio italiano. BRETmaps è stata attiva fino al 2018, vincendo premi e concorsi prestigiosi, tra cui il Tavolo Giovani della Camera di Commercio di Milano e il bando SIAVS della Regione Lombardia per le start-up a vocazione sociale. Nel 2017 il magazine StartupItalia ha incluso BRETmaps nella lista delle 100 migliori startup del Paese.

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La politica ostile

Nonostante i successi imprenditoriali della start-up, BRETmaps aveva un problema con la politica. «L’applicazione di fatto creava un sistema di controllo sull’operato delle amministrazioni. Una volta fatta una segnalazione, in caso di problemi causati dal mancato intervento istituzionale era molto semplice dimostrare che gli uffici competenti sapevano delle criticità ma non erano intervenuti». Gaia racconta che ciò rappresentò un ostacolo notevole nella diffusione del modello BRETmaps su vasta scala. «Questo significa che uno strumento fatto per la collettività e atto a evitare morti e danni ingenti veniva boicottato per la paura dei Sindaci di essere monitorati. Un’assurdità».

Oltre ad aumentare la resilienza e il senso di comunità nei Comuni italiani, BRETmaps consentiva alle amministrazioni anche di risparmiare denaro. In numerosi Comuni il sistema utilizzato dalle istituzioni per comunicare coi cittadini in caso di emergenza o rischio di emergenza è ancora basato sugli SMS: il Comune firma un contratto con gli operatori telefonici per inviare sporadici messaggi di testo a un prezzo minore di quello standard, come di norma succede per qualunque acquisto effettuato su vasta scala. BRETmaps invece consentiva un flusso di comunicazione costante, più facilmente aggiornabile e più affidabile ad un prezzo pagato solo una tantum. «Ma le preoccupazioni politiche di molti amministratori, salvo alcuni casi di Comuni particolarmente virtuosi, hanno alla fine prevalso», spiega Gaia.

La società oggi ha chiuso per decisione personale dei soci, e Gaia ha un altro lavoro in un altro ambito. Dice che in qualche modo il terremoto le è rimasto dentro, così come la convinzione che per evitare o contenere i danni delle emergenze bisogna investire sulle comunità e la loro resilienza. «Il post-sisma non è solo una questione di ricostruzione edile, ma anche sociale», dice, concordando con lo psicoterapeuta Valeriani. «Dovremmo capire che serve investire sulle case delle persone ma anche sulle persone stesse, le loro relazioni e il modo in cui comunicano con le istituzioni. Ma questa è una questione politica, e quindi ci vorrebbe una volontà politica. Noi non l’abbiamo quasi mai trovata».

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