Ep. 01

Vivere dopo la fine della normalità

Il mondo vecchio sta collassando. Resistere alla caduta è impossibile. Serve prepararsi all’atterraggio.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Malatempora

Cronache dei tempi difficili in cui viviamo, tra una crisi ecologica, una economica, una sociale e una politica.

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Pace, benessere, sicurezza: abbiamo ormai l’abitudine di considerare lo stile di vita ereditato dagli anni del Boom economico come una forma di “normalità”. Ogni ostacolo nella marcia del progresso – che si tratti della scomparsa di interi settori industriali, di esplosioni di violenza o di pandemie – viene derubricato a semplice crisi o parentesi temporanea.

Ma da quanto dura questa parentesi? I pilastri dell’illusione collettiva dalla quale non riusciamo a svegliarci sono tre: la crescita illimitata dell’economia; la capacità di padroneggiare la proliferazione dei rischi attraverso l’innovazione scientifica e la formazione di una classe di esperti; la garanzia da parte degli Stati di garantire la coesione sociale sul territorio. Il problema è che in tutto l’Occidente stiamo vivendo contemporaneamente una crisi di crescita, una crisi delle competenze e una crisi di coesione: tre crisi che minano la legittimità delle strutture di potere, erodendo i presupposti del sistema democratico. Per questo dobbiamo essere pronti alla fine della normalità: psicologicamente, culturalmente e politicamente.

La storia della modernizzazione è arrivata al punto in cui, come nel film Tenet, la linea del tempo ha iniziato a invertirsi e le persone che vanno verso il futuro iniziano a scontrarsi e affrontarsi con quelle che stanno già tornando indietro nel passato.

Resistere a questi cambiamenti è inutile: i soggetti che dovrebbero prendersene carico – a partire dagli Stati – hanno perso il controllo sulla quantità di rischi indotti dal ciclo della modernizzazione, alimentando semmai delle spirali perverse.

Lo sviluppo titanico delle forze produttive lungo il Novecento ha richiesto uno stimolo della domanda che ha indotto nella popolazione dei bisogni sociali irreversibili. Questi bisogni potrebbero essere soddisfatti soltanto garantendo in tutto il mondo un ritmo di crescita all’altezza di quello di cui ha goduto per decenni l’Occidente capitalista.

Tuttavia il ciclo della modernizzazione, segnato dall’espansione continua delle burocrazie pubbliche e private, è entrato da mezzo secolo in una fase di rendimenti decrescenti: ogni investimento genera sempre meno benefici collettivi e non può sostenere un’espansione illimitata.

Sono tre le spirali in cui sono incamminate le democrazie liberali: innanzitutto la spirale dei rischi tecnologici che non possono essere gestiti in altro modo che con un’interminabile corsa in avanti nell’innovazione scientifica e lo sfruttamento delle risorse naturali; poi la spirale delle ineguaglianze sociali alimentate dal bisogno di riconoscimento; infine la spirale di defezione, per non dire radicalizzazione, delle minoranze confrontate al fallimento delle politiche di assimilazione.

Queste tre spirali portano a una produzione massiccia di scorie del processo di produzione – individui declassati e risentiti, rifiuti ambientali, danni iatrogeni, interessi sul debito – che devono essere trattate a un costo sempre più alto.

Resistere a questi cambiamenti, dunque, è inutile. Di fronte al collasso del paradigma politico-culturale che regge l’Occidente almeno fin dal 1945 è necessario predisporre un piano di atterraggio, di modo da attutire gli effetti di un potenziale choc civilizzazionale. Per dare finalmente un senso a una parola solitamente impiegata come vuota invocazione, potremmo anche dire: un piano di resilienza.

Si tratta di assorbire l’urto della Storia senza romperci del tutto. Invece di contrapporci frontalmente a fenomeni inarrestabili come il multiculturalismo, la proliferazione di rischi e la scarsità materiale dobbiamo dotarci delle strutture sociali idonee a conviverci, facendo piazza pulita delle ambizioni prometeiche dell’universalismo e del produttivismo, iniziando a pianificare una società resiliente in grado di ereditare il mondo post-normale.

