Ep. 01

La moda del fast fashion

Ogni secondo, un camion colmo di vestiti si svuota in un’enorme discarica a cielo aperto.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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La moda è un’industria e come tutte le industrie ha al suo interno tante anime diverse.

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La moda ai tempi dei post-millennial

Immaginate un camion della spazzatura colmo di vestiti. Immaginate ora un’enorme discarica a cielo aperto dove ogni secondo questo camion svuota la sua montagna di abiti. Questa è esattamente la quantità di abbigliamento che buttiamo ogni giorno: l’equivalente di un camion al secondo. I dati non sono rincuoranti. Ogni anno l’industria della moda riversa nelle discariche 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili. In parte sono scarti industriali, la maggior parte sono abiti dismessi. Quegli stessi abiti che lasciamo nei cassonetti per la raccolta indumenti nella convinzione che verranno indossati da gente bisognosa.

La verità è che circa l’80% degli capi viene buttato in discarica o incenerito. A livello globale, solo il rimanente 20% viene riciclato o reimmesso nella catena commerciale tramite i negozi dell’usato. Queste cifre hanno una ragione d’essere ben precisa, che chiama in causa ognuno di noi: produciamo e compriamo troppi vestiti. È dal 2000 che ogni anno il numero degli abiti prodotti raddoppia. Dagli anni ’60 l’industria della moda ha triplicato la produzione di capi. Per la prima volta, nel 2014, si è raggiunto il traguardo del miliardo. Un miliardo di vestiti prodotti in un solo anno. Più li desideriamo, più li acquistiamo e maggiore sarà l’offerta da parte delle aziende.

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Basti pensare a quanti capi abbiamo nel nostro armadio. Mettetevi alla prova: scrivete su un foglio il numero esatto dei capi che possedete. Senza sbirciare, a memoria. Scrivete esattamente il numero di t-shirt, jeans, pantaloni, scarpe, giacche, camicie, gonne che avete nel guardaroba. Inclusi gli abiti che avete messo in un angolo della cantina o del ripostiglio. Poi aprite gli armadi e contateli. Ancora meglio, ammucchiate sul letto tutto quello che possedete. Probabilmente il letto non vi basterà. È impressionante quanti vestiti riusciamo ad accumulare in una sola vita, a prescindere dalle abitudini di acquisto di ognuno di noi.

La moda, nell’immaginario comune, è spesso associata a frivolezza e superficialità. In realtà è un argomento molto più serio di quanto si possa immaginare. È un’industria globale che muove trilioni di dollari, spende un’enorme quantità di risorse ambientali e umane, e chiama in causa tutti i principali settori dell’industria: agricoltura (per la coltura di cotone, lino e canapa), agricoltura animale (pelli, lana, pelliccia, cashmere), petrolio (poliestere), miniere (metallo e pietre), il settore edilizio, la logistica e il manifatturiero. Tutti dobbiamo vestirci, tutti siamo influenzati dalle tendenze modaiole, e ognuno di noi, almeno una volta nella vita, ha fatto acquisti non necessari. La moda, che ci piaccia o no, è un argomento che riguarda tutti: influenza il nostro portafogli, l’immagine che abbiamo di noi stessi, gli spazi del nostro guardaroba. E ha conseguenze irreversibili sul pianeta e sulla nostra salute.

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Le mode della moda

Negli ultimi 70 anni il processo di acquisto del consumatore medio è radicalmente cambiato. Il contesto culturale e sociale è sempre stato il principale motore della moda, che non è solo espressione della propria personalità e creatività: in svariate epoche ha rappresentato libertà e autoaffermazione. Negli anni ’30 Coco Chanel liberò la donna dalla costrizione dei corsetti, la seconda guerra mondiale legittimò i pantaloni femminili: le donne dovevano sostituirsi agli uomini partiti per il fronte e lavorare al posto loro; negli anni Sessanta la stilista britannica Mary Quant rappresentò l’emancipazione femminile con la minigonna, Giorgio Armani creò completi di taglio maschile per le donne in carriera degli anni ’80. Ogni epoca ha avuto la sua piccola o grande rivoluzione di costume, tradotta poi in rivoluzione di stile. Oggi si rincorrono i trend. Le riviste femminili e di moda lanciano a ogni numero le tendenze del momento, gli utenti fanno man bassa di capi instagrammati da influencer e vip, lo street style è l’ossessione di tutti i cool hunter. Nessuna rivoluzione degna di nota, se non quella portata dalla globalizzazione, che ci ha reso schiavi di mode passeggere e di acquisti usa e getta.

