Ep. 05

La moda del riciclo

Riscoprire le radici e riadattatare la produzione: un modo per sopravvivere.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Il diavolo veste cheap

La moda è un’industria e come tutte le industrie ha al suo interno tante anime diverse.

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The only antidote to a throwaway society is to keep.
Orsola de Castro

Riparare, aggiustare, decorare, ricamare. Sono tutte azioni rivoluzionarie, che possono cambiare per sempre la nostra percezione di armadio sostenibile. Questa volta partiamo dalla soluzione, perché il problema è chiaro ed è sotto gli occhi di tutti. Il nostro pianeta è al collasso, e l’industria della moda ha un peso enorme per le sorti di tutti noi. Il riciclo del tessile è una delle chiavi per cambiare il paradigma dell’economia lineare produco-compro-butto. E se i numeri globali sono sconfortanti (dei milioni di tonnellate di abiti che buttiamo ogni anno nelle discariche solo l’1% viene effettivamente riciclato), l’Italia si fa portavoce di un cambiamento radicale. Il fiore all’occhiello del riciclo è il distretto tessile di Prato, che da solo produce il 15% dei tessuti riciclati a livello globale.

Mentre scrivo questo articolo siamo ancora in piena emergenza Covid-19 e mi piace pensare che da questa crisi possiamo uscirne più forti e consapevoli. Come hanno fatto le aziende tessili pratesi che, messe in ginocchio dalla crisi economica del 2009, hanno riscoperto la loro radici e riadattato la loro produzione. Tra queste, le aziende di riciclatori tessili hanno un’importanza fondamentale per la sostenibilità dell’industria moda. La figura del riciclatore tessile esiste da quando esistono i prodotti tessili, in tutto il mondo.

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Tessuti riciclati

Uno di essi è Giuseppe Allocca, artigiano e produttore di maglieria, che si è creato una nicchia di mercato quando ancora adolescente lavorava nell’azienda di famiglia: «Andavo nella fabbrica di mia zia nel pomeriggio o in estate. Ho iniziato a lavorare sui macchinari, ma soprattutto a vendere avanzi di produzione ad amici e compagni di scuola». Da lì a svuotare il magazzino il passo è breve: Beppe (da qui in poi lo chiameremo così) inizia a fare i mercati e ad avere un ottimo riscontro da parte dei clienti. Ecco che nasce Lofoio, ramo aziendale della zia e poi, una volta che l’azienda chiude per la crisi, unico marchio a portare avanti la tradizione e il lavoro di famiglia. Beppe eredita tutti i macchinari della zia e accetta la sfida insieme alla sorella e alla madre. «Dal 2013 inizia la parte più interessante: cominciamo a collaborare con i cenciaioli».

Un’altra definizione di cenciaioli è straccivendoli. Non molto nobile, ma rende l’idea di come questa professione sia stata bistrattata fino a qualche anno fa. «Noi abbiamo sempre utilizzato una parte di filati riciclati, ma non era una cosa che si gridava ai quattro venti, si tendeva semmai a nasconderlo, perché dava l’idea dell’usato, di qualcosa di seconda mano». Fino a che l’usato non è tornato in auge ed è diventato una materia prima seconda importantissima. Il cenciaiolo, una figura professionale che a Prato (ma non solo) si tramanda da secoli, è tornato di moda. E le aziende pratesi non lo nascondo più, anzi, fanno del riciclato il loro punto di forza. Quello che hanno fatto a Prato è stato vedere nella crisi un’opportunità per cambiare le leggi del mercato e riprogettare un nuovo modo di fare moda. E da lì sono entrati in piena regola nell’economia circolare, dove tutto quello che si produce viene reimmesso nella catena di produzione fino a riutilizzare gli stessi scarti.

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«La verginità non è più una virtù», annuncia trionfale Beppe. Ed è una verità sacrosanta, oltre che uno slogan perfettamente calzante. Il mestiere del cenciaiolo è diventato così richiesto che Beppe lo è diventato a sua volta: «Tutti i capi che facciamo da due anni a questa parte sono prodotti con filati riciclati. E se prima arrivava in azienda la rocca col filato senza che io entrassi direttamente nel merito del processo di riciclo, ora sono cenciaiolo a tutti gli effetti e lavoriamo il materiale per tutta l’intera filiera, fino al prodotto finito».