La prima crisi è quella della crescita. 

L’età d’oro della crescita, con i suoi straordinari risultati in termini di benessere e salute, è dietro di noi. Se è intuitivo che l’economia delle potenze occidentali non avrebbe potuto continuare indefinitamente a crescere allo stesso ritmo che nella fase di decollo e di ricostruzione post-bellica, il problema è che proprio su questo specifico ritmo riposavano sia le sue promesse sociali che le sue capacità di finanziamento sui mercati internazionali. Inoltre, la crescita economica si ottiene oggi al prezzo di esternalità crescenti: ineguaglianze patrimoniali, precarizzazione del lavoro, sfruttamento delle risorse naturali, inquinamento. La classe media euro-americana assiste all’ascesa delle classi medie del resto del globo e alla formazione di una minuscola élite mondiale di super-ricchi proprietari dei “mezzi di produzione planetaria” (infrastrutture informatiche, logistiche, finanziarie e capitale simbolico) in grado di garantire economie di scala su una scala mai sperimentata prima. Così tende a erodersi la legittimità del sistema capitalistico.

La seconda crisi è quella delle competenze.

Nella teoria della modernizzazione, l’innovazione tecnica avrebbe dovuto servire a rilanciare continuamente il ciclo economico, aprendo nuovi mercati e migliorando la produttività.

Ma neanche questa dinamica è tenuta a essere eterna: se i crescenti investimenti in Ricerca & Sviluppo producono risultati sempre meno eclatanti, anche i risultati scientificamente più rilevanti hanno effetti sempre meno virtuosi sulla crescita.

Qualcosa di simile accade per gli investimenti in Istruzione, che oltre una certa soglia producono effetti sempre più deboli sulla produttività. Oggi nessuna società avanzata può permettersi di rinunciare a investire in competenza, pena la definitiva marginalizzazione. Allo stesso tempo bisogna constatare che questa spesa crescente fornisce risultati sempre meno soddisfacenti. Così tende a erodersi la legittimità della classe competente.

La terza crisi è quella di coesione 

Non è possibile pensare il capitalismo del Novecento senza considerare il ruolo centrale degli Stati, contemporaneamente regolatori del mercato (mediante l’ordinamento giuridico), forze di modernizzazione (mediante il sistema educativo e le politiche di assimilazione) e fornitori di domanda (mediante la spesa pubblica).

Ma il mercato per essere corretto e stimolato ha bisogno di sempre più Stato, e quando il prelievo fiscale non basta più questo inizia a indebitarsi. A un certo punto lo Stato fatica a garantire la coesione sociale: da una parte la classe media inizia a manifestare delusione per le sue aspettative tradite di mobilità sociale; dall’altra le politiche assimilazioniste operano con sempre minore efficacia. Così tende a erodersi la legittimità dello Stato.

Un gruppo sociale non è in grado di coordinarsi se le suoi istituzioni non vengono ritenute legittime, e come già notava Machiavelli compensare questo vuoto con la repressione può funzionare soltanto sul breve termine perché eccessivamente costoso. Avendo evacuato ogni dimensione trascendente dal suo orizzonte, il capitalismo non può  trarre legittimazione in altro modo che dai suoi risultati, ovvero da un calcolo dei costi e benefici.

Questo calcolo, particolarmente favorevole nelle fasi di crescita sostenuta, diventa meno soddisfacente quando i rendimenti iniziano a decrescere. In questa fase, inoltre, assistiamo all’emergere di vari circoli viziosi o spirali.

La prima spirale è quella dei rischi tecnologici

Se dovessimo riassumere con una sola parola la promessa che l’età moderna instaura come fondamento del suo sistema di legittimazione, sarebbe “sicurezza”. Innanzitutto la sicurezza nel senso di incolumità fisica, protezione dal rischio di morte, di cui lo Stato hobbesiano si fa garante; poi tutte le sicurezze secondarie che la crescita economica porta con sé, insomma la prosperità; infine nel senso di certezza, quella data dalla scienza moderna come progetto di comprensione del mondo.

