La profilazione su base etnica
Si tratta di pratiche di polizia che consentono controlli preventivi mirati a persone di etnie considerate “a rischio”.
Ad accomunare le attiviste britanniche ed egiziane, il desiderio di non essere più considerate come presenze invisibili e ingombranti.
Una femminista si ribella all’idea che esistano dei ruoli prestabiliti da una società patriarcale, per cui ai maschi spettano dei compiti e delle responsabilità, alle donne altre.
Ѐ una giornata assolata di maggio. Al Cairo le pietre delle case scottano sotto i raggi del sole primaverile. Dal treno in arrivo da Alessandria scendono due attiviste egiziane. Sono appena ritornate dal IX congresso dell’International Women Suffrage Alliance di Roma e nelle loro orecchie rimbombano ancora le accese discussioni con le femministe europee. Appena posati i piedi sull’ultimo gradino della scaletta del treno improvvisamente si fermano. Di fronte alla folla accalcata alla stazione, abbandonano i loro veli nell’aria ferma e calda. Un atto di protesta contro l’esclusione delle donne dalla vita pubblica del Paese. Le autrici del gesto spettacolare sono Hoda Sha’rawi, fondatrice dell’Unione femminista egiziana (UFE), e Sizah Nabarawi. È il 1923. Sono gli stessi anni in cui le suffragettes inglesi si incatenano ai cancelli di Westminster per rivendicare il proprio diritto di voto.
A separare le attiviste britanniche da quelle egiziane c’è qualche migliaio di chilometri, ad accomunarle il desiderio di non essere più considerate come presenze invisibili e ingombranti all’interno della sfera pubblica. Da una parte delle rivendicazioni femminili c’è il liberalismo di Mill. Dall’altra l’aspirazione alla parità si intreccia ai nascenti nazionalismi arabi, un connubio che creerà negli anni intrecci che porteranno alla frammentazione del Movimento nel panorama del Medio e Vicino Oriente. Il fronte della battaglia per i diritti si sposterà dalle avanguardie secolariste e anticolonialiste alle trincee dei testi sacri, riletti in chiave femminista.
Un jihad al femminile. Suona quasi come un paradosso? Forse, soprattutto se non ci decidiamo ad abbandonare, almeno per un attimo, le spesse lenti dello sguardo occidentalista. Eppure per le donne musulmane non esiste nessun ossimoro con cui fare i conti. Affermare i propri diritti sulla base del Corano e della Sunna significa piuttosto non essere costrette a dover scegliere fra appartenenza religiosa ed emancipazione. Una posizione forse più radicale del femminismo laico di stampo europeo e americano, impaludato fra dogmatici aut-aut. Non un ritorno al passato, dunque, ma la rivendicazione di un’identità femminile che non si riconosce nelle strette maglie dell’universalismo occidentale. Con le donne che si fanno portabandiera dell’intenso fermento culturale e ideologico che scuote il mondo islamico.
Come ricorda Fedwa Malti Douglas, professoressa di gender studies all’Università dell’Indiana, la questione femminile non è una prerogativa dell’Occidente. Una posizione sostenuta anche dall’attivista egiziana Nawal el Saadawi, medico psichiatra e scrittrice, che non vede la lotta per la liberazione femminile come un prodotto esclusivo del pensiero occidentale. Per el Saadawi si tratta di un seme pronto a germogliare in ogni società: «Il femminismo e la lotta per i diritti delle donne sono radicate in tutte le culture del mondo. L’oppressione delle donne non è fenomeno tipico dell’Egitto o dei popoli arabi. Ѐ un fattore storico. Esiste dovunque, è presente in ogni Paese». Ma mentre la scrittrice egiziana inserisce l’emancipazione delle donne nel più ampio solco della lotta al capitalismo, a partire dagli anni Ottanta le rivendicazioni femministe cominciano ad abbandonare la strada del secolarismo e a inserirsi all’interno della sfera religiosa.
Rileggere il Corano da una prospettiva di genere diventa quindi il principale strumento con cui tentare di abbattere la cultura patriarcale da parte di quella realtà fluida e caleidoscopica che rientra sotto la generica etichetta di ‘femminismi islamici’. Una definizione problematica, rifiutata da molte attiviste perché troppo legato ai movimenti occidentali e all’eredità coloniale. Tanto che si preferisce parlare di ‘movimenti delle donne’ e di ‘critica di genere’. Ma al di là delle definizioni, la particolarità di questi fermenti risiede proprio nelle armi che le donne decidono di imbracciare contro il patriarcato e che, per ironia della sorte, risultano essere le stesse adoperate dai giuristi per schiacciarle sotto il peso delle prescrizioni religiose. Ma con un’importante differenza: attraverso l’esegesi dei testi le donne musulmane rivendicano l’uguaglianza tra i generi. Secondo le femministe islamiche il Corano e la Sunna porrebbero infatti l’uomo e la donna in una condizione di assoluta parità, sia nella vita pubblica che in quella privata. Un’interpretazione molto lontana da quella difesa invece dalle islamiste, che insistono invece sul concetto di ‘equità’, ovvero sulla necessità da parte dei due sessi di ricoprire gli stessi ruoli in pubblico ma ruoli differenti all’interno della famiglia, in virtù delle differenze biologiche.
