Ep. 1

Una montagna di vestiti

Più produciamo vestiti, meno costano. E quindi più ne compriamo, in un circolo vizioso apparentemente senza fine. L’alternativa del riuso, vista dal distretto tessile di Prato

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L’industria della moda crea spreco e inquinamento. Ma ci sono tentativi di invertire la rotta. Sono soluzioni che funzioneranno? A partire da Prato, in Toscana, un viaggio nel modo del riuso, del riciclo e del riparo.

La venere degli stracci - Foto: Jean-Pierre Dalbéra via Flickr

Nel 1967, per la prima volta, una montagna di vestiti assume dignità artistica.

 

In quell’anno, l’artista biellese Michelangelo Pistoletto crea un’installazione composta da una statua della Venere di Milo sovrastata da un cumulo di indumenti dismessi: è la Venere degli stracci. L’opera inaugura il movimento dell’arte povera, di cui Pistoletto è l’esponente più rappresentativo, e mette in evidenza la contraddizione di un mondo votato al consumismo. La bellezza e l’arte, rappresentate da Venere, in contrapposizione alla sciatteria e allo spreco, rappresentati da un cumulo di rifiuti tessili.

 

Sono passati oltre cinquant’anni da quando Pistoletto creò quell’accostamento, ma l’attualità di un’opera come la Venere degli stracci è assolutamente intatta, anzi è cresciuta perché, nel mondo, la quantità di indumenti comprati, poco usati e buttati è soverchiante.

 

È dal 2000 che ogni anno il numero degli abiti prodotti globalmente raddoppia. Dagli anni ’60 l’industria della moda ha triplicato la produzione di capi. Per la prima volta, nel 2014, si è raggiunto il traguardo del miliardo. Un miliardo di vestiti prodotti in un solo anno. Più li desideriamo, più li acquistiamo e maggiore sarà l’offerta da parte delle aziende.

La venere degli stracci - Foto: Jean-Pierre Dalbéra via Flickr
La venere degli stracci - Foto: Jean-Pierre Dalbéra via Flickr

In questi decenni di consumismo sfrenato, anche gli acquisti di abbigliamento pro-capite sono aumentati a dismisura. Il motivo sta tutto nel prezzo: nell’ultimo ventennio il costo medio di un capo ha subito una caduta libera, senza precedenti e quasi ininterrotta.

 

Storicamente, un abito non è mai costato così poco. In proporzione, paghiamo l’abbigliamento meno di quanto spendiamo per mangiare. L’inflazione ha toccato la benzina, il prezzo degli immobili, dei servizi, dei beni di prima necessità. Perfino della sanità pubblica e del welfare. Ma non l’abbigliamento, il cui costo è inversamente proporzionale alla sua diffusione: più produciamo vestiti, meno costano. E quindi più ne compriamo, in un circolo vizioso apparentemente senza fine.

 

La città toscana di Prato è un buon punto per cominciare ad indagare questo fenomeno. E per provare a capire quali possono essere le soluzioni al problema della fast fashion – soluzioni, al plurale, perché sono tante e tutte parziali.

L’hub tessile di Prato

Il distretto tessile pratese include 12 comuni, si estende su un territorio di 700 kmq e conta circa 7 mila imprese, di cui 2 mila impiegate nel tessile in senso stretto. È il più grande distretto europeo e uno dei più importanti al mondo per il riciclo di lana e cashmere, grazie a una lunga storia e a una forte tradizione, interpretata da figure come quelle dei sacchettai e, soprattutto dei cenciaioli. «L’economia circolare fa parte dell’identità della città», sostiene Benedetta Squittieri, assessora comunale a Innovazione, Economia Circolare, Sviluppo Economico e Commercio.

 

A Prato, i magazzini dei cenciaioli sono i luoghi della tradizione e della storia. Il luogo che dovrebbe rappresentare il futuro e l’innovazione, invece, ancora non c’è. Ma è stato progettato, finanziato e si è anche iniziato a costruirlo.

 

Stiamo parlando del textile hub che, quando sarà operativo, dovrebbe diventare il più grande centro europeo di raccolta e selezione dei rifiuti tessili.

 

A guidare il progetto c’è Alia Servizi Ambientali, l’azienda che si occupa dell’igiene urbana di Prato e della Toscana centrale. Ma a fare la strategia è l’amministrazione comunale della città, che punta a rendere l’intero distretto «sempre più circolare e sostenibile», come si legge sugli striscioni che circondano l’area in cui si stanno svolgendo i lavori di costruzione.

 

Il cantiere è stato inaugurato a giugno 2024 e, poiché i fondi provengono anche dal PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, dovrà essere completato entro il 2026.

Il cantiere del Textile hub di Prato, nel settembre 2024 - Foto: Alia Servizi Ambientali S.p.A.
Il cantiere del Textile hub di Prato, nel settembre 2024 - Foto: Alia Servizi Ambientali S.p.A.
Il cantiere del Textile hub di Prato, nel settembre 2024 - Foto: Alia Servizi Ambientali S.p.A.