Stato, Mercato e Tecnica procedono dunque in parallelo nella produzione di sicurezza, processo detto di modernizzazione la cui finalità consiste nell’amministrare una quantità crescente di rischi. Questi rischi non sono fenomeni naturali, ma fatti sociali: pericoli potenziali che, invece di essere subiti, entrano artificialmente nella sfera di ciò che deve essere previsto, neutralizzato, compensato.

Tuttavia la produzione della sicurezza non è priva di rischi essa stessa, in quanto genera dei rischi di secondo livello come effetti iatrogeni e scorie, che devono a loro volta entrare nella sfera della sua attività di controllo del rischio, in una corsa infinita alla sicurezza.

Ogni rallentamento del ciclo della modernizzazione esporrebbe la società a una quantità ingestibile di pericoli e bisogni: il paradigma non lascia altra scelta che l’accelerazione. Ma certo un’alternativa esiste, almeno in teoria, ovvero che l’umanità impari ad accettare l’incertezza.

La seconda spirale è quella del declassamento

La costruzione sociale dei rischi ha costituito un formidabile serbatoio di domanda che ha fatto da carburante per il ciclo virtuoso della modernizzazione.

Nella seconda metà del Novecento, la proliferazione di nuovi bisogni ha generato su larga scala questa domanda, dando vita di conseguenza un’ampia classe media la cui funzione è stata principalmente di consumare merci.

Soddisfatti i bisogni materiali, sono stati sempre più i bisogni simbolici di natura ostensiva o posizionale quelli che assorbivano gran parte del reddito, in quanto  utili come segnali per allocare alcune risorse scarse come il credito finanziario o le posizioni lavorative.

Nel corso dei decenni, la spesa per questi consumi posizionali ha continuato a crescere in maniera sostenuta, in quanto valgono come investimenti in mobilità sociale. Oggi costituisce un gigantesco spreco di risorse che non incentiva allo sviluppo di competenze utili ma anzi condanna sempre più famiglie al declassamento, per inseguire quel bene strutturalmente scarso che è il riconoscimento sociale.

Se la crescente propensione al consumo e all’indebitamento da parte della classe media è servita negli ultimi decenni da serbatoio per un’accumulazione più sostenuta del capitale, è anche la sovra-valorizzazione degli asset finanziari e posizionali (come beni immobiliari e titoli di studio) ad avere garantito la sua esponenziale tendenza alla concentrazione.

Ma certo un’alternativa esiste, almeno in teoria, ovvero che l’umanità si svincoli dalla vana corsa per il riconoscimento.

La terza spirale è quella della dissimilazione

L’assimilazione, ovvero la costruzione sociale di cittadini adatti a un certo modello di società, non è gratuita né indolore: richiede infrastrutture assimilatrici, come il sistema educativo; presuppone certe condizioni di felicità di natura demografica, urbanistica, mediatica; ma soprattutto non funziona se non possono essere mantenute le promesse di mobilità e di riconoscimento delle quali dovrebbe godere chi abbraccia i nuovi valori. Insomma sono le fasi di prosperità a propiziare i processi di assimilazione, mentre le fasi di crisi fanno mancare gli incentivi.

Così le crisi di crescita aprono inevitabilmente delle crisi di coesione, che si manifestano con il ripiego degli individui nelle loro comunità. Queste in effetti offrono dei servizi – protezione e sicurezza, ma anche appartenenza e riconoscimento – che lo Stato non è in grado di finanziare e che sul Mercato non sono accessibili.

Assistiamo quindi a un processo di dissimilazione, contrario a quello di assimilazione, che fa emergere nuove rivendicazioni e nuovi conflitti. Fintanto che le domande non vengono soddisfatte, e per quanto lo Stato investa in misure repressive, la spirale della dissimilazione continua a essere alimentata.

