I cittadini
A Lampedusa ci sono 6mila persone e tra loro serpeggia rabbia: si sentono abbandonati
Tra i luoghi simbolo di Lampedusa ci sono il cimitero e l’hotspot, il “centro”, come lo chiamano i migranti
I cittadini, i migranti, i pescatori: i personaggi e i luoghi di un’isola divenuta suo malgrado un simbolo
Il Cimitero di Lampedusa è appena fuori dal centro urbano, a Cala Pisana. Proprio accanto alla discussa centrale elettrica a gasolio dell’isola. È un cimitero diviso in 2 parti, una parte monumentale e una suddivisa in corridoi con le lapidi una sopra l’altra, una accanto all’altra. All’entrata un cartello messo dal Comune già fa capire l’eccezionalità di questo posto. “In questo cimitero hanno trovato sepoltura un numero imprecisato di donne uomini morti nel tentativo di raggiungere l’Europa attraverso il mar Mediterraneo – dice la targa – le uniche notizie che è stato possibile recuperare delle storie di queste persone e riguardano le circostanze della loro morte o del ritrovamento dei loro corpi. Ma tutti i loro hanno vissuto. Hanno gioito e sofferto, hanno sperato e lottato e qualcuno li ha attesi e pianti”.
Anche il Papa nel luglio del 2013 è venuto a visitare il cimitero dei Senza Nome durante la sua visita a Lampedusa, ma questo non convince il custode: «È un’invasione» dice mentre vedo che leggo le lapidi dei migranti «mio nonno prima di morire me l’aveva detto: i turchi verranno di notte e ci sgozzeranno tutti».
Da una parte è comprensibile, Lampedusa è un’isola strategica in mezzo al Mediterraneo, preda di conquistatori di ogni secolo, i turchi allora e i tunisini oggi sono i diretti concorrenti, ma c’è anche chi sa benissimo chi sono quelli che vengono dal mare e che rischi prendono. Come il primo signore, anziano con la faccia scavata dal sole, che incontro al cimitero.
Chiedo dove stanno le tombe dei migranti. Non parla fa un cenno con la mano per dire ‘seguimi’ e mi indica l’angolo, poco curato, dove ci sono le croci anonime dei migranti. «Lei è il custode?» chiedo «No sono un pescatore ho appena passato al mattina a cercare i dispersi del 7 ottobre. Sono otto ore che sono in barca» risponde. «E come mai è qui?». «Passo a salutare mia moglie che è mancata cinque anni fa» e sparisce tra le lapidi. Sono rimasta interdetta: quest’uomo dopo aver cercato morti, senza trovarli, tutta la mattina, veniva a cercare conforto sulla tomba della moglie in un dialogo fra anime.
Alberto Mallardo della onlus Mediterrean Hope, una delle poche che stanno a Lampedusa fisse, ci incontra al cimitero per raccontarci la storia dell’unica donna recuperata a cui è stato possibile dare un nome. «Welela aveva 18 anni quando è morta nel gommone che la stava portando a Lampedusa» racconta Alberto «nel campo di detenzione in Libia dove si trovava era esplosa una bombola del gas e molte donne rimasero gravemente ustionate, invece di curarle le imbarcarono su un gommone in quelle condizioni».
La Guardia di Finanza racconta lo strazio di provare a tirare fuori dalla barca quei corpi perché la pelle ustionata si staccava dal corpo. Welela è stata ‘ritrovata’ grazie alla tenacia del fratello, già rifugiato in Svezia, delle associazioni di Lampedusa e dell’amministrazione comunale. «All’inizio il Comune ci aveva detto che una donna eritrea era stata portata in provincia di Ragusa e così abbiamo riferito al fratello. Solo per caso incontrando e parlando con un altro dipendente del Comune ci ha svelato dell’esistenza di una seconda donna eritrea che era effettivamente Welela». La sua storia commosse talmente una signora di Lampedusa che decise di cedere alla ragazza eritrea morta in mare la sua tomba di famiglia. Infatti Welela non sta nella sezione dei migranti senza nome ma in uno dei corridoi dei lampedusani.
«Questa storia ci racconta della brutalità dei trafficanti» dice Alberto Mallardo «ma anche della mancanza di dignità che l’Europa concede a queste persone sia da vive che da morte. Da vive perché Welela in quanto eritrea e con un fratello rifugiato avrebbe potuto avere anche lei lo status, ma questo solo se fosse riuscita ad arrivare in Europa clandestinamente. E non ce l’ha fatta. Dall’altra parte c’è poco rispetto per i morti: Welela è stata riconosciuta grazie alla tenacia di molte persone ma i cimiteri del sud Italia sono pieni di migranti senza nome.
Non esiste a livello europeo un meccanismo di indagine per capire chi sono le vittime, anche quelle i cui corpi vengono recuperati». Spiega Mallardo che solo quando un procuratore decide di aprire l’indagine si prova a capire le identità delle vittime. «Da quello che mi ricordo è avvenuto solo in tre naufragi: quello del 3 ottobre 2013, quello al largo della Libia del 18 aprile del 2015 e quest’ultimo del 7 ottobre 2019. In tutti gli altri i casi i migranti morti in mare sono rimasti senza nome». [L’indagine sulle vittime dei naufragi viene condotta dal Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università di Milano diretto dalla dottoressa Cristina Cattaneo, NDA].
Dall’altra parte del Mediterraneo c’è un’associazione che si batte per dare un nome a questi morti e possibilmente farli tornare in patria. È Terre pour Tous che sta aiutando le famiglie dei 4 tunisini morti nel naufragio del 7 ottobre. Lo scorso 13 novembre hanno fatto una manifestazione davanti all’Ambasciata Italiana a Tunisi. «Le famiglie sono molto stanche» racconta Imed Soltani di Terre pour Tous «le madri ogni giorno aspettano che arrivi la salma del figlio, sono depresse e vivono di medicine».