Secondo gli studiosi però negli insegnamenti del Profeta non c’è spazio per una narrazione misogina e la shari’a, la legge ispirata al Corano, non può rappresentare la stampella del patriarcato. Nella Sunna Maometto è descritto intento a svolgere le faccende domestiche mentre Aisha, la moglie prediletta, è elogiata per le sue conoscenze, che spaziavano dalla poesia alla medicina. Ecco perché teologi e filosofi si sono concentrati sull’analisi degli ahadith, i racconti sulla vita di Maometto, la seconda fonte dei principi dell’Islam. Alcuni di questi, tra cui quelli adoperati per secoli per giustificare l’emarginazione dalla vita pubblica, sono stati etichettati come ‘deboli’, cioè come non attendibili. L’ijtihad, lo sforzo di interpretare i testi sacri ‘per fare il bene’, diventa quindi compito di ogni buon musulmano e non più un diritto riservato agli ulama, ai dotti delle scienze religiose.
Una forzatura? Per molti sociologi, fra cui Abdessamad Dialmy, professore dell’Università di Rabat, si tratta piuttosto di recuperare lo spirito originale dell’Islam, tradito da molti commentatori. Non solo. In ballo c’è il bisogno di rendere l’emancipazione femminile ‘islamicamente’ accettabile da parte delle masse. A essere in discussione non è la sacralità del testo ma la necessità di attualizzarlo e di compiere quello sforzo intellettuale, conosciuto come jihad al femminile, per rileggerlo in chiave femminista. Non a caso la giurista e filosofa musulmana Azizah al-Hibri parla dell’esistenza di «una norma islamica che afferma che la legge cambia in base al tempo, al luogo e alle esigenze della gente, deve insomma adattarsi alle nuove culture». Una tesi sostenuta anche dalla femminista e sociologa marocchina Fatema Mernissi, che vedeva nell’opposizione alla democratizzazione delle leggi uno dei sintomi più evidenti dell’estremismo religioso.
Nell’agosto del 2016, sulla democratica spiaggia di Nizza, una donna è costretta dalla polizia a togliersi il burkini. Per molte delle femministe occidentali si tratta di un importante passo per liberare le donne dall’oppressione religiosa. Ma perché indossare un velo dovrebbe essere oppressivo e invece indossare una minigonna dovrebbe rappresentare un’affermazione della propria libertà? Già la femminista francese Simone De Beauvoir metteva in guardia dai rischi connessi con l’indossare tacchi alti e smalti, strumenti, a suo dire, appositamente creati dal patriarcato per rendere inoffensive le donne. Ad avere paura del velo è il mondo occidentale, abituato più a spogliare che a coprire il corpo femminile, piuttosto che le donne musulmane.
Sono molte le femministe che si chiedono se questo tipo di indumento costituisca realmente una restrizione alla libertà delle donne. Nel Corano, in effetti, non esiste una descrizione dettagliata del tipo di abbigliamento che uomini e donne dovrebbero adottare. In un paio di versetti si fa genericamente riferimento all’obbligo di far scendere il velo «fin sul petto», ma in nessun punto si prescrive di coprire il volto.
In un mondo sempre più globalizzato il velo può, tuttavia, rappresentare un mezzo per contestare il sistema occidentale e i suoi canoni. E anche se il versetto 257 della Sura II del Corano recita: «Non vi è costrizione nella religione», oggi, per molte donne velarsi significa affermare la propria identità. Non solo. Per Fatema Mernissi le donne occidentali sono tutt’altro che libere. La femminilità è costretta a chinare il capo sotto i colpi di quella che definisce come ‘tirannia della taglia 42’: «Incorniciare la giovinezza come bellezza e condannare la maturità è l’arma utilizzata in questa parte del mondo. Qui, se hai i fianchi larghi, sei semplicemente fuori dal quadro. Scivoli nel margine della nullità. Questo chador occidentale definito dal tempo era più pazzesco di quello definito dallo spazio e sostenuto dagli Ayatollah». Un altro strumento di oppressione del patriarcato, dunque, che la studiosa definisce analoga alla fatwa di un Imam.
