Il contrario di sprecare e inquinare è riparare ed educare
I vestiti usati viaggiano dall’Europa nel mondo, finendo per inquinare paesi come il Ghana. C’è chi vorrebbe limitare questi flussi. Ma la soluzione è acquistare meno
A Prato, sono secoli che la lana viene riciclata. Ma la città toscana è un’eccezione. I vestiti della fast fashion sono di scarso valore e di complessa lavorazione. Così l’Ue punta su nuove norme per far crescere un settore cruciale
L’industria della moda crea spreco e inquinamento. Ma ci sono tentativi di invertire la rotta. Sono soluzioni che funzioneranno? A partire da Prato, in Toscana, un viaggio nel modo del riuso, del riciclo e del riparo.
Il tatto è il senso più sviluppato, per chi ha una tradizione centenaria nel tessile.
Lo sanno bene i cenciaioli di Prato, che dall’Ottocento si tramandano una specializzazione artigiana unica al mondo: individuare e selezionare col tocco delle mani i capi destinati al riciclo della lana. Il cenciaiolo pratese lo riconosci da due caratteristiche: la postura, seduta a gambe distese su un cuscino, e la montagna di vestiti dietro cui lavora.
E se, come abbiamo visto nella prima puntata di questa serie, con la sua Venere degli stracci, Pistoletto ha avuto il merito di aver sensibilizzato sul tema dell’insostenibilità del sistema consumistico attraverso l’arte, ai cenciaioli si deve la sopravvivenza dell’intero distretto tessile pratese attraverso il riciclo di quegli stessi stracci che l’artista biellese ha messo ai piedi di Venere.
A Prato, infatti, sono secoli che si ricicla la lana.
Tutto ha inizio nel 1500, quando il Granducato di Firenze impone le prime tasse protezionistiche per arginare il florido commercio di stoffe pratesi e proteggere quello fiorentino. «Per i produttori e i commercianti di tessuti di Prato, il dazio si trasforma in una opportunità», spiega Luisa Ciardi, storica e archeologa industriale della fondazione Cdse, mentre mi mostra il percorso delle fasi di lavorazione della lana rigenerata attraverso le macchine esposte al Museo delle Macchine Tessili di Vernio, in provincia di Prato. «In mancanza di stoffe nuove e pregiate, i pratesi si specializzano nella nobilitazione dei cosiddetti cenci, le pezze da scarto», aggiunge.
Da allora, trasformazione, nobilitazione e resilienza diventano le caratteristiche del distretto tessile pratese, che nei secoli si è reinventato più volte. Come nei decenni centrali dell’Ottocento, quando vennero meccanizzate per la prima volta alcune fasi del processo di riciclo della lana. O come negli anni della Seconda Guerra Mondiale, quando l’unico tessuto disponibile era quello delle divise militari. Il textile hub in costruzione, in tal senso, non è che l’ultimo passo di un lungo percorso, il passo più recente, quello che il comune toscano sta compiendo per confermare il suo ruolo in un contesto nazionale e internazionale in cambiamento. Mutano tecniche e strategie, ma l’idea di fondo rimane la stessa. Il riciclo dei tessuti garantisce un vantaggio competitivo. Lo garantiva ieri, perché non erano tanti i territori che lo facevano. Lo garantisce oggi perché, nonostante siano in molti a dire di volerlo fare, il riciclo dei tessuti è ancora poco sviluppato.
A Prato, la lana viene riciclata con un procedimento di natura meccanica, nel quale hanno un ruolo centrale proprio i cenciaioli.
«I cenciaoli fanno una selezione di materiale per famiglie di colore, dopodiché la famiglia di colore viene ripresa e selezionata in base alla qualità di filato», spiega Gabriele Innocenti dell’Associazione Tessile Riciclato Italiana – ASTRI. In particolare, i cenciaioli selezionano i vestiti che sono composti almeno per l’85 per cento da lana e li avviano al riciclo, svolgendo un’operazione che negli anni a venire dovrebbe toccare, almeno in parte, al nuovo textile hub. La selezione dei capi, continua nella sua spiegazione Innocenti, «viene fatta tutta manualmente da persone, che fanno questo lavoro da tempo e hanno una certa dimestichezza. Oltre a selezionare per colore controllano che non ci sia dentro qualcosa che non corrisponde alla composizione dell’etichetta, tolgono etichette, bottoni e tutto ciò che non è filato».
Uno degli aspetti che rende sostenibile questo modo di riciclare la lana è l’assenza di tintura: i capi vengono selezionati e lavorati per colore, di modo che il risultato finale sia un filato che si avvicini il più possibile alla cartella colore che il cliente ha richiesto. Oggi il cardato riciclato ha una certificazione Global Recycled Standard (GRS), secondo cui «l’analisi dell’impronta ambientale del filato cardato riciclato impatta dieci volte meno rispetto allo stesso filato fatto con materiale vergine», afferma Innocenti.