L’esito estremo sono fenomeni di escalation tipici delle fasi di dissoluzione dell’ordine statale, che devono essere gestite con misure contro-insurrezionali. Ma certo un’alternativa esiste, almeno in teoria, ovvero che l’umanità impari ad accettare la differenza culturale invece di ostinarsi a modellare l’individuo secondo l’unico modello del piccolo-borghese novecentesco.

Downshifting: un piano di crisi civilizzazionale

Di fronte a queste tre crisi e queste tre spirali, le brutali misure di resistenza approntate dai governi non fanno altro che accentuare i problemi cercando di correggerli.

Non si ferma la spirale dei rischi producendo nuovi rischi attraverso il progresso tecnologico; non si interrompe la spirale del declassamento con semplici misure espansive, che invece di rallentare accelerano la concentrazione del grande capitale; non si combatte la spirale della dissimilazione con la repressione, che semmai polarizza ancora di più le minoranze e (come in Tenet) stritola gli ideali di progresso in una tenaglia temporale. Sono i fondamenti culturali della modernizzazione, quelli di una borghesia universale in perenne lotta per il riconoscimento attraverso i suoi consumi posizionali, che la modernizzazione ha reso insostenibili.

I tentativi di gestire il mondo nuovo sono votati al fallimento in assenza di un intervento più radicale sul piano dei valori fondativi della civiltà moderna, che oggi guidano l’azione umana verso fini non più sostenibili su larga scala. Critica dei valori che porta con sé anche una “critica del valore”, ovvero il superamento di una teoria soggettivistica produttrice d’ineguaglianza e incapace di misurare il costo crescente dello sfruttamento delle risorse naturali.

Abbiamo visto gli effetti drammatici dell’austerità, ma anche gli effetti perversi di politiche industriali produttiviste che compromettono l’ecosistema. Conosciamo gli effetti della sovra-istruzione, ma anche quelli della sotto-istruzione. E per quanto riguarda la governance del multiculturalismo, è noto l’effetto polarizzante della repressione ma anche il rischio separatista costituito da minoranze conflittuali.

La sola soluzione possibile consiste nel disinnescare a monte le spirali sopra enunciate, alimentate da un triplice presupposto tipicamente moderno: che sia possibile tenere sotto controllo ogni incertezza, inseguire la proliferazione infinita dei bisogni sociali e imporre una sola e unica norma al mondo intero.

Liberandoci da questa triplice aspirazione che spinge l’economia verso un’espansione illimitata, possiamo immaginare un uso più ragionevole delle risorse e un’attenuazione dei conflitti. 

In informatica si parla di “downgrade”, o “downshifting”, quando a fronte di un limite hardware si è costretti a recuperare una versione più leggera del sistema operativo: nello stesso modo il software costituito dalle istituzioni morali e giuridiche della società liberale, forgiato sul modello dell’individuo borghese, appare non più adatto alle condizioni reali nelle quali viviamo, e continua a richiedere continue e dolorose operazioni di downshifting.

Il piano di resilienza di cui questa società ha bisogno, modellato sull’esempio di un piano pandemico pronto in caso di imprevisto, richiede una revisione dei principi non-negoziabili della modernità politica. Ma come scriveva il filosofo Jean-Marie Domenach in apertura di un lavoro collettivo precorritore del 1977 sul Mythe du développement, dobbiamo definire “le condizioni perché un pensiero dei limiti eviti di essere reazionario e non ricada nel rifiuto ipocrita o masochista della nostra civiltà”, né “passi da forme totalitarie di costrizione”.

Il downshifting di cui abbiamo bisogno non significa promuovere il ritorno a una presunta “società tradizionale”, con tutte le sue ingiustizie e le sue disfunzioni, ma progettare forme nuove, non-esclusive, adattive, fondate sulla cooperazione invece che sulla competizione. Non eviteremo lo choc ma forse possiamo attutirlo, altrimenti la caduta della classe media disagiata coinciderà con la guerra di tutti contro tutti.

Crediti per la fotografia:

Resti di un incendio sulle sponde del Mono Lake, California, Agosto 2016. Foto a infrarossi. Foto di Francesco Chiot.

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