Il lavoro del cenciaiolo è un’arte e come tale richiede sì l’utilizzo dei macchinari, ma solo in una secondo momento. La parte della cernita e della “stracciatura” (la fase in cui si levano bottoni e tutte le parti di non tessuto) vengono fatte rigorosamente a mano. Come funziona? Il cenciaiolo seleziona i capi, toglie quello che non è necessario e poi li suddivide per colore. Il tempio del cenciaiolo sono dei grandi magazzini in cui vengono ammucchiate pile di stracci, che poco prima erano abiti, suddivise per tonalità. In questo processo entrano in gioco solo i capi puri, ovvero quelli composti da filati naturali di un unico tipo. In altre parole, possono essere riciclati principalmente indumenti di lana, cashmere e cotone. “Il margine di non purezza deve essere bassissimo, anche se poi il prodotto finito può essere un misto: ad esempio lana vergine e lana riciclata”. Il che ci dà un indizio su come possiamo comportarci come consumatori: guardare sempre l’etichetta dei capi e prediligere quelli non misti, prodotti con un unico filato. Ad esempio, 50% lana e 50% cashmere o 100% cotone.

Anche il colore è un elemento essenziale per la buona riuscita di un filato riciclato. I capi devono essere monocolore, tuttalpiù con qualche inserto colorato, ma non possono avere troppe nuance mescolate. «I casi sono due: o il cenciaiolo toglie manualmente gli inserti colorati (che siano righe o pois) oppure li mette nel rossino». Cos’è il rossino? Nel monologo La genesi del rigenero, creato e portato in scena dallo stesso Beppe (che sì, è anche un teatrante), la questione del colore è al centro: «Per tutto quello che non è tinta unita, il pratese tipo del 1850 inventa il rossino. Che è quella montagna di cose che non sai dove mettere. Che colore viene dal rossino? Non si sa. Il cenciaiolo esperto riesce a manovrare il colore del rossino». Di fatto, il rossino è quella montagna di capi colorati misti che darà una tinta random, che cambia ogni anno.

Insomma, a Prato non si butta via niente, nemmeno l’acqua. Oltre alle 143 mila tonnellate di materiale tessile che si riciclano ogni anno, 300 industrie del distretto sono collegate all’acquedotto industriale GIDA, che tramite un sofisticato sistema di depurazione delle acque reflue di privati e industrie riesce a riutilizzare la stessa acqua che le aziende scaricano in fase di produzione.

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L’esempio virtuoso pratese non è il solo a fare da baluardo dell’economia circolare. Esistono molte realtà imprenditoriali, per lo più medie e piccole, che usano gli scarti tessili per produrre collezioni. Tra queste c’è la cooperativa sociale Quid, che recupera scarti o avanzi di magazzino per creare, tramite il lavoro di centinaia di lavoratrici e lavoratori in difficoltà, delle collezioni donna che non hanno nulla da invidiare a quelle viste in passerella. La stilista statunitense Eileen Fisher ha creato il progetto Waste No More, che si occupa di recuperare qualsiasi tipo di tessile per crearne capi donna e accessori per la casa. E potremmo andare avanti (quasi) all’infinito.

La conoscenza dei cenciaioli ci insegna che sarebbe meglio comprare solo capi con filati naturali ed evitare il poliestere. E non solo per la questione riciclo: vestire plastica da testa a piedi fa sì che l’aumento delle microplastiche, che vengono rilasciate a ogni lavaggio, stia letteralmente invadendo i mari. Se vi capita di imbattervi in documentari o inchieste sullo stato di mari e oceani capirete di cosa sto parlando. Nel mare magnum di plastica c’è chi la plastica la recupera per farne filati riciclati. È un’azienda italiana che recupera il nylon dai rifiuti delle discariche e da quelli abbandonati in mare per rigenerarlo e creare dei filati che hanno la stessa qualità e resistenza di quelli originari. Quando sarete indecise su quale costume da bagno comprare per quest’estate, la marca ECONYL® vi darà la garanzia di indossare un bikini in nylon riciclato.

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Tengo o lascio?

Quello che ci deve interessare da consumatrici consapevoli è che esiste un modo nuovo di comprare, ma ancora più importante, è necessario prendersi cura dei propri capi, per evitare di alimentare quella montagna di rifiuti tessili che ogni anno incrementano la CO2 presente nell’atmosfera. O per evitare di alimentare inconsapevolmente il mercato nero dell’usato.

I cassonetti gialli e bianchi non sono sempre il miglior posto dove far finire gli indumenti dismessi. La maggior parte di noi crede ingenuamente che i capi buttati nei cassonetti vadano a finire a un’entità non meglio definita come “poveri”. La realtà è che spesso questi abiti finiscono nelle mani della criminalità organizzata, del mercato nero dell’usato o direttamente nelle discariche abusive. L’unico modo per essere certi della destinazione dei capi che scartiamo è verificarne l’autenticità: quelli autorizzati riportano l’indicazione del comune e dei partner (siano esse cooperative sociali o aziende private) con cui il comune ha stretto accordi per la gestione dei rifiuti tessili. Il resto dei cassonetti è abusivo. L’alternativa è quella di far recapitare i capi direttamente all’ente benefico prescelto o di persona a chi ne ha bisogno. Esistono numerose realtà che possono accettare i vostri indumenti: case famiglia, consultori, parrocchie, centri nascita. L’importante è che i capi siano in ottime condizioni, lavati e igienizzati.

