Chi minaccia la pace?
Di certo non delle persone con le mani alzate che fanno vedere al mondo cosa sia la nonviolenza
Quando il potere e i giornali cercando di spiegarti che manifestare non serve vuol dire che manifestare sta servendo
Il 9 ottobre, durante un intervento al GR1, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha detto che una frase che è rimbalzata ovunque, rilanciata dai media: «la pace si costruisce lavorando non sventolando bandiere».
Ma dire che la pace non si fa “sventolando bandiere”, soprattutto se a dirlo è la carica più importante del Governo, è pericoloso: significa togliere legittimità al dissenso pubblico, alla protesta, alla pressione sociale. È un modo elegante per dire: state zitti, lasciate fare a noi. È un linguaggio che svuota di senso la partecipazione civile e che trasforma il conflitto politico in amministrazione morale del potere.
E i giornali, invece di decostruire questo discorso e di smentirlo con i fatti, lo rilanciano acriticamente. Perché quella frase suona bene, perché è equilibrata, perché è rilevante se l’ha detto la presidente del consiglio, perché fa polemica. Forse anche perché riprende quell’insopportabile retorica del lavoro, l’infantilizzazione di chi manifesta e si espone.
La storia – anche quella più recente – mostra che senza pressione sociale, senza piazze, senza simboli e senza bandiere, i governi fanno quello che vogliono.
Lo ha dimostrato Israele ignorando sistematicamente ogni appello, ogni condanna, ogni risoluzione internazionale. Solo quando i cittadini, gli studenti, i lavoratori, gli artisti hanno cominciato a dire basta – a sventolare quelle bandiere che oggi si vorrebbero piegate – si è incrinata la narrazione dell’impunità.
Il potere capisce solo la lingua della pressione. E la pressione nasce dai gesti visibili, simbolici, collettivi. Anche dalle bandiere in piazza, appunto.
Il problema non è solo politico, è culturale. In Italia si minimizza tutto ciò che mette a disagio e genera conflitto, ma solo in una direzione: a vantaggio del potere. Sì minimizzano le istanze contro la guerra (“è complicato”), si minimizzano le disuguaglianze (“non possiamo aiutare tutti”), si minimizza perfino l’indignazione (“serve concretezza, non idealismo”). È il modo più efficace per anestetizzare il pensiero critico: riconoscere formalmente un problema, ma togliergli ogni urgenza.
Eppure lavorare per la pace significa anche esporsi: salire su una barca per andare a Gaza, sventolare una bandiera, partecipare a una manifestazione. Non è affatto folklore. Anzi, è proprio lavoro. Lavoro politico. È ciò che permette di ricordare, ogni giorno, che la pace non è un concetto tecnico, ma una scelta morale. Chi riduce la pace a “lavoro silenzioso” di pochi potenti vuole solo che la società smetta di disturbare il manovratore.
Ma il mondo non si cambia tacendo. Si cambia insistendo. E sventolando bandiere.
Di certo non delle persone con le mani alzate che fanno vedere al mondo cosa sia la nonviolenza
Se l’Unione vuole avere successo in questa nuova fase, deve rivolgersi verso il Sud. Per Amedeo Lepore, la politica di coesione può consentire di ancorare l’Europa alle profonde trasformazioni della globalizzazione, a condizione che sia in grado di sviluppare un metodo euro-mediterraneo.
Mentre il mercato del lavoro è alle prese con l’aumento delle dimissioni da un lato e il fenomeno del quiet quitting dall’altro, il benessere dei lavoratori diventa sempre più un tema centrale per le aziende.