Ep. 03

Parte 3 – Ebola, dal letame nascono i fiori

I liberiani, stretti nei kékeh, nei mercati, negli uffici e lungo le strade, convivono con il sudore.

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Ebola. Dal letame nascono i fiori

Ebola distrugge tutto: la salute, la società, il welfare. Ma dal letame nascono i fiori.

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I corpi dei morti hanno il potere.

Nel 2016 il virus Ebola è stato isolato nel sudore per la prima volta ma, durante le epidemie, già dagli anni Novanta si raccomanda di evitare il contatto anche con il sudore per limitare così la trasmissione del virus. Trasmissione che avviene tramite i fluidi corporei. Monrovia è la capitale più piovosa del mondo e in giugno, durante la stagione umida, il tasso di umidità non scende mai sotto l’80%. I liberiani, stretti nei kékeh, nei mercati, negli uffici e lungo le strade, convivono con il sudore.

Un’altra occasione di grande affollamento sono i riti funebri. Il corpo del defunto viene vegliato anche per giorni, in casa o direttamente in chiesa, e alla famiglia fa visita l’intera comunità: il contatto con la salma, i riti molto partecipati come i lavaggi, i pasti comuni, sono tutte occasioni di promiscuità. Di esposizione al contagio: «Durante la sepoltura dei morti di Ebola tante persone restavano contaminate dal virus» spiega Justine Hallard di MSF in un ufficio della clinica di Bromley. «Nei cadaveri Ebola raggiunge il picco della carica virale» e per questo le veglie funebri e i funerali sono stati spesso un’occasione, per il virus, di diffondersi nel corpo di decine di persone diverse. Contemporaneamente.

I corpi dei morti

Il caldo e l’umidità sono asfissianti, il sudore cola continuamente sulla fronte e sotto alla camicia, la poltrona sintetica da ufficio si comincia a bagnare. Justine Hallard, coordinatrice del Mental Health Project di Medici Senza Frontiere in Liberia, è seduta di fronte a me nell’ufficio della clinica per spiegarmi cosa significava il ricovero per gli infetti da Ebola. «Vieni isolato completamente dalla tua famiglia, non puoi avere alcun contatto con loro» e questo, paradossalmente, rischia di rafforzare lo stigma sociale nei confronti del malato.

«C’è poi la questione dei corpi». I corpi dei morti hanno il potere, quello di trascinare nell’Ade i vivi. Il corpo di chi muore di Ebola, secondo i protocolli sanitari, va isolato dal resto del mondo, messo in condizione di non-nuocere. Gli operatori sanitari, imbragati in tute di plastica bianca e stivali arancioni, infilano i morti all’interno di sacchi per cadaveri in PVC o in Tychem e li sigillano all’interno per evitare la contaminazione: nei villaggi rurali le comunità non solo non potevano vegliare e seppellire i propri morti, ma a ogni decesso dovevano sopportare l’arrivo di questi alieni umanoidi vestiti plastica e lo stress dei procotolli sanitari, spesso opposti alla tradizione. Secondo molti infilare un cadavere in un sacco ermetico impedisce all’anima di uscire dal corpo, imprigionandola per sempre all’interno. «I corpi sono contagiosi» spiega Justine «ma questo è spesso difficile farlo comprendere a chi è già abbastanza disperato». Theresa Traub, operatrice sanitaria psico-sociale, mi mostra sul suo smartphone le foto di alcune simulazioni fatte per aiutare la popolazione a prendere confidenza con gli operatori e i protocolli sanitari: si vedono bambini, tantissimi bambini, che quasi per gioco vengono educati alle buone pratiche di emergenza sanitaria.

Lavarsi spesso le mani (proprio fuori dall’ufficio in cui siamo c’è un bidone di acqua e sapone con un rubinetto sul fondo da cui tutti attingono continuamente), non avere paura degli alieni di plastica, fidarsi dei protocolli sanitari, saper scendere a compromessi tra le esigenze della tradizione e quelle della contingenza sono solo alcuni degli aspetti su cui lavorare. «È vero però che intervenire subito e impedire, per ovvie ragioni sanitarie, la veglia o il funerale di qualcuno può causare ulteriori traumi nelle comunità e nelle persone» spiega Justine. L’intervento sanitario in contesti così delicati è un’azione basata sul compromesso, anzitutto con se stessi e quasi sempre al ribasso della propria morale personale. Tanto necessario negli intendimenti e nell’efficacia quanto crudele nelle modalità. Per i vivi invece è sempre e solo una questione di tempo: il tempo impiegato per accorgersi dell’infezione, il tempo impiegato per arrivare alla clinica, il tempo protetto dal contatto coi morti: «La cosa più importante è che i malati arrivino in clinica in tempo» dice Theresa perché, spiega Justine, «il tipo di trattamento è differente a seconda della carica virale, della gravità dei sintomi, della disponibilità farmacologica» ed è importante, per gli operatori sanitari, poter intervenire subito con la giusta diagnosi.

«Attualmente abbiamo quattro, anzi diciamo cinque, tipi di interventi diversi a seconda della casistica. È molto importante dire che Ebola si può sconfiggere perché è così, la ricerca è progredita molto e ci sono dei vaccini anti-Ebola che funzionano. Abbiamo tuttavia registrato casi di contagio anche su individui vaccinati ma, in generale, le vaccinazioni funzionano abbastanza bene contro il ceppo di Ebola dello Zaire anche se onestamente sembra che il virus Ebola muti» rendendo così il lavoro di ricerca e di intervento sempre molto rischioso e incerto.

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Strade di Bromley, Liberia. Giugno 2019.

La guerra delle molecole

Il mercato delle molecole anti-Ebola non è particolarmente appetibile: secondo la Food and Drug Administration americana vale appena 56 milioni di dollari l’anno, ma è vero anche che le pandemie si ripetono a ciclo continuo e data l’urgenza le procedure per la convalida sono tutte accelerate, il che è molto redditizio per chi è generalmente abituato a testare molecole e farmaci per anni prima di poterle mettere in commercio. A questo vanno aggiunti i fondi che i donatori dell’OMS mettono a disposizione: l’agenzia ONU stima di avere bisogno di oltre 300 milioni di dollari per fronteggiare Ebola nel 2019, ovvero tre volte tanto la cifra attualmente disponibile per l’emergenza congolese.

Nel 2019 quattro vaccini anti-Ebola sono in fase di test ma nessuno di questi ha ricevuto l’approvazione dalle autorità occidentali per la messa in commercio [NB: lunedì 11 novembre 2019 la Commissione Europea ha dato il via libera alla messa in commercio di Ervebo, il primo vaccino di sempre contro Ebola]. I governi di Cina e Russia erano gli unici, fino a quella data, ad avere concesso le licenze ma l’OMS ha escluso l’uso dei farmaci lì prodotti a causa dell’insufficienza dei dati statistici circa la loro efficacia.

La società farmaceutica Merck ha prodotto un farmaco che ha il merito di aver rallentato il dilagare dell’epidemia in Congo nel 2018-2019 ma il demerito di non averla fermata. La strategia adottata per la somministrazione di questo farmaco è detta “vaccinazione ad anello”, concentrata intorno alle persone infette, ma si è rivelata insufficiente. Inoltre la stessa azienda ha ammesso di non avere scorte sufficienti per l’epidemia attualmente in corso in Congo. La filiale belga dell’azienda Johnson&Johnson, in collaborazione con istituti di biotecnologie danesi e bavaresi e con il sostegno di fondi europei, ha prodotto una molecola apparentemente efficace e da somministrare in due dosi ma il governo di Kinshasa ha rifiutato di convalidarne l’uso e addirittura il Ministro della Sanità congolese si è dimesso per protesta contro quello che ha definito «un processo su vasta scala». Di questa molecola i belgi affermano di avere 500.000 dosi pronte per l’uso.

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La famiglia Roberts in posa con il Defender di MSF. Da sinistra a destra: Blamama Roberts, Fatu Roberts, Josephine Roberts e Prince Roberts. Bromley, Liberia, giugno 2019

The Roberts

Risaliamo tutti sul Defender bianco di MSF, che riparte traballante dalla clinica della missione episcopale. Dopo una ventina di minuti di viaggio, attraversando un guado fangoso e una fitta vegetazione tropicale, si arriva in un’altra zona di Bromley. Le case non sono come quella in cui vivono James T. Bonah e suo figlio Ayres, sono molto più semplici: i muri scrostati, non dipinti, i tetti divelti in lamiera, le travi di legno marcio che li sorreggono, la terra brulla piena di sassi, gli occhi vitrei delle persone che ti osservano.

Da queste parti il Defender bianco è conosciuto più della slitta di Babbo Natale, sicuramente la reputazione di MSF è migliore di quella del vecchio. Non si fa in tempo a parcheggiarlo che un gruppo di dieci bambini assale il mezzo: chi sale sul cofano, chi si arrampica sull’antenna, chi apre la portiera per aiutarti a scendere, per giocare. Siamo a casa della famiglia Roberts e subito mi presentano Blamama, la capofamiglia. È avvolta in una gonna di wax rosso striato di nero e con sopra stampato un ventilatore da salotto, indossa una camicia gricia con il collo alla coreana e dice di avere 40 anni ma ne dimostra almeno 70: il suo volto è scavato dalla durezza della vita, che con lei non è stata certo clemente. Prima dell’epidemia di Ebola, fino a tre anni fa, viveva con la madre, un marito e i loro 17 figli. Dopo il marito sono morti in 14, quasi tutti: oggi a Blamama Roberts sono rimasti solo Prince, un adolescente con accenno di baffi, Fatu, il più piccolo, e Josephine, una preadolescente che fa le moine nel suo vestitino giallo e ha gli occhi dolci.

Ci sediamo sotto un piccolo albero: Emmanuel, l’autista del Defender, chiacchiera poco distante con alcune persone mentre tutta la famiglia Roberts, Justine e Theresa si siedono in cerchio per parlare. Blamama parla un inglese incomprensibile, con pesanti influenze Kreyol, e Theresa è costretta a fare la traduttrice mentre parlo con lei: «Non mi è rimasto più niente» racconta con un filo di voce.

«Mio genero faceva il tassista e si è ammalato. Ha chiesto di essere portato in ospedale, ha guidato lui fin lì, ma c’era troppa gente e non potevano curarlo. È tornato indietro, per paura di infettare la famiglia ha dormito in auto ma alcuni bambini sono andati a trovarlo. Lui è morto il giorno dopo, nei giorni successivi si sono ammalati i bambini. Li portavo io stessa all’Ebola Centre, tornavo a casa e qualcun altro si era ammalato: mio marito, i miei figli. Morivano tutti. Poi la pelle mi è diventata nerissima e ho capito che mi ero ammalata io». Sopravvissuta all’epidemia grazie al tempestivo intervento medico e a una determinazione formidabile, Blamama appare oggi più anziana di sua madre che, avvolta in una camicia colorata a tinte verdi, claudicante incede verso di noi prima di sedersi alla mia destra.

«Dopo mio marito il primo figlio a morire è stato il maggiore» continua Blamama «e questo ha provocato anche problemi economici alla mia famiglia, perché loro erano gli unici che lavoravano». Per Blamama le difficoltà erano appena cominciate: «Non ho avuto aiuto quasi da nessuno. Ogni tanto riuscivo a rimediare i soldi per comprare qualcosa da mangiare, ero costantemente preoccupata di dover portare da mangiare ai miei figli, di dover trovare soldi, lavoro, di prendermi cura di loro. Alla fine ci siamo ammalati tutti, in famiglia. Solo io e questi miei tre figli ce l’abbiamo fatta».

Difficoltà che solo il lavoro con i sanitari della clinica di Bromley, nel Mental Health Project di MSF, è riuscito a mettere in ordine e affrontare concretamente. «Il lavoro alla clinica è stato molto importante per me e per i miei figli. Prima ci hanno curati ma poi ci hanno anche aiutato a superare il trauma della malattia e delle perdite, ci siamo confrontati con tanti altri sopravvissuti, è stato molto positivo. All’inizio i bambini sopravvissuti, i miei e tutti quelli che erano alla Survivor Clinic, avevano tutti il volto furente, pieno di rabbia. Erano difficilmente gestibili, molto aggressivi e violenti anche tra di loro, ed è stato molto difficile lavorare con loro e affrontare questi problemi».

Blamama fa molta fatica a ricordare. Mentre Theresa traduce le sue parole la sua bocca sembra ripeterle in silenzio, quasi a volerle imparare bene per non farle scappare via. È come se raccontasse una versione edulcorata del dramma che ha vissuto, spogliata dagli accadimenti più terribili, dalle emozioni più potenti e dai ricordi più dolorosi. Una versione più “accettabile” anche per la stessa Blamama, che ancora oggi deve affrontare lo stigma della società che la circonda: «È stato difficile sin dall’inizio, ti isolano e nessuno vuole avere più a che fare con te. L’intera comunità ci stigmatizza, solo mia madre ha preso le nostre parti: nessuno è mai venuto a trovarci, nessuno passa più da casa nostra, nessuno vuole avere relazioni con noi. Le cose stanno cambiando e il merito è anche degli operatori psico-sociali che vengono qui: aiutano tutta la comunità a ristabilire buone relazioni tra i suoi membri, questa è la chiave per rimettere le cose a posto».

Quando è stato il momento in cui le cose hanno iniziato a cambiare? «Diversi membri della comunità, vedendomi andare e tornare dalla clinica, vedendomi relazionare con gli operatori e vedendo la confidenza che questi avevano con me, hanno iniziato a relazionarsi in modo diverso con me. Piano piano le cose stanno cambiando in meglio». Oggi Prince e Josephine frequentano la scuola e hanno ristabilito relazioni positive con gli altri bambini della comunità: «Frequento la VII classe», la seconda media in Italia, «sono bravo e mi piace andarci» dice Prince con l’aria timida, fissandosi i piedi e senza guardarmi mai negli occhi.

L’intera famiglia Roberts si è ammalata perché colpita dal potere dei corpi dei morti: «Ne ho visti tantissimi» esclama la piccola Josephine, che nonostante l’età ha maturato una massiccia esperienza in compagnia della morte. Parla dei suoi amici, dei suoi fratelli e sorelle che non ci sono più, e lo fa distraendosi perché tutt’attorno a lei i fratelli si spingono, parlano, giocano con altri bambini: è evidente che Josephine vorrebbe essere altrove. Racconta della morte, delle morti, con aria disattenta e svagata e scoppia spesso in risolini che somigliano a dei campanelli, punzecchiata dai fratelli sotto le ascelle. Non ha nemmeno 10 anni, ne aveva 6 quando si è ammalata di Ebola ed è sopravvissuta.

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Il ghetto di West Point visto dal Ducor Intercontinental Hotel. Monrovia, Liberia, giugno 2019.

La luce di West Point

Alla fine di luglio 2019 Medici Senza Frontiere ha ampliato il programma liberiano di trattamento e sostegno gratuito per le persone con disturbi mentali e epilessia aprendo un nuovo centro nel cuore del ghetto di West Point a MonroviaStar of the Sea, letteralmente “stella del mare”, così è stato chiamato il centro: è il frutto della collaborazione tra Medici Senza Frontiere, Ministero della Salute e National Catholic Health Council e garantirà le cure a centinaia di residenti del ghetto che in precedenza si recavano nel centro di Clara Town, oltre il ponte.

Lo stress dovuto alla promiscuità della vita quotidiana nel ghetto, alle continue inondazioni e alle condizioni di vita estreme aumenta non poco il tasso di incidenza dei disturbi mentali ma di statistiche ufficiali non ce ne sono. Grazie alla formazione gratuita ricevuta da MSF quattro volontari sanitari che risiedono a West Point visitano i pazienti a domicilio e forniscono feedback all’organizzazione. Al nuovo centro, aiutano le famiglie a comprendere la situazione sanitaria e psicologica, incoraggiano l’adesione di tutti al trattamento. La conoscenza del territorio, della cultura, delle problematiche, il saper comunicare con i residenti di West Point è l’arma più efficace nelle mani dei volontari, che non solo convincono le persone a rivolgersi al centro medico ma rafforzano il ruolo delle famiglie e della comunità nel sostenere queste persone bisognose di aiuto. Dei veri e propri promotori di salute pubblica.

Superare lo stigma sociale è la sfida più ardua. A West Point come altrove: l’incontro, il dialogo, la testimonianza di chi è riuscito a sconfiggere i propri demoni mentali sono una parte essenziale del Mental Health Project di MSF in Liberia. Per questo far incontrare i pazienti con i testimoni è una delle attività più importanti, oltre alla prescrizione e alla distribuzione di farmaci specifici che altrove sarebbero quasi introvabili.

A meno di non pagarli cifre stellari.

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