«Quando nacque il Pnrr, nel 2021, decidemmo di partecipare al bando perché avevamo acquisito sufficiente esperienza come territorio», riprende Squittieri, ricordando come la città è coinvolta in progetti europei ormai dal 2016. Secondo l’assessora, il textile hub «è un lavoro corale, presentato attraverso un soggetto privato — Alia — ma con un coordinamento istituzionale e in collaborazione con i consorzi, le imprese e le associazioni del distretto tessile pratese». Sinergia è quindi una parola chiave del progetto. Un’altra è tecnologia.

Vecchi mestieri e nuove tecnologie

L’hub tessile, infatti, non solo promette di essere il più grande d’Europa, ma anche l’unico a utilizzare l’intelligenza artificiale e una tecnologia a infrarossi altamente evoluta, chiamata  spettroscopia NIR. In concreto, spiega il direttore impianti di Alia Francesco Tiezzi, «l’impianto riuscirà a separare il materiale tessile in maniera automatica con una precisione estremamente elevata», riconoscendo «sia la qualità sia il colore del materiale» di cui sono composti i rifiuti tessili.

 

Il compito che domani spetterà alle macchine, oggi lo svolgono le aziende dei cosiddetti sacchettai. «Noi sacchettai compriamo i sacchetti con dentro gli indumenti che le persone buttano via», dice Raffaello De Salvo, socio fondatore e presidente di Corertex, consorzio per il riuso e il riciclo del tessile della provincia pratese.

Abiti usati - Foto: Corertrex
Abiti usati - Foto: Corertrex

«Acquistiamo i sacchetti da chi si occupa della raccolta dei rifiuti tramite i cassonetti o il porta a porta. Li apriamo e facciamo una prima selezione dei capi», continua De Salvo. Se i vestiti sono rotti o sporchi, comunque non più utilizzabili, vanno nella filiera del riciclo all’interno della quale operano i cenciaioli per lana e cashmere. Se, invece, sono in buono stato, vengono destinati al riuso e viene fatta un’ulteriore scelta per tipologia e qualità. In gergo», spiega ancora De Salvo, «ci sono tre categorie di prodotti: quelli di discreta qualità, definiti «la seconda»; quelli di buona qualità, chiamati “la prima”. Infine, ci sono quelli di qualità migliore, che sono la “crema”».

 

E la crema dei vestiti usati, negli ultimi anni, piace sempre di più. Gli abiti di seconda mano, infatti, si stanno affermando come una delle soluzioni più adottate da chi, in Europa, non vuole sostenere il modello problematico del fast fashion.

 

«Noi siamo il primo anello della catena dell’economia circolare», sostiene con orgoglio De Salvo . E ha ragione, perché i sacchettai sono oggi degli attori cruciali per l’intero processo del riuso.

Tessuti usati - Foto: Corertrex
Tessuti usati - Foto: Corertrex

Il textile hub di Prato è un’infrastruttura pensata per migliorare e scalare le prime fasi di questo processo perché, come vedremo nelle prossime puntate di questa serie, ce ne sarà un gran bisogno nei prossimi anni. Nella scheda tecnica della struttura, infatti, si legge che uno degli obiettivi stratetigici dell’hub sarà lo «stoccaggio/selezione/trattamento di indumenti destinati al mercato dell’abbigliamento di seconda mano» e che «per la realizzazione di questa fase si potranno valutare collaborazioni con attività e grossisti che già operano nel distretto», come appunto gli stessi sacchettai.

 

Le modalità di queste collaborazioni non sono ancora state definite. Sia perché questi aspetti del textile hub verranno decisi contestualmente con l’avanzare del cantiere. Sia perché il settore del riuso, nel suo complesso, sta attraversando un momento di fermento, ma anche incertezza.

Il mercato dell’usato

Le cause del fermento e quelle dell’incertezza sono molteplici. Una delle prime è la Strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari, approvata nel marzo 2022. La strategia è un documento ampio, che affronta molti temi (ci torneremo nella prossima puntata) con l’ambizioso obiettivo di creare un settore tessile «più verde e competitivo, più resistente agli shock». Tra le azioni che propone, c’è anche «incentivare modelli di business circolari, inclusi i settori del riuso e della riparazione», attraverso fondi, incentivi, tassazioni favorevoli e linee guida.

 

Il riuso, del resto, è considerato la scelta più sostenibile in fatto di vestiti da diversi punti di vista. Quello ambientale, innanzitutto.

 

Secondo uno studio commissionato da EuRIC, la Federazione Europea delle Industrie di Riciclo, il riutilizzo di un capo ha un impatto ambientale 70 volte inferiore rispetto a quello generato dalla produzione di nuovi capi, anche tenendo conto delle esportazioni globali per il riutilizzo e delle emissioni dei trasporti: per ogni indumento di alta/media qualità riutilizzato vengono risparmiati 3 kg di CO2.

