Una montagna di vestiti
Più produciamo vestiti, meno costano. E quindi più ne compriamo, in un circolo vizioso apparentemente senza fine. L’alternativa del riuso, vista dal distretto tessile di Prato
I vestiti usati viaggiano dall’Europa nel mondo, finendo per inquinare paesi come il Ghana. C’è chi vorrebbe limitare questi flussi. Ma la soluzione è acquistare meno
L’industria della moda crea spreco e inquinamento. Ma ci sono tentativi di invertire la rotta. Sono soluzioni che funzioneranno? A partire da Prato, in Toscana, un viaggio nel modo del riuso, del riciclo e del riparo.
Old Fadama è uno slum sovrastato da una montagna di vestiti. Questo insediamento informale di oltre 80mila abitanti è il più esteso slum di Accra, la capitale del Ghana, in Africa occidentale. Per essere precisi, non ospita una sola montagna di vestiti, ma numerose montagne di pericolosi rifiuti tessili che inquinano questa parte di città già povera e precaria.
Sono rifiuti che, secondo un report dell’ong Greenpeace, vengono bruciati generando «un pericoloso inquinamento atmosferico ben al di sopra degli standard di sicurezza europei», finiscono nei vicini fiume Odaw, laguna di Korle e Golfo di Guinea inquinandoli «con il percolato tossico e le fibre di microplastica dei vestiti che si degradano» e che «hanno compromesso le risorse naturali, come la pesca», su cui gli abitanti di Old Fadama contano per vivere.
Sono vestiti che sono stati esportati in Ghana soprattutto dagli Stati Uniti e dall’Europa, e quindi sono anche vestiti italiani, che vengono buttati perché non adatti ad essere rivenduti nel vicino ed enorme mercato dell’usato di Kantamanto, uno dei più grandi del mondo. In pratica, sono la versione reale della montagna di vestiti usati dall’artista Pistoletto per denunciare l’insostenibilità del consumismo con la sua Venere degli Stracci, da cui siamo partiti.
Ma sono anche l’altra faccia della medaglia delle montagne di vestiti che i cenciaioli di Prato selezionano per riciclare la lana. E, per quanto distanti, fanno parte dello stesso sistema tessile globale dei cui problemi si cercano soluzioni.
Il Ghana è uno dei principali importatori mondiali di vestiti usati, dietro il Pakistan, mentre i primi due esportatori sono Usa e Cina, seguiti da diversi paesi europei, come la Germania e il Regno Unito. L’Italia è al nono posto, con meno di 200 mila tonnellate esportate nel 2022.
I vestiti vengono spediti nei paesi del cosiddetto sud globale da imprese che si occupano di raccolta e selezione. Sono considerati indumenti non adatti né per il mercato di seconda mano europeo né per il riciclo. Da decenni, vengono venduti al chilo a intermediari nazionali che a loro volta li rivendono a chi lavora nei negozi e, soprattutto, nei mercati locali. A Prato, operano diverse imprese di questo tipo. Una di queste è la Euro Clothing di Raffaello De Salvo, che è anche presidente di Corertex, consorzio per il riuso e il riciclo del tessile della provincia pratese.
«Ora vado poche volte all’anno dai clienti, perché il marchio è conosciuto e internet aiuta, ma una volta dovevo andare a cercare i clienti in giro per Africa, Asia e Sudamerica», racconta De Salvo, che lavora nel settore da decenni. «L’Africa è uno dei mercati più floridi per l’usato di qualità più povera, diciamo», ma «non è che mandiamo vestiti da buttare in quelle discariche a cielo aperto», prosegue l’imprenditore. «È tutto tracciato, emetto regolari fatture: vendo questi abiti usati, ad esempio, a un euro al chilo, pago il trasporto e poi il cliente che riceve la merce ci paga sopra il 30-40 per cento di dazi doganali. Io se la voglio smaltire qui regolarmente spendo 0,38 euro al chilo», spiega.