In Italia non sono molti, ma all’estero sono delle realtà radicate. Si tratta degli charity shop, negozi il cui ricavato va a finanziare direttamente le casse di associazioni no profit. Funziona più o meno così: si entra nel negozio e si lascia la propria donazione, i capi vengono selezionati e sanificati e poi venduti come indumenti e accessori di seconda mano. Lo scopo di questi negozi è quello di far durare il più possibile ogni singolo abito, oltre che di contribuire a cause umanitarie. Secondo Karin Bolin, presidente di Humana People, allungare la vita di un abito anche solo di nove mesi riduce l’impatto negativo sull’ambiente del 20%.

Cosa succede agli abiti che non passano la prima selezione dei charity shop? Vengono ammassati in enormi balle e venduti ad aziende che basano il loro profitto proprio sulla compravendita di indumenti usati. Si tratta solitamente di grandi gruppi, molti dei quali hanno stabilimenti sparsi tra gli Stati Uniti e l’Europa. Ogni capo usato ha un suo prezzo di mercato, in base all’area geografica. Ci sono paesi dove l’intimo ha un valore maggiore di una borsa e dove i vestiti valgono meno di un paio di scarpe. Di solito queste aziende guadagnano sui pochi capi firmati o vintage che trovano nelle centinaia di tonnellate che smistano ogni giorno. Gli indumenti di qualità inferiore vengono spediti in Africa, dove vengono comprati da 50 centesimi fino a un massimo di un dollaro al chilo. Il fatto è che ora anche la popolazione africana è diventata esigente in fatto di qualità e mode, quindi accade che molti abiti finiscano inceneriti o in discarica.

C’è anche una parte di indumenti usati che viene salvata dal macero e riutilizzata come imbottitura, isolante termico, stracci ad uso industriale. In tal senso, esistono delle aziende che investono molto in ricerca e sviluppo e stanno lavorando a dei prototipi innovativi: scarti tessili che si trasformano in compensati o che si trasformano in packaging. La via da percorrere è ancora lunga, ma i primi segnali di un impegno concreto per far sì che i rifiuti tessili – e in generale tutti i rifiuti – non vengano semplicemente abbandonati o fatti sparire ci sono e si fanno sentire.

«Gran parte degli indumenti che diamo in beneficenza non finisce nei negozi di vintage né viene usata come imbottitura delle auto, e neppure come stracci per uso industriale. Viene venduta all’estero. Dopo che sono stati prelevati i preziosi indumenti vintage e i capi inutilizzabili sono stati inviati alle imprese che producono fibre e strofinacci, l’abbigliamento che resta viene raggruppato per categorie, incellophanato, legato, imballato e venduto ai commercianti di abiti usati di tutto il mondo. L’industria dell’abbigliamento di seconda mano è stata orientata alle esportazioni fin quasi dall’introduzione degli indumenti prodotti in serie». Elizabeth Cline nel suo libro Overdressed specifica anche che “l’abbigliamento usato è attualmente la prima esportazione degli Stati Uniti per volume”. Questo dà l’idea di quanto, come consumatori, siamo responsabili dell’impatto ambientale.

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Oltretutto, la qualità dei vestiti che compriamo si è abbassata notevolmente e fa sì che un singolo capo abbia una vita ancora più breve. È un concetto già sentito, ma è necessario ripeterlo: se un capo nuovo venduto al dettaglio costa poche decine di euro (a volte pochi euro), da qualche parte l’azienda deve aver risparmiato. Di solito economizza sulla qualità dei materiali (il poliestere costa molto meno delle fibre naturali) e sul lavoro di chi quegli indumenti li fa. Sono due le vie da percorrere: scegliere con attenzione i marchi dei nostri vestiti e allungare il più possibile la vita dei capi che possediamo già. Ma l’imperativo che deve cambiare il paradigma del consumo mordi e fuggi è solo uno. Comprare meno.

Un modo intelligente e scrupoloso per allungare la vita dei propri indumenti, ed evitare loro una lenta agonia in discarica, consiste nell’adottare soluzioni alternative allo scarto. Dicevamo all’inizio: ricucire, rattoppare, applicare, tingere. Se il cucito creativo non fa per voi, di sarte è pieno il mondo. Ma non solo. Sui social ci sono decine di pagine e siti che propongono modi per usare le calze di nylon, per riusare un paio di vecchi leggins, per cambiare faccia a un vecchio maglione. Esistono tutorial sulla tinta naturale da fare a casa, corsi di cucito base in tutte le salse, trucchi per recuperare vecchie magliette e farne dischetti di cotone lavabili. Prima di buttare un indumento, pensateci.

Cimentarsi in salvataggi d’emergenza può essere una piacevole distrazione.

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