Vivere dopo la fine della normalità
Il mondo vecchio sta collassando. Resistere alla caduta è impossibile. Serve prepararsi all’atterraggio.
Cosa succede quando uno Stato non riesce più a controllare la violenza dei suoi apparati di sicurezza?
Cronache dei tempi difficili in cui viviamo, tra una crisi ecologica, una economica, una sociale e una politica.
Ripenso alle strade di Parigi in quei sabati a cavallo tra il 2018 e il 2019, quando il centro città era paralizzato dalle manifestazioni; ricordo gli assembramenti di macchine della polizia a Saint-Lazare, le vetrine di lusso dei Grands Boulevards rotte o ricoperte di scritte; e la sera la folla di manifestanti scomposta in piccoli gruppi che erravano per la città, spossati e inebriati, trascinando le loro bandiere verso casa.
Non era chiaro per cosa manifestassero: la scintilla della protesta era stata la proposta governativa di un rincaro del costo del carburante mentre la rivendicazione più frequente erano le dimissioni del presidente Macron; la piattaforma politica era quantomai vaga.
Erano di