Il Vicino Oriente, ricorda Fatema Mernissi in “L’harem e l’Occidente”, uno dei suoi più famosi saggi, evoca immagini di donne mollemente adagiate su divani di velluto in attesa di soddisfare i bisogni del proprio uomo. Una visione che ha incantato molti artisti, ma che è molto lontana dalla realtà. Pratica molto in voga all’interno delle società pre-islamiche, la poligamia non è di fatto vietata dal Corano, anche se fortemente scoraggiata. Ѐ in particolare sul versetto 129 della Sura IV che insistono gli studiosi per dimostrare che l’intento originario dell’Islam era quello di guidare la società dell’epoca verso la graduale scomparsa della poliginia. «Anche se lo desiderate non potete agire con equità con le vostre mogli», recita il testo. E non è un caso che le vittorie delle femministe islamiche in questo ambito derivino ancora una volta da una lettura progressista del Corano.
Un esempio è rappresentato dalla riforma del mudawwanna del 2004, il codice marocchino della famiglia, che dispone in materia di divorzio e matrimonio. Il ricorso all’ijtihad ha posto importanti limitazioni alla pratica della poligamia, riconoscendo alla donna il diritto di opporsi se il marito prende una seconda moglie senza il suo consenso e prevedendo l’autorizzazione di un giudice.
Ma le prime tracce di una rilettura in chiave progressista e femminista del Corano si rintracciano già nel codice della famiglia promulgato in Tunisia nel 1957 da Habib Bourguiba il quale, fra l’altro, bandiva la poligamia e il ripudio unilaterale. Un atto rivoluzionario: per la prima volta, in uno Stato non secolarizzato si concedevano alle donne libertà fino a quel momento impensabili, «non contro l’Islam ma in nome dell’Islam», ricorda Abdessamad Dialmy. Non è un caso infatti che durante la stesura della sua riforma Bourguiba si sia servito anche dell’aiuto degli ulama tunisini per giustificare dal punto di vista islamico il divieto della poligamia e del ripudio.
Il Corano si apre con l’imperativo «Leggi!». Un insegnamento che le attiviste musulmane hanno tenuto ben a mente nell’epoca del web 2.0: Facebook e Twitter sono diventati strumenti fondamentali per rimanere in contatto con le altre femministe. E il jihad al femminile si è fatto internazionale. Come nel caso della longeva attività dell’associazione malese Sisters in Islam, nata alla fine degli anni Ottanta e approdata da qualche anno anche sulle piattaforme social. Nonostante il tentativo delle autorità di ridurre le attiviste al silenzio, le Sisters continuano nel loro percorso di rilettura del Corano in chiave femminista tramite campagne di sensibilizzazione e conferenze internazionali.
Internet ha consentito di compiere un ulteriore passo in avanti: grazie al web infatti il confronto si libera delle autorità accademiche e delle voci altisonanti degli ulama e si apre alla comunità della Rete. Tanto che oggi gli internauti possono affacciarsi direttamente sulla ‘muslim public sphere’ e dire la propria sul turbolento dibattito che scuote la comunità islamica senza sentirsi addosso le pesanti occhiate dei teologi.
Spesso il web diventa il luogo ideale dove proporre approfondimenti e favorire un’appropriata conoscenza del mondo islamico. Un esempio è rappresentato dall’European Forum of Muslim Women, che ha anche promosso indagini di carattere sociologico e teologico sul ruolo della donna nell’Islam, tra cui l’importante studio sui falsi ahadith condotto dalla ricercatrice algerina Mariam Atiya.
Le continue oscillazioni dei movimenti femministi oltre i confini del mondo arabo hanno inoltre determinato profondi cambiamenti anche all’interno del discorso femminista. La lingua araba lascia spazio all’inglese, che permette all’intera umma, la comunità dei credenti, di comunicare al di là delle barriere nazionali, segnando la fine di quel legame tra femminismo e nazionalismo, in apparenza indissolubile.
Mentre il mondo musulmano continua a elaborare i propri femminismi la scrittrice Asma Barlas ci ricorda che le pratiche dei musulmani riguardano anche (e soprattutto) la comunità delle nazioni in cui viviamo. E agitano i venti che soffiano sulle acque delle nostre moderne società pluraliste. Inutile, quindi, storcere il naso. Meglio fare proprio l’invito del Corano a leggere e a studiare.
Una femminista si ribella all’idea che esistano dei ruoli prestabiliti da una società patriarcale, per cui ai maschi spettano dei compiti e delle responsabilità, alle donne altre.
Si tratta di pratiche di polizia che consentono controlli preventivi mirati a persone di etnie considerate “a rischio”.
Ad accomunare le attiviste britanniche ed egiziane, il desiderio di non essere più considerate come presenze invisibili e ingombranti.
Si tratta di pratiche di polizia che consentono controlli preventivi mirati a persone di etnie considerate “a rischio”.
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