Sulla carta, è una soluzione win win per tutti gli attori della filiera: per le imprese come Euro Clothing, per quelle dei paesi che importano e per i consumatori finali che, in mercati come il Kantamanto di Accra, acquistano vestiti a prezzi molto bassi. A perderci però è il pianeta.
Greenpeace, sempre nel suo report, spiega che i problemi ambientali e sanitari legati all’importazione di abiti usati si stanno diffondendo «in diversi altri Paesi dell’Africa, soprattutto Kenya, Tanzania e Nigeria. «Le montagne di vestiti abbandonate nel deserto di Atacama (tra Perù e Cile, ndr) c’erano già 25 anni fa. Già allora c’era questo problema», ricorda De Salvo.
In venticinque anni però la situazione è peggiorata: si producono molti più vestiti e di qualità molto diversa, molto spesso inferiore. «Quello che una volta era un sistema ragionevole di riutilizzo di abiti di seconda mano che avevano un valore per il mercato africano è andato fuori controllo, a causa del modello commerciale della fast fashion», ha scritto Greenpeace.
Il sistema della moda veloce ha generato conseguenze a cascata su più livelli: la diffusione del fast fashion ha accorciato la vita dei capi, riducendone la qualità. Il risultato? Un’obsolescenza precoce di indumenti e accessori, che vengono scartati anziché riparati, perché conviene comprarne di nuovi. Negli ultimi 20 anni, il tempo di utilizzo degli abiti è diminuito del 36 per cento: un capo viene usato in media sette o otto volte. Poi viene abbandonato, lasciato nell’armadio o buttato tra i rifiuti. E se ne compra uno nuovo.
Il risultato è che le vendite globali di abbigliamento sono quasi raddoppiate, passando da 1.000 miliardi di dollari nel 2002 a poco meno di 2.000 miliardi di dollari nel 2023.
Ad aggravare una situazione già di per sé critica, ha contribuito anche l’avvento di nuovi marchi, come i cinesi Temu e Shein, diventati dei colossi del fast fashion in poco tempo. Oggi, Shein ha una media di 108 milioni di utenti mensili nei paesi dell’Unione Europea, mentre circa 75 milioni di clienti acquistano ogni mese dal rivale Temu. Il loro successo, secondo la società di consulenza McKinsey ha portato a una concorrenza che, nel mondo del fast fashion, è «destinata ad essere più agguerrita che mai» e che introdurrà «nuove tattiche su prezzo, esperienza cliente e velocità».
È lecito aspettarsi, quindi, che i flussi di vestiti usati destinati ai paesi come il Ghana non si andranno riducendo, con tutte le loro conseguenze negative. Al contrario, potrebbero aumentare ulteriormente. Per questo, in Europa, c’è chi vuole fermare questo mercato.
A marzo 2024, l’Assemblea nazionale francese ha approvato una nuova legge che imporrebbe gradualmente multe fino a 10 euro per ogni capo di abbigliamento usato esportato entro il 2030 e il ministero dell’Ambiente di Parigi Christophe Béchu ha spiegato a Reuters che avrebbe spinto per un divieto europeo, incassando il il sostegno di Svezia e Danimarca.
«L’Africa non deve più essere la pattumiera del fast-fashion», ha dichiarato Béchu.
I dati commerciali delle Nazioni Unite mostrano che l’UE ha esportato 1,4 milioni di tonnellate di tessuti usati nel 2022 e un rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente del 2023 ha mostrato che l’Europa invia il 90 per cento dei suoi abiti usati in Africa e in Asia.
Tentativi simili a quello francese erano stati fatti in passato anche da parte di alcuni governi africani. Tra 2016 e 2020, gli stati della Comunità dell’Africa orientale avevano provato a vietare gradualmente le importazioni dagli Usa, con l’idea di favorire le industrie tessili dei paesi africani. Il divieto però aveva acceso uno scontro commerciale con Washington e, alla fine, solo il Rwanda ha dato seguito all’iniziativa. Kenya, Tanzania e Uganda, che rappresentano oltre il 25 per cento delle importazioni di abbigliamento usato dell’Africa, invece, tornarono sui loro passi.