Per una teenager della classe media cresciuta a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 i miti modaioli erano grosso modo questi: il bomber, gli scaldamuscoli, l’abbigliamento strecht in lycra, i jeans slavati, le tute in acetato, le stampe fluo e il marsupio. I leggins allora si chiamavano fuseaux, i pantaloni erano tassativamente a vita alta e le spalline imbottite erano la norma. La figura mitologica del paninaro di città si era spinta fino alla provincia, dove i trend, prima della globalizzazione, arrivavano sempre con qualche mese di ritardo. Per tenersi al passo era necessario andare alla conquista di Milano con incursioni nelle vie più famose per lo shopping: corso Vittorio Emanuele e via Torino su tutte. A margine il mercatino delle pulci di Senigallia, tappa obbligata per chi disponeva di una paghetta settimanale irrisoria. Il budget dei teenager della classe media e operaia di allora era sempre risicato, al punto che si tornava a casa con pochi sacchetti e un desiderio latente ancora più impellente.

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Giulia, invece, va a fare shopping ogni fine settimana. Per lo più con sua mamma: una volta per comprare un paio di jeans, la settimana dopo per un paio di sneaker, il sabato successivo semplicemente perché fare un giro per negozi è rilassante e i prezzi delle grandi catene di abbigliamento permettono di comprare quello che si desidera con poche decine di euro. Una volta ogni tre mesi va a fare shopping con le amiche a Milano, dove fa tappa nelle stesse zone considerate cult negli anni ’80 (qualche abitudine, se non altro, è rimasta la stessa). In quel caso ha un budget di 100 euro che gestisce in autonomia. Giulia ha 15 anni, frequenta la terza superiore di un liceo scientifico della provincia milanese. È una ragazza comune, ma non banale. «Mi vesto per stare bene con me stessa, non per piacere agli altri», mi dice. La sua è la generazione dei post-millennial: ragazzi che non solo sono nati nell’era del digitale, ma anche nell’era della moda a basso costo, quella in cui l’economia di larga scala delle grandi aziende dell’abbigliamento impone prezzi bassi per indurre a consumare sempre di più.

Dagli anni ’80 a oggi sono cambiate molte cose, ma non due concetti fondamentali: la moda è ciclica e i trend tengono ancora sotto scacco la maggior parte dei consumatori, soprattutto i più giovani. In quasi quarant’anni di consumismo sfrenato, gli acquisti di abbigliamento pro-capite sono aumentati a dismisura. Il motivo sta tutto nel prezzo: nell’ultimo ventennio il costo medio di un capo ha subito una caduta libera, senza precedenti e quasi ininterrotta. Storicamente, un abito non è mai costato così poco. In proporzione, paghiamo l’abbigliamento meno di quanto spendiamo per mangiare. L’inflazione ha toccato la benzina, il prezzo degli immobili, dei servizi, dei beni di prima necessità. Perfino della sanità pubblica e del welfare. Ma non l’abbigliamento, il cui costo è inversamente proporzionale alla sua diffusione.

Più produciamo vestiti, meno costano.

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Questa strana equazione ha un nome: fast fashion. La moda a basso costo di marchi come H&M, Zara, Mango e Forever 21 ha trasformato in modo radicale la percezione del valore di un capo. Giulia, ad esempio, sarebbe disposta a spendere un massimo di «15 euro per una t-shirt, 20 euro per un paio di jeans». Il valore sale quando si parla di scarpe: «Le mie preferite sono le Nike. Gioco a tennis e quando devo prendere un paio di sneaker di solito prendo le Nike, perché durano tanto e le puoi mettere con qualsiasi cosa. Quanto spenderei? Più o meno 100 euro. Per un paio di ballerine pagherei al massimo 50 euro».

La percezione di Giulia è la stessa condivisa da molti consumatori: se per un abito si bada poco al tipo di tessuto o alle cuciture, quando si tratta di scarpe la qualità deve essere garantita o da un marchio universalmente conosciuto oppure da materiali considerati qualitativamente di buon livello, come cuoio e pelle. In fin dei conti, con le scarpe dobbiamo camminarci ogni giorno, il loro scopo è quello di durare nel tempo ed essere comode. Molte nonne tramandano a figlie e nipoti una regola ferrea in fatto di acquisti: mai risparmiare su reggiseni e scarpe.

È interessante come invece la qualità dei vestiti si sia abbassata senza che nessuno abbia battuto ciglio. Solo 40 anni fa la quasi totalità della popolazione femminile sapeva cucire: farsi gli abiti in casa con i cartamodelli era la normalità, spesso una necessità. Molte ragazze erano obbligate a imparare il mestiere della sarta e tutte sapevano distinguere i tipi di cuciture e di tessuti. Oggi la maggior parte di noi non è in grado di attaccare un bottone. È bastata una generazione per vedere svanire l’arte del taglia e cuci. Sono bastati 20 anni di fast fashion per cancellare la capacità di distinguere un abito di buona fattura da quattro pezzi di cotone tenuti insieme da cuciture veloci e poco resistenti.

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Siamo arrivati esattamente dove la moda a basso costo voleva portarci: l’epoca in cui tutti possono permettersi ogni tipo di capo spendendo poco. A dirla così, sembrerebbe molto democratico: dare a tutti la possibilità di acquistare quello che vogliono quando vogliono. Ma siamo davvero sicuri che la fast fashion sia democratica? Negli ultimi 20 anni ci siamo abituati a comprare capi tendenzialmente tutti uguali, spendendo pochi euro e accumulando capi mai messi. “Costa così poco che al massimo, se non mi va bene o cambia la moda, lo butto”. È il pensiero di molti quando comprano un indumento economico. Ci siamo adeguati ai trend imposti dalle grandi catene, sacrificando la qualità e riempiendo i nostri armadi di capi fatti in serie. Abbiamo perso in originalità, e alla fine ci siamo anche impoveriti, perché a furia di comprare in modo compulsivo molto più spesso di quanto non avremmo fatto negli anni ’80 il portafoglio si è svuotato. E i nostri guardaroba si sono riempiti.

Del resto, è la quintessenza dell’industria fast fashion: produrre enormi quantitativi di capi basici, possibilmente in paesi dove la manodopera è a basso costo, con tessuti scadenti e con un ricambio velocissimo. Le stagioni, uno dei pilastri della moda, sono scomparse per lasciare spazio a 52 collezioni annuali. Il che si traduce in capi nuovi ogni settimana, volumi enormi e prezzi al dettaglio bassi. Il principio base su cui fa leva questo tipo di industria sta proprio nella velocità e nei volumi di fruizione del prodotto: il capo deve essere prodotto in grandi quantità e deve essere disponibile subito nei negozi. Ci sono catene che hanno nuovi arrivi ogni giorno.

Secondo la giornalista statunitense Elizabeth L. Cline, autrice di Overdressed, “Il vero successo della fast fashion […] sta nel vendere una quantità senza precedenti di vestiti. […] La fast fashion ci può offrire prezzi bassi solo se i consumatori continuano a comprare nuovi vestiti appena questi arrivano nei negozi”. I clienti abituali di catene come Zara e H&M sono soliti andare una o più volte a settimana in negozio per vedere i nuovi arrivi.

I consumatori della fast fashion, non c’è da sorprendersi, acquistano di più degli altri consumatori. Molto di più.
Elizabeth L. Cline

Giulia mi confida che il costo non è il primo elemento di valutazione nel suo processo di acquisto: «Il prezzo non è la prima cosa che guardo. Prima guardo il capo di abbigliamento, se mi piace, e poi guardo il cartellino del prezzo. Ovviamente se una maglietta costa 30 euro evito di prenderla». Nel caso dei capispalla guarda anche l’etichetta: «Per borse e giacche guardo l’etichetta per sapere se sono fatte in pelle o pelliccia. È una questione etica». E in questo i post-millenial sono molto più attenti e critici. È una generazione sensibile al tema ambientale, dotata di maggiore senso critico e consapevolezza. I Friday for Future hanno sicuramente aiutato. Ma non basta a fermare l’impulso irrefrenabile di comprare vestiti a pochi euro.

La fast fashion non solo ha stravolto le leggi di mercato, ha cambiato l’intera industria del tessile e dell’abbigliamento. E ha avuto effetti devastanti sull’ambiente e sull’uomo, trasformandosi nel giro di qualche decennio in una delle industrie più impattanti del pianeta: è energivora, richiede enormi quantitativi d’acqua (dalla coltivazione delle fibre naturali alla produzione, fino al lavaggio domestico dei capi) ed è inquinante per il suolo e le acque. Le pile di abiti dismessi nelle discariche rilasciano sostanze nocive e microplastiche nel suolo, che poi finiscono nei corsi d’acqua, nei mari, e infine nella catena alimentare. È un circolo vizioso, che riguarda ognuno di noi: le nostre abitudini influiscono enormemente questa catena. La buona notizia è che lentamente l’industria della moda sta facendo inversione di rotta o, per lo meno, sta cercando di aggiustare il tiro. In tal senso l’Italia si sta facendo portavoce di un cambiamento epocale, partito dalla Gran Bretagna dal manifesto di Kate Fletcher e arrivato a essere un movimento sociale sistemico per il made in Italy. Per il lettori di Slow News il termine risulterà familiare: stiamo parlando della slow fashion, ovvero una moda di valore e di qualità, sia per l’ambiente che per le persone.

Errata corrige: in un primo momento, la generazione di Giulia è stata indicata come millennial. Nell’accezione corrente, in realtà, Giulia è una post-millennial, o facente parte della Generazione Z. Abbiamo corretto. L’errore ci è stato segnalato da Andrea G., uno degli abbonati a Slow News. Se vuoi leggere di più a proposito delle classificazioni generazionali, c’è questo bel pezzo del Pew Research Center che le spiega (Michael Dimock, Defining generations. Where Millennials end and Generation Z begins, Pew Research Center, Washington, D.C). Se preferisci leggere in italiano, c’è un pezzo dell’Accademia della Crusca che ne parla, proprio a partire dallo studio del Pew Research Center.

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