Ep. 02

I migranti

Per la stampa e la politica sono solo numeri, ma chi sono le persone che sbarcano a Lampedusa?

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
Dalle nostre serie Serie Giornalistiche
Greetings from Lampedusa

I cittadini, i migranti, i pescatori: i personaggi e i luoghi di un’isola divenuta suo malgrado un simbolo

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Da Sfax a Lampedusa ci vogliono solo sei ore di barca e se il mare è calmo è uno scherzo.

È vero che a raccontarlo è Karim, il finto naufrago. Quello che si è avvicinato capendo che eravamo giornalisti «Cercate qualcuno che era sulla barca del naufragio?» chiede in perfetto italiano, «io c’ero e lui il mio amico pure, solo parla solo arabo e ha perso il figlio». Si vende così Karim, lungo la via per andare all’hotspot, il centro di primissima accoglienza per migranti.

Ci dà appuntamento alla fine di via Roma. Come mai parli così bene l’Italiano, non sembri appena arrivato in Italia?, chiediamo. «Sono arrivato nel 2011» racconta a Slow News «ho vissuto per anni senza documenti un po’ dappertutto ma soprattutto a Bologna. Facevo lavoretti, ho anche spacciato. Ero un invisibile, poi mi hanno beccato e mi hanno riportato in Tunisia». Dice di essere salito sulla barca del naufragio per caso. «Ero lì a bere con degli amici e sento di questa barca degli africani che andava in Italia e ci sono salito» Senza pagare? «Senza pagare». Strano perché gli altri tunisini che avevamo incontrato raccontavano di aver pagato tremila dinari (circa mille euro).

Racconta di essere stato lui a chiamare il 112, visto che era l’unico che parlava italiano, e che la Guardia di Finanza è arrivata e ha iniziato a girare intorno alla barca, che gli africani si sono alzati tutti insieme facendo ribaltare il natante. Quella ferita al ginocchio, dice, è proprio di quella notte. Ma perché hai ancora il telefonino? «L’ho avvolto nella plastica e legato bene alla cintura» racconta. E comunque, se volevamo dargli un po’ di soldi che al centro non gli danno niente e il cibo fa schifo (otterrà solo un pezzo di pizza e delle sigarette).

Naturalmente Karim non era sulla nave del naufragio del 7 ottobre. Da bravi investigatori abbiamo mostrato la sua foto a dei connazionali che ci hanno detto “ma lui è qui da dieci giorni!” . Detto questo, anche attraverso le bugie si possono avere notizie. Ad esempio che è stato sicuramente in Italia per tanti anni, che è stato espulso e che è ritornato, che le sue probabilità di essere di nuovo rimpatriato sono alte. «Da qui ti portano in Sicilia e da lì due volte a settimana, il lunedì e il giovedì, ti riportano in Tunisia. È successo a tanti miei amici» dice preoccupato. Ma molti ci riprovano più volte. Un’operatore del porto mi dice che a volte vede sempre gli stessi ragazzi, «Uno di questi l’ho visto già altre 3 volte» spiega a Slow News »appena l’ho incontrato gli ho detto ‘Bentornato!’».

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Porto Nuovo, Lampedusa. Ottobre 2019.

Secondo la relazione annuale del Garante dei Detenuti, nel 2018 su un totale di 6398 rimpatri 2323 erano tunisini. Verso la Tunisia sono stati effettuati 66 voli charter. Ognuno di questi charter costa poco più di 60 mila euro, diviso il numero dei rimpatriati sono 1800 euro a persona riportata in Tunisia [calcolo fatto da Slow News su dati ottenuti dal network IRPI da Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, NDR]. In soldoni: loro pagano mille, l’Italia paga mille e otto, moltiplicato le volte che alcuni di questi ragazzi ci riprovano una volta espulsi, sono davvero tanti soldi per fare a ping pong tra i due bordi del Mediterraneo con degli esseri umani.

I ragazzi tunisini arrivati effettivamente con la barca che si è ribaltata il 7 ottobre sono giovanissimi tra i 16 e i 21 anni, parlano solo arabo e vengono dalle zone costiere, quelle delle partenze. Sfax, Zarzis, il centro e il sud della Tunisia. Sono di famiglie modeste, raccontano di aver lavorato per raccogliere i soldi per la partenza e sono andati. «Sì lo sappiamo che è un viaggio pericoloso che il rischio di morire è alto, ma in Tunisia non c’è futuro, non c’è la possibilità di avere un lavoro, una famiglia». Sono preoccupati per i 5 connazionali che sono spariti in fondo al mare, non sanno come fare a cercarli a chi chiedere.

Le famiglie mediamente non sanno che partono. Alcuni vanno con gli amici. A volte pagando il trafficante, ma succede anche che gruppi di persone magari dello stesso villaggio, dello stesso quartiere, si mettano d’accordo, dividano le spese per comprare una barca e partano.

A Lampedusa nel 2019 sono sbarcate 4289 persone fino al 31 ottobre, secondo i dati forniti a Slow News da UNHCR. Le prime tre nazionalità sono Tunisia (1712), Costa d’Avorio (809), Bangladesh (373). Il picco si è registrato a settembre con 1276 persone arrivate sull’isola, 133 sbarchi di cui 35 dalla Libia e 98 dalla Tunisia.

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Barchino semi-affondato, già utilizzato da un gruppo di migranti. Molo Favaloro, Lampedusa. Ottobre 2019.

«Il flusso dalla Tunisia c’è sempre stato» spiega Valentina Caron, responsabile legale UNHCR presso l’hotspot di Lampedusa. «All’inizio del 2018 sono crollati gli arrivi dalla Libia per poi riprendere anche se ridotti da novembre. In ottobre sono arrivate persone dalla Libia direttamente a Lampedusa, senza essere state soccorse o intercettate prima. Questa è anche una conseguenza del depontenziamento delle operazioni SAR. Quindi sono stati molto fortunati».

Ma qualcosa sta cambiando effettivamente in seguito alla fine della presenza di ONG o operazioni di ricerca e soccorso nel braccio di mare tra Libia e Italia. Secondo le organizzazioni internazionali c’è un aumento dei subsahariani che partono dalla Tunisia, ma molte barche vengono intercettate e dirottate nuovamente sulle coste tunisine. Ci sarebbero inoltre imbarcazioni che partano dalla Libia e fanno tappa in Tunisia per prendere altri ‘clienti’ ma è un po’ difficile capire se questo sia un nuovo tipo di logistica.

C’è un nuovo fenomeno che però sta iniziando a preoccupare gli esperti. Nel 2019 l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OIM) ha denunciato un aumento di arrivi di donne dalla Costa d’Avorio. «Nel 2019 sono stati la seconda popolazione» dicono a Slow News alcuni operatori dell’hotspot di Lampedusa «e, cosa sorprendente, in percentuale molto alta sono donne. Secondo i dati OIM sono il 46%». Il sospetto è che ci sia una nuova tratta di donne che sta rimpiazzando quella delle nigeriane, i cui arrivi sono invece crollati.

«Abbiamo ragione di credere che molte di queste ragazze siano purtroppo vittime di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e a volte anche sessuale», ha affermato Laurence Hart, Direttore dell’Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo dell’OIM nella giornata internazionale contro la tratta, il 18 ottobre 2019. Molte di loro partono dalla Tunisia, spesso vittime di “re-trafficking”: portate prima in Tunisia, vengono assoggettate e poi mandate in Italia. Non sembra però che questa sia la destinazione finale, dicono gli esperti, i contorni di questo fenomeno sono ancora da chiarire.

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Faro di Lampedusa. Ottobre 2019.

«Molte di queste ragazze» racconta una fonte a Slow News «vengono convinte da un ‘fidanzato’ a partire per la Tunisia per lavorare e costruire una vita insieme. Qui vengono private dei documenti e mandate in case dove sono sfruttate come domestiche, prigioniere, maltrattate e spesso abusate sessualmente». Poi c’è la seconda fase in cui gli sfruttatori si offrono di pagare i costi del trasporto verso l’Europa, dove probabilmente c’è un’altra parte dell’organizzazione che si occupa dello sfruttamento delle ragazze.

«Quando arrivano le chiamo tutte in una stanza» spiega a Slow News un’operatrice dell’hotspot «e racconto loro la storia di ‘una mia amica’ che come loro è partita con il suo ragazzo che aveva detto che l’avrebbe aiutata e invece l’ha venduta a delle famiglie in Tunisia. Racconto una storia che potrebbe essere simile alle loro, e vedo subito dagli sguardi sfuggenti o da chi annuisce che si riconoscono. Dopo mi possono venire a trovare singolarmente e iniziamo un percorso insieme».

Anche la barca del naufragio del 7 ottobre d’altronde era la barca delle donne. Le prime 13 vittime erano donne, si pensa ivoriane. Le sopravvissute restano nell’hotspot e non parlano con i giornalisti. Solo Chantelle, 27 anni dalla Costa d’Avorio, ad un certo punto sembrava voler raccontare la sua esperienza, ma poi si è spaventata e non ha voluto più parlare. Ho provato anche a rompere il ghiaccio, chiedendo se per caso fosse andata un po’ in giro sull’isola, magari al mare ma poi ho visto la sua espressione e mi sono pentita tantissima. Ha sgranato gli occhi e ha detto «Il mare? Il mare non lo voglio più vedere!». Chantelle era sulla barca con il compagno e ha dovuto aspettare altre due settimane, fino a quando le condizioni del tempo sono state abbastanza buone, per recuperare il relitto e le vittime incastrate di sotto, per poter riconoscere il suo corpo e dirgli finalmente addio.

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