Solteni ha fatto pressione sul governo tunisino affinché si avviassero le pratiche di riconoscimento. Tramite il Ministero degli Esteri tunisino sono stati mandati in Italia i DNA delle madri delle 4 presunte vittime ma dopo due settimane ancora non si sa nulla. «Noi ci battiamo da sempre affinché il Mediterraneo non sia ridotto ad un cimitero e gli esseri umani a numeri messi su una tomba in Italia. Vogliamo dare nome e cognome a questi morti e vogliamo riportarli a casa» conclude Solteni.
Poco distante dalla città tra le colline e e varie villette autocostruite c’è l’altro luogo-non-luogo di Lampedusa. L’hotspot o come viene chiamato amichevolmente dai migranti ‘il centro’.
Nato come Centro di Primissimo Soccorso e Accoglienza (CPSA) è stato poi convertito in Hotspot nel 2015 sebbene non ci fosse una vera e propria legislazione a riguardo. «Gli hotspot sono delle strutture fisiche ma anche un metodo» spiega a Slow News Lucia Gennari del progetto In Limite dell’Asgi (Associazione Studi Giuridici Italiani) che monitora i comportamenti istituzionali ai confini. «L’idea di hotspot è stata elaborata dalla Commissione europea a partire dal 2015, quando è stata pubblicata l’Agenda della Migrazione dell’UE, un documento programmatico per risolvere la cosiddetta ‘crisi dei rifugiati’ del 2015.
Fra i vari dispositivi l’Unione Europea proponeva a Grecia e a Italia gli hotspot che sarebbero serviti a controllare e a ridurre i flussi». In pratica dei luoghi di smistamento dove lo Stato (Italia o Grecia) avrebbe suddiviso i migranti in migranti economici da rimpatriare e richiedenti asilo, il tutto con l’aiuto delle agenzie europee preposte ai confini e all’immigrazione come Easo, Frontex ed Europol.
«Il problema è che non ci sono mai state regolamentate per legge» spiega Lucia Gennari «gli hotspot sono nominati per la prima volta nel decreto Minniti del 2017 e definiti un po’ meglio nel primo decreto sicurezza di Salvini del 2018. Ma in quel caso si specifica che ci sarebbero dovuti stare solo i richiedenti asilo». In realtà i tunisini sono sempre il numero più altro di ingressi agli hotspot e molto raramente sono richiedenti asilo.
Di base in ogni hotspot vige una prassi specifica che dipende dalle autorità che lo gestiscono. Nel caso di Lampedusa il prefetto di Agrigento. In quell’hotspot non fanno più entrare i giornalisti, probabilmente a causa di un servizio del TG2 del 2013 in cui si mostrava un’immagine che ricordava più un campo di concentramento nazista che un centro di accoglienza in Italia: una fila di corpi nudi e infreddoliti (era dicembre) sul piazzale esterno che venivano colpiti da un idrante.
Era un normale trattamento antiscabbia, si disse. Ma l’indignazione fu forte. In ogni caso non ci sono più ispezioni se non quelle del Garante dei Detenuti che ci va, a sorpresa, circa una volta all’anno. Nel gennaio 2018 il garante dei detenuti Mauro Palma lamentava il fatto che non fosse cambiato nulla dall’ultima visita «E’ inaccettabile che dopo un anno dalla nostra denuncia al Ministero degli Interni ci siano ancora i water senza porte e materassi sporchi» aveva dichiarato Palma al termine della visita. «Ci sono materassi stesi a terra ovunque, anche nella mensa, e in condizioni igieniche che con un eufemismo si potrebbero definire precarie» . Inaccettabile in Europa nel 2018, aveva concluso il garante.
Non solo non è neanche previsto in nessuna legge che l’hotspot dovesse essere un luogo chiuso, in cui non c’è libertà di entrata ed uscita. Un luogo dove tra l’altro vengono fatti alloggiare anche minori stranieri non accompagnati. «Nessun minore dovrebbe essere sottoposto a detenzione amministrativa» spiega Lucia Gennari «semplicemente perché il minore non può essere respinto e deve essere inserito immediatamente in un percorso di accoglienza».
Secondo la relazione del Garante nazionale dei detenuti sono stati 549 nel 2018 i minori stranieri non accompagnati ospitati all’hotspot di Lampedusa per una media di 4 giorni e mezzo. Intanto la ministra dell’Interno Lamorgese ha annunciato che entro pochi mesi l’hotspot di Lampedusa avrà 132 posti in più rispetto agli attuali 96 (ma in alcuni momenti ne ha ospitati anche 4 volte tanto) con un’area specifica per i minori stranieri non accompagnati.
Alla fine siamo sempre a Lampedusa. Quindi l’hotspot è chiuso ma esiste un buco, nella parte laterale da dove tutti escono, dove i giornalisti vanno a fare le interviste con i migranti appena sbarcati. Gli ospiti dell’hotspot fanno un breve percorso sulla collina e in due minuti sono sulla strada principale dell’hotspot, dove passano tutti i mezzi della cooperativa del centro e quelli delle forze dell’ordine. É lì infatti che ho incontrato Karim e le donne del naufragio del 7 ottobre. Un segreto di Pulcinella che fa stare tutti più tranquilli dopo i vari disordini che si sono avuti a causa di rivolte dei migranti tenuti lì per giorni. Come quella del 2011 che portò all’incendio e alla distruzione di una parte del centro. E quindi meglio lasciare il buco perché tanto, come ci aveva detto in maniera lapidaria Giacomo Sferrazza di Askavusa, «Lampedusa è il carcere».
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