All’interno dei negozi di vestiti usati SHARE, che fanno parte della cooperativa Vesti Solidale - Foto: Vesti Solidale
All’interno dei negozi di vestiti usati SHARE, che fanno parte della cooperativa Vesti Solidale - Foto: Vesti Solidale
All’interno dei negozi di vestiti usati SHARE, che fanno parte della cooperativa Vesti Solidale - Foto: Vesti Solidale

Il mercato dell’usato è vantaggioso anche per i consumatori, che possono fare acquisti con un occhio al portafoglio e trovare capi come nuovi a prezzi convenienti. Uno studio dell’Osservatorio Second Hand Economy di Bva Doxa per Subito.it  ha analizzato i dati sulle vendite dell’usato nel nostro paese. I risultati indicano che circa il 57 per cento degli italiani ha acquistato o venduto prodotti usati nel 2022, registrando un incremento del 5 per cento rispetto all’anno precedente. Il valore economico generato è salito a 25 miliardi di euro, in crescita rispetto ai 18 milioni di euro di nove anni fa dato rilevato dalla prima edizione dell’Osservatorio, spiega il comunicato di Bva Doxa. La categoria “abbigliamento e accessori” figura al primo posto sia per prodotti venduti che comprati online.

 

A testimoniare la diffusione degli acquisti di abiti usati su internet, c’è anche il successo di Vinted, il più grande marketplace internazionale online tra privati in Europa dedicato alla moda second-hand. L’azienda, nata come una startup in Lituania nel 2008 e arrivata a valere oltre un miliardo, nel 2023 ha registrato un fatturato di 596,3 milioni di euro, con un aumento del 61 per cento rispetto all’anno precedente che le ha finalmente consentito di raggiungere la redditività.

Economia circolare, e sociale

Le piattaforme online non sono l’unico modo per acquistare abbigliamento usato. Sul territorio italiano esistono molti franchising, negozi e charity shop con prodotti selezionati per target o fasce di prezzo. Solitamente, negozi e franchising lavorano in conto vendita: il cliente porta un capo da vendere e l’incasso viene suddiviso tra negoziante e cliente. I cosiddetti charity shop, invece, lavorano su donazioni dirette di indumenti o abbigliamento che viene raccolto nei cassonetti dei rifiuti tessili distribuiti in moltissimi comuni italiani.

 

Un esempio è Vesti Solidale, una cooperativa sociale lombarda che è specializzata nel recupero del tessile e che gestisce l’intera filiera del riuso, dai cassonetti fino ai negozi di vestiti di seconda mano. Organizzazioni come questa sono sostenute anche dalla Strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari. «Potenziare le imprese sociali attive nel settore del riutilizzo è particolarmente importante, poiché esse hanno un notevole potenziale per creare imprese e posti di lavoro locali, verdi e inclusivi nell’UE. In media, un’impresa sociale crea 20-35 posti di lavoro per ogni 1.000 tonnellate di tessuti raccolti con l’obiettivo del riutilizzo», si legge nel documento.

Dento l’hub tessile di Rho - Foto: Vesti Solidale
Dento l’hub tessile di Rho - Foto: Vesti Solidale
Dento l’hub tessile di Rho - Foto: Vesti Solidale

«Il nostro obiettivo è creare opportunità di lavoro per le persone, in particolare quelle fragili o tagliate fuori dal mercato», dice il direttore di Vesti Solidale, Matteo Lovatti, aggiungendo che la cooperativa ha 145 dipendenti, di cui quasi il 75 per cento è considerato fragile. La cooperativa, lo scorso marzo, ha inaugurato un hub tessile a Rho, alle porte di Milano. È più piccolo e meno tecnologico di quello che aprirà a Prato ed è stato finanziato da fondi privati e della cooperativa stessa, ma è già operativo.

 

«L’impianto di selezione oggi riesce a lavorare due tonnellate al giorno di rifiuti tessili, che sono tante ma non in senso assoluto: in un anno fanno circa 400 tonnellate lavorate, ma le previsioni per il 2024 sono di circa 7.000 tonnellate di indumenti raccolti solo dai cassonetti gialli della nostra rete che copre la provincia di Milano e i territori di Brescia e Bergamo», spiega Lovatti.

 

Sono cifre eloquenti, che fanno capire quanti rifiuti tessili si producano, quanto ci sia bisogno di infrastrutture come gli hub tessili e quanto il mercato del riuso abbia grandi potenzialità, ancora inespresse.

 

«Nel 2023 abbiamo fatturato oltre 7 milioni di euro e con l’investimento dell’hub ci proiettiamo a crescere ancora e ad aumentare ulteriormente il numero dei nostri lavoratori», conclude il direttore di Vesti Solidale. Il suo ottimismo, però, non è condiviso da tutto il settore del riuso. Come dicevamo, in questo ambito e in questa fase, convivono fermento e incertezza. A volte, anche preoccupazione.

 

Negli ultimi mesi, infatti, sia a livello europeo sia a livello italiano, le imprese del settore hanno più volte lanciato l’allarme sulla sostenibilità economica delle loro attività e chiesto aiuti pubblici. Le ragioni sono tante, ma hanno a che fare soprattutto con le nuove norme in discussione a livello europeo e un settore del riciclo che ancora stenta.

 

Con il supporto di Journalismfund Europe

In copertina: un magazzino di un’azienda che smista rifiuti tessili – Foto: Corertrex

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