Oggi, la proposta francese viene seguita con attenzione in quegli stessi paesi. Teresia Wairimu Njenga, presidente della Mitumba consortium association del Kenya, un cartello sindacale che rappresenta i venditori informali di vestiti di seconda mano, ha detto all’agenzia Reuters che le importazioni di vestiti usati «sostengono i mezzi di sussistenza e generano entrate fiscali». Come spiega Africa Rivista, il Kenya ha importato 177.386 tonnellate di indumenti usati nel 2022, in aumento del 76 per cento rispetto alla quantità al 2013.
«Nessuno ci dà la spazzatura con la forza: quello che compriamo sono vestiti di buona qualità. Se un fornitore volesse venderci spazzatura saremmo felici di rifiutarla», ha aggiunto Njenga. In tal senso, Greenpeace porta dati interessanti sul contesto ghanese. «Secondo una recente indagine condotta su 370 rivenditori del mercato Kantamanto, la quantità di rifiuti tessili nelle balle di nuova importazione (gli abiti usati vengono venduti in balle di plastica, ndr) è in media inferiore al cinque per cento. Tuttavia – si legge nel rapporto – nella nostra ricerca i commercianti hanno riferito che ben il 60% degli abiti usati contenuti in queste balle sono invendibili».
Per quanto parziali, sono numeri interessanti, dei quali tenere conto se e quando la proposta francese tornerà ad essere discussa a livello europeo. Il divieto di esportazioni, però, sarebbe solo una soluzione parziale al problema. Le cause sono altre, una in particolare.
Secondo uno studio dell’Università del Delaware pubblicato nel 2022 dai ricercatori Aline Gomes Siqueira e Sheng Lu, «esiste una relazione positiva statisticamente significativa tra le vendite di abbigliamento nuovo di un paese e le sue esportazioni di abbigliamento usato». Rudrajeet Pal e Kanchana Dissanayake, invece, hanno studiato cosa fare per mitigare le problematiche legate alla sostenibilità economica, ma anche sociale e ambientale delle «catene di approvvigionamento “glocali” di abiti usati» e i due professori dell’Università di Borås, in Svezia, indicano come prima soluzione «rallentare la catena di approvvigionamento, affrontando i problemi legati alla scarsa qualità, alla sovrapproduzione e all’eccesso di offerta».
In estrema sintesi, a causare le montagne di rifiuti in certe parti del mondo è il fatto che se ne comprino troppi in altre parti. Lo dicono gli accademici, ma anche molti attivisti che in questi ultimi anni si impegnano su questo tema.
«L’unico modo per combattere il consumismo dell’usa-e-getta è tenerci le cose», scrive Orsola de Castro, co-fondatrice del movimento Fashion Revolution. «Ridurre gli sprechi e riutilizzare i prodotti tessili è una parte importante della moda etica«, le fa eco la giornalista Elizabeth L. Cline nel suo bestseller Overdressed.
Che è poi la linea dell’UE quando inizia a trattare la gestione dei rifiuti in modo sistematico: tutte le misure preventive atte a ridurre i rifiuti sono non solo fondamentali, ma necessarie per ridurre il nostro impatto ambientale e sulla salute umana.
Cline, che nel frattempo è diventata un’esperta in sostenibilità e attivista per i diritti dei lavoratori nell’industria tessile, chiosa con questi tre semplici principi:
Quello che propone Cline è un cambio di paradigma, innanzitutto culturale.
E per cambiare, serve educare. Come fanno a Prato.
Incidere sulla cultura del consumatore del futuro è l’obiettivo di molti laboratori per le scuole, che a Prato vengono organizzati da spazi pubblici e privati per fare formazione sulla moda circolare.