A Prato, quindi, il riciclo unisce circolarità e sostenibilità. E se in passato questa capacità veniva nascosta come una colpa, oggi, grazie a una nuova sensibilità ambientale, si è trasformata nel fiore all’occhiello dell’intero distretto. Anche perché riciclare i tessuti non è cosa facile.
Il riciclo di un capo, infatti, presuppone conoscenza tecnica delle fibre, dei processi produttivi, delle esigenze del mercato in termini di tendenze e una discreta dose di creatività e rischio di impresa. In altre parole, riciclare rifiuti tessili, siano essi pre o post-consumo, comporta un lungo processo industriale fatto di svariati passaggi e altrettante competenze. Non è un caso se, di tutti i rifiuti tessili globali, meno dell’1 per cento viene riciclato. Eppure ce ne sarebbe un enorme bisogno.
La sola Unione Europea, in un anno, genera 12,6 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, con abbigliamento e calzature che rappresentano da soli 5,2 milioni di tonnellate di rifiuti, pari a 12 kg di rifiuti per persona all’anno. Attualmente solo il 22 per cento di questi rifiuti viene raccolto separatamente per essere riutilizzato o riciclato, mentre il resto è spesso incenerito o collocato in discarica.
Spesso le fibre hanno dei limiti tecnici o i capi sono composti da troppi fibre differenti per permettere il riciclo. «Un filato 100 per cento cotone riciclato non esiste perché le fibre stesse hanno dei limiti tecnici. Nel caso specifico del cotone, deve essere filato con altre fibre, come altro cotone (nel nostro caso biologico) o poliestere», spiega Eleonora Marini di Rifò, azienda pratese che vende capi in fibre riciclate. «L’economia circolare nell’ambito del settore tessile deve fare i conti anche con dei limiti fisici della materia», conclude.
Riciclare, insomma, non è facile. Le fibre sono spesso mescolate con altre (come il poliestere con il cotone), il che rende il riciclo più difficile a causa della scarsa disponibilità di tecnologie che separino i tessuti per fibra. In molti casi riciclare è meno conveniente per le aziende che produrre ex novo. Come per il poliestere, la cui fibra rigenerata è più costosa del filato vergine.
«La fast fashion produce capi con tessuti di qualità pessima: sono quasi tutti poliestere o un mix di poliestere e viscosa», spiega Raffaello De Salvo, presidente di Corertex, consorzio per il riuso e il riciclo del tessile della provincia pratese.
«A volte li fanno con delle “miste”, che significa più di quattro componenti per un tessuto, e lì riciclare è complicato, quasi impossibile. Inoltre, l’elestano, che spesso viene aggiunto per aumentare la funzionalità dei tessuti come il denim, può agire come contaminante nelle tecnologie di riciclaggio delle fibre tessili, incidendo sulla fattibilità economica e sui costi ambientali del processo di riciclaggio», prosegue De Salvo.
Gli acquisti di capi fast fashion, quindi, non solo aumentano in modo esponenziale la quantità di rifiuti tessili, ma non permettono nemmeno il recupero delle fibre in un’ottica di economia circolare. Secondo Innocenti, un capo «che non ha valore non è riciclabile».
«Nel distretto di Prato, riusciamo a riusare al massimo il 65 per cento dei rifiuti tessili, riciclare circa il 30-32 per cento e soltanto il 3-4 per cento va in discarica perché non è né usabile né riciclabile», spiega De Salvo. Il riuso, oggi, la fa da padrone e, per il presidente di Corertex è il mercato più redditizio in termini economici. «È la fascia che ci mantiene in vita», dice e anche molti altri operatori del settore la pensano in maniera simile.
Questo punto è cruciale. Riuso e riciclo possono sembrare in concorrenza. In realtà, per rendere sempre più circolare la nostra economia e ridurre il suo impatto climatico, sono settori che vanno sviluppati insieme. Certo, riusare un indumento è più sostenibile che riciclarlo, ma se il riciclo non cresce, a risentirne è anche il riuso. E, per una serie di cause, potrebbe risentirne ancora di più nell’immediato futuro.
Una di queste cause è la raccolta differenziata dei rifiuti tessili. Oggi, secondo l’Agenzia Europea per l’ambiente (Aea), in media, solo il 10 per cento di questi viene raccolto separatamente. Dal 2025, differenziare i rifiuti tessili diventerà obbligatorio in tutti i paesi europei. Questo, secondo l’Aea, da un lato, dovrebbe portare a un aumento dei tassi di raccolta dei tessili dalle famiglie, ma, dall’altro, «la qualità complessiva degli articoli raccolti potrebbe diminuire», riducendo probabilmente l’incentivo al riuso.
Qualcosa, in tal senso, si sta già osservando in Italia, che ha deciso di anticipare l’obbligatorietà della raccolta differenziata per il tessile al 2022.
«Molti cittadini, convinti che tutto si possa riciclare, conferiscono scarti tessili di ogni natura nei cassonetti e per questo stiamo assistendo a un calo di qualità nella raccolta», ha dichiarato Karina Bolin. Bolin è presidente di Humana People to People Italia, che gestisce cassonetti per i rifiuti tessili in tutta Italia, e ha rilasciato queste dichiarazioni alla rivista di settore Ricicla News nel contesto di un lungo articolo intitolato Abiti usati, le imprese: “Filiera italiana a rischio collasso”.
Anche a livello europeo c’è preoccupazione: «La crescita dei costi, il calo delle vendite e le lacune legislative europee stanno rendendo economicamente impossibile le fasi di cernita dei vestiti», ha dichiarato Mariska Boer, presidente del dipartimento tessile di Euric, in un comunicato pubblicato lo scorso aprile dalla Federazione Europea delle Industrie di Riciclo. «Senza efficaci modelli di business che incentivino il riciclo, i rifiuti tessili rischiano di finire nell’inceneritore. Così tutti gli sforzi per creare una filiera circolare saranno vani», ha aggiunto Boer.
Gli incentivi al riciclo cui fa riferimento Euric sono altre norme Ue, che dovrebbero rappresentare ulteriori pezzi del puzzle di soluzioni necessarie per rendere più sostenibile l’intera filiera del tessile.
La prima norma è il cosiddetto Regolamento Ecodesign (Espr), che è stato ufficialmente approvato lo scorso luglio e che stabilisce nuove misure di «progettazione ecocompatibile» per aumentare la durata dei prodotti e renderli più facili da riparare, riusare e riciclare.
Il regolamento riguarda alcuni settori in maniera prioritaria e, tra questi, anche il tessile: dovrebbe essere uno dei modi per limitare quei problemi di qualità della fast fashion che denunciava De Salvo di Corertex. Molto, però, dipenderà da come verranno delineati i requisiti specifici di sostenibilità per ciascun settore, che verranno discussi a partire dal 2025.
Le attività legislative di Bruxelles dovranno essere tenute sotto osservazione nei prossimi mesi anche per un altro provvedimento in discussione, ancora più cruciale: la Direttiva quadro sui rifiuti, che ovviamente riguarda anche quelli tessili.
La proposta avanzata dalla Commissione Ue nel 2023 prevede la creazione di sistemi di Responsabilità estesa del produttore (Erp) obbligatori e armonizzati tra tutti i Paesi dell’Unione. Altreconomia, spiega che «i marchi di moda e i produttori tessili saranno tenuti a pagare un contributo per ogni capo immesso sul mercato, che andrà poi a coprire i costi di raccolta, selezione, riutilizzo e riciclo». Sistemi Erp sono già attivi in Italia in altri tipi di settori, come quelli di pneumatici, batterie, imballaggi, dispositivi elettrici ed elettronici.
Per quanto riguarda il tessile, invece, ad oggi in Europa, sono obbligatori «solo in Francia, Ungheria e Paesi Bassi, e volontario nella regione delle Fiandre (in Belgio)», spiega l’Agenzia europea per l’ambiente, che sottolinea anche alcune criticità. A causa della «combinazione di alti costi del lavoro [in Europa] e prezzi notevolmente più bassi per i nuovi prodotti fabbricati, ad esempio, in Asia», «per un numero significativo di consumatori, la scelta più razionale è acquistare nuovi capi piuttosto che optare per riparazioni costose per indumenti a basso costo». Per questo, secondo l’Aea, servono «sovvenzioni per la riparazione dei tessili finanziate attraverso le tariffe Epr» e «riduzioni fiscali su pratiche come la riparazione e il riutilizzo».
A trovare un accordo sulla Direttiva quadro sui rifiuti, nei prossimi mesi, saranno chiamati gli stati Ue riuniti nel Consiglio dell’Unione Europea e il nuovo Parlamento europeo uscito dalle elezioni del giugno 2024. I sistemi Erp contenuti nella nuova norma dovrebbero, da un lato, garantire più fondi per far crescere le attività sostenibili e circolari e, dall’altro, contribuire a limitare la produzione. Quest’ultimo, quando si parla di tessile sostenibile, è l’obiettivo principale. Ma per raggiungerlo davvero non è solo una questione di regolamenti e direttive.
Con il supporto di Journalismfund Europe
In copertina, un magazzino di un’azienda che smista rifiuti tessili – Foto: Corertrex
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Più produciamo vestiti, meno costano. E quindi più ne compriamo, in un circolo vizioso apparentemente senza fine. L’alternativa del riuso, vista dal distretto tessile di Prato
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Vista dall’estero è un modello, un caso di studio e un vanto per la città di Milano, solo che vista da Milano praticamente non esiste
È un progetto italiano finanziato dall’Europa, mette insieme AI, analisi dei dati e progettazione urbana ed è già a disposizione del Comune di Milano
Quasi soltanto a parole, o in qualche report finanziato da progetti europei. Nella realtà le cose sono ancora molto indietro