Ep. 02

Dalle Mesopotamia al Cilento, biodiversità naturale e umana

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
I grani del futuro

Un nuovo modello di agricoltura e di economia sostenibile che tiene insieme memoria e futuro, ambiente e uomo, dando valore alle persone, al suolo e al cibo sano.

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La primavera è quasi agli sgoccioli.

Il mese di aprile del 2020 è stato il mese più caldo mai registrato al mondo, alla pari di quello del 2016, ma l’evento è passato nel caotico e bulimico vortice di notizie.

Nel frattempo, il primo lungo lockdown è stato allentato e la vita sembra scorrere come sempre. O quasi. Ci lasciamo alle spalle una pandemia che ha causato un numero altissimo di morti.

Nel frattempo, i fenomeni climatici estremi – 239 solo nel 2020 e 20 morti – sono sempre più frequenti e oltre a colpire persone, case e infrastrutture hanno delle conseguenze sulle campagne, sull’agricoltura e sul cibo. Un report della FAO che sarà pubblicato nel 2021 rivelerà che le perdite agricole dovute alle calamità naturali stanno crescendo vertiginosamente, infliggendo danni economici e mettendo a rischio la nutrizione. Eppure c’è chi qualche pratica concreta per adattare le colture ai cambiamenti climatici, preservare l’agro-biodiversità e garantire un reddito agli agricoltori la sta mettendo in campo da qualche decennio. E la sta diffondendo. Dalla Mezzaluna Fertile all’Italia, fino ad arrivare al Parco del Cilento, Alburni e Vallo di Diano.

L’agricoltura è alla base della sussistenza di oltre 2,5 miliardi di persone nel mondo, la maggior parte delle quali nei paesi in via di sviluppo a basso reddito, e rimane un fattore chiave per lo sviluppo. In nessun altro momento della storia l’agricoltura ha dovuto affrontare una tale serie di rischi familiari e sconosciuti, interagendo in un mondo iperconnesso e in un paesaggio in precipitoso cambiamento.

Decidiamo di intraprendere il nostro viaggio attraverso le stagioni dell’anno e del grano per andare a incontrare i protagonisti di questo percorso di rinascimento ecologico: Ivan di Palma e le persone che fanno parte della cooperativa sociale Monte Frumentario-Terra di Resilienza.

L’appuntamento con Tazio Recchia, un uomo sulla cinquantina, con occhi cerulei e i modi gentili, è fissato una mattina di metà giugno ad Atena Lucana, un piccolo borgo in provincia di Salerno, dove ha sede Domus Otium, l’azienda agricola di Ivan Di Palma. Tazio è consigliere della Rete dei Semi Rurali ed è socio della cooperativa sociale Monte Frumentario-Terra di Resilienza ma, al di là dei “titoli”, quest’uomo timido e garbato è un profondo conoscitore dei semi, delle piante e della natura.

«Quello che noi stiamo cercando di fare è riscoprire un lavoro che gli agricoltori facevano fin dall’antichità ed era quello di mantenere il seme e di saperlo gestire da un anno all’altro», spiega, mentre comincia a estrarre da una borsa di vimini dei sacchetti contenenti decine varietà di semi, di forme e colori diversi. «Questi semi arrivano da quella parte della Siria che giace nella Mezzaluna Fertile, cioè quella che va dal confine sud con la Giordania a quello del Nord-Est con l’Iraq. Sono miscugli complessi che sono stati messi insieme da Salvatore Ceccarelli e Stefania Grando, i quali hanno avuto l’intuizione di teorizzare e mettere in pratica il miglioramento genetico partecipativo».

Per i non addetti ai lavori, il miglioramento genetico partecipativo fatto insieme ai coltivatori è un tipo di miglioramento genetico capace di aumentare la produzione agricola a livello delle singole aziende e, al tempo stesso, l’agrobiodiversità e la partecipazione degli agricoltori. Perché è importante? Perché in un contesto sempre più incerto avremo bisogno di piante capaci di tollerare temperature e condizioni diverse da quelle attuali.

I miscugli delle popolazioni evolutive ottenute con il miglioramento genetico partecipativo contengono diversità tra i semi; alcuni sono alti, altri bassi, alcuni sono resistenti alla siccità, altri all’acqua. Salendo o scendendo ad altezze diverse, resisteranno meglio agli attacchi esterni. Per esempio, le varietà che subiscono la siccità produrranno meno a vantaggio delle varietà che resistono ma quando si andrà a raccogliere il seme per l’anno successivo, si avrà un seme che già si è adattato a quella condizione climatica. Il miglioramento genetico praticato dai centri di ricerca o dalle multinazionali dei semi (non partecipativo) ha mirato quasi esclusivamente alla produttività, alla resistenza alle malattie e ad uniformare le colture.

La diffusione, la coltivazione e la trasformazione delle popolazioni evolutive in Italia, soprattutto quelle di frumento tenero e duro, sono andate al di là di ogni aspettativa dando origine a nomi diversi sia della granella che dei prodotti trasformati, ma anche ad informazioni non sempre precise sulla loro origine e sulla loro storia senza spesso cogliere le caratteristiche peculiari del loro seme.

Noi stiamo investendo per gli anni futuri, il problema è che nemmeno noi raccoglieremo questi frutti, li raccoglierà qualcun altro ma questo per me è importante l’acquisizione di queste conoscenze e il trasferimento di queste conoscenze per attuare anche un cambiamento per il futuro.

Praticare la biodiversità è dunque uno degli ingredienti per rispondere ai cambiamenti climatici e ai possibili attacchi di infestanti e insetti. Fino a cento o cinquant’anni fa, i contadini, prima del raccolto, sceglievano le piante più belle e rigogliose e le conservavano per la semina dell’anno successivo. I coltivatori favorivano così il processo di adattamento alle condizioni ambientali e conservavano, inconsciamente, la diversità. Ciò che è accaduto negli ultimi decenni – utilizzo della genetica solo con certi parametri, oligopoli di aziende sementiere – ha di fatto creato le condizioni per produrre dei semi “omologati” che non riescono ad adattarsi a condizioni diverse ed è per questo che bisogna adattare il terreno alle piante attraverso l’uso di prodotti chimici e concimanti che ricreano l’ambiente dove i semi sono stati studiati, ovvero nei laboratori. Il processo, invece, va invertito, secondo questi contadini visionari. I coltivatori devono tornare a conoscere, gestire e a selezionare i semi che si adattano, di anno in anno, al terreno e all’ambiente in cui sono seminati. Ciò non vuol dire abbandonare la ricerca e l’innovazione, anzi, ma ribaltare il paradigma, riportando al centro l’ambiente, la natura e i contadini. E a partire da questo*.

SentiV è un macchinario realizzato dalla società Méropy, con base a Bordeaux, che è in grado di rilavare la presenza di parassiti sulle piante. Il robot è dotato di una fotocamera e di un algoritmo di riconoscimento dell’immagine. Se vengono riscontrate anomalie la macchina invia una notifica sul cellulare all’agricoltore attraverso un’app. SentiV è solo una delle tante startup che sanno coniugare nei modi più disparati innovazione e sostenibilità ambientale.

InFarm, ad esempio, realtà con sede a Berlino, ha sviluppato un sistema verticale per l’agricoltura indoor che può essere installato in supermercati, ristoranti, o persino scuole. Il monitoraggio delle diverse coltivazioni avviene da remoto sfruttando IoT, Big Data e cloud.

WeFarm invece è una realtà del settore agritech con sede a Londra che ha realizzato nel 2015 una rete peer-to-peer per offrire agli agricoltori consigli e soluzioni di altri “colleghi” per risolvere le sfide quotidiane. Sensori, droni, immagini satellitari, geolocalizzazione e Big Data sono gli strumenti su cui punta anche la startup spagnola VisualNAcert che aiuta gli agricoltori a gestire tutti gli aspetti delle loro fattorie in una piattaforma all-in-one. Se invece ci spostiamo in Francia troviamo un progetto che coniuga la viticoltura e l’energia solare.

Si tratta di Vitibot, startup della regione dello champagne, che ha creato Bakus,  un robot allietato a energia solare che offre un supporto per la gestione dei vigneti. In Italia Rural Hack.

Oltre alla capacità di adattarsi alle condizioni più differenti in cui vengono coltivate, le popolazioni evolutive, proprio grazie alla diversità che racchiudono, forniscono anche produzioni stabili da un anno all’altro, controllano malattie, insetti e infestanti molto meglio delle varietà uniformi rendendo superfluo l’uso di pesticidi, quindi riducendo i costi di produzione e diventando le colture ideali per l’agricoltura biologica e biodinamica. Sono quelle che Stefania Grando definisce colture intelligenti perché fanno bene al pianeta ma, come hanno dimostrato le ricerche degli stessi Ceccarelli e Grando, anche a chi le coltiva e a chi ne consuma i prodotti.

E parlando di consumo, di inquinamento e di salute, Ivan, Tazio e gli altri soci della cooperativa pensano che sia fondamentale ribaltare la funzione dell’agricoltore e del contadino, da «produttore di cibo in serie» a «guardiano dell’ambiente e della salute». A spiegarlo è Mimmo De Martino, altro socio della cooperativa e titolare dell’omonima azienda nata a Montesano sulla Marcellana, una piccola realtà famigliare che coltiva i suoi terreni attraverso buone pratiche di agricoltura organica rigenerativa.

«L’agricoltura è una delle prime cause di inquinamento al mondo quindi se io coltivo in maniera sostenibile, non è che ne beneficiano solo le persone che acquistano i miei prodotti e li mangiano, ne beneficia anche chi vive intorno a me. Noi agricoltori abbiamo una responsabilità enorme perché in una sola giornata possiamo lavorare migliaia di ettari, in modo giusto o ingiusto. E quello che facciamo ha un impatto. Se io per esempio diserbo e utilizzo concimi chimici sui terreni, avrò un impatto negativo enorme nel medio e lungo periodo perché il suolo diventerà meno fertile e anche la salute dei cittadini ne risentirà. Se pratichiamo l’agricoltura in modo consapevole, con meccanizzazioni giuste e appropriate, possiamo dare un grosso risultato a livello globale. Non solo per la salute del mondo ma anche per l’economia dei sistemi sanitari. Se ci sono più malattie, i costi sociali aumentano. Quindi dobbiamo arrivare a far sì che l’agricoltura sia sostenibile per limitare i costi che ricadranno sui cittadini, ovvero su tutti noi, in termini di costi economici, sanitari e ambientali».

Lasciamo Atena Lucana per spostarci a Caselle in Pittari, borgo di 1800 anime nel cuore del Parco del Cilento, Alburni e Vallo di Diano.

Attraversiamo territori ampi, bellissimi e frastagliati, privi di infrastrutture e servizi, dove l’emigrazione è un male cronico, la lentezza è uno stato di vita e “Cristo non si è mai fermato”. Ad attenderci alla biblioteca del grano è Antonio Pellegrino, socio fondatore della cooperativa sociale Monte Frumentario-Terra di Resilienza e uno dei padri-seminatori insieme a Claudia Metilene e Dario Marino di questo percorso nato e sviluppatosi oltre dieci anni fa, attorno ai grani. A inizio estate, quando i grani sono alti e le spighe ondeggiano al vento, la biblioteca appare in tutto il suo splendore. Un salvadanaio prezioso di semi, un investimento sulla memoria e sul futuro che offre un modello di incontro tra tradizione e innovazione. Oltre 75 varietà di grani e miscugli sono stati seminati, da quelli più antichi a quelli più moderni. Grani che arrivano dall’Italia, dalla Siria, dall’India, dall’Etiopia e che raccontano la biodiversità naturale di tutto il mondo.

Le parole di Antonio ci interrogano sull’agricoltura di oggi, su ciò che mangiamo ma soprattutto ci invitano a riflettere su quanta economia sana è possibile creare a partire dalla riscoperta dell’ambiente circostante e della memoria del passato.

«Negli ultimi sessant’anni abbiamo abbandonato tutte le colture e quindi tutto il grano è diventato grano e tutta la farina è diventata farina. Noi, invece, abbiamo pensato che gli antichi saperi dei contadini potessero essere riabilitati. Abbiamo scoperto che loro possedevano metodi galileiani per gestire i suoli e fare l’agricoltura e che sono stati abbandonati e sepolti dai successi di breve termine della grande industria. Ebbene, noi abbiamo pensato che quei saperi non dovessero essere sepolti ma innovati. Per questo, noi non parliamo di grani antichi ma di grani del futuro. Nel grano non c’è niente di antico. Quando semini questa carosella» dice, accarezzando l’arista di questo grano autoctono millenario del Cilento.

Ogni anno il seme sarà diverso da quello precedente. È una condizione biogenetica, ovvero le piante si adattano al contesto, al suolo e alle relazioni. Ed evolvono. Per noi questo percorso è diventato un atto pratico, una scelta, una semina. Come in tutte le cose quando semini devi aspettare e noi con la semina aspettiamo che il grano maturi e che si compia questo percorso politico di cambiamento.
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