«È facile dire che i brand sono cattivi, ma la realtà è che le aziende devono adeguarsi alle regole del mercato. Ognuno deve fare la sua parte: aziende, consumatori e istituzioni. Il consumatore come fa ad orientarsi? Non è semplice. Ci vuole una cultura della sostenibilità e della moda circolare», dice Filippo Guarini direttore del Museo del Tessuto di Prato. Nel settembre 2024, il museo ha organizzato un percorso formativo ed esperienziale per ragazzi delle scuole superiori locali, che esplora proprio i temi moda sostenibile partendo dal distretto tessile pratese. Si intitola “I Care, I Make”, comprende formazione teorica, incontri con esperti, tour nelle aziende e anche un laboratorio di personalizzazione degli abiti usati.
In pratica, gli studenti pratesi si cimenteranno in qualcosa di molto simile a quello che, in termini tecnici, viene definito upcycling, che è l’atto di aggiustare e ripensare i vestiti, fino ad arrivare a trasformarli.
In italiano, il termine viene spesso confuso e tradotto con “riuso”, ma sarebbe più corretto definirlo “ricondizionamento”, parola che si applica per lo più a prodotti tecnologici, come gli smartphone. Con l’upcycling il capo di abbigliamento viene fatto rivivere tramite modifiche e/o aggiunte sartoriali. Facciamo un esempio: una camicia bianca già indossata e venduta così com’è è considerata usata. Una camicia bianca a cui viene modificato il colletto o rattoppato un buco con un ricamo è considerata prodotto dell’upcycling. L’obiettivo è quello di trovare tutte le strade possibili per dare una nuova vita ai capi, di allungarne la durata, a costo di reinventare e stravolgere completamente il capo stesso.
Prima dell’avvento del fast fashion, riparare gli indumenti era la prassi: i capi erano fatti con tessuti di ottima qualità, non esisteva la cultura del vestito usa-e-getta e l’armadio conteneva l’essenziale per ogni stagione. Oggi riparare i vestiti è più un atto politico che un vezzo. «Manutenzione è una parola che non associamo più all’abbigliamento, eppure è il nodo del problema e anche un modo per definire in parte la soluzione, cioè ristabilire l’equilibrio tra consumo e smaltimento», sostiene de Castro di Fashion Revolution.
Diffondere la cultura del riparo è l’essenza stessa dell’upcycling che, infatti, si sta diffondendo in contesti molto diversi.
A Londra, nel 2021, è nata SOJO, che offre servizi sartoriali e di riparazione dei capi di abbigliamento a domicilio. «Siamo nati spinti dalla convinzione che serva un approccio più lento e ponderato alla moda e per rendere le riparazioni sartoriali più accessibili. Siamo un team di sarte, rider, tecnici e creativi che lavorano per accelerare il cambiamento», spiegano dalla società.
Anche nell’hinterland milanese si fa upcycling, con una vocazione sociale. Nel 2024, la cooperativa Vesti Solidale ha inaugurato un hub tessile a Rho e, al suo interno, ha aperto un piccolo spazio dedicato alla sartoria. I capi scartati dalla selezione per il riuso finiscono per creare accessori, borse o altri indumenti originali e unici, con il contributo di alcune delle persone fragili impiegate dalla cooperativa.
Infine, anche ad Accra, si fa upcycling, a partire proprio da quelle montagne di vestiti che sono una minaccia per la città. The Revival è un’ong ghanese «che crea consapevolezza, arte e posti di lavoro con i rifiuti tessili globali riciclati» e che ha sede proprio all’interno del mercato di Kantamanto. L’organizzazione, spiega sul suo sito, «raccoglie abiti di seconda mano che sono stati scartati, impiega artigiani locali a Kantamanto e collabora con studenti di moda delle università locali e membri del pubblico per partecipare alla creazione di nuovi abiti e arte per dare valore agli oggetti etichettati come “spazzatura”».
Il contrasto non potrebbe essere più evidente.
La fast fashion spreca e inquina. The Revival ripara ed educa.
In copertina, discariche di rifiuti tessili ad Accra – Foto: Greenpeace
Con il supporto di Journalismfund Europe
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A Prato, sono secoli che la lana viene riciclata. Ma la città toscana è un’eccezione. I vestiti della fast fashion sono di scarso valore e di complessa lavorazione. Così l’Ue punta su nuove norme per far crescere un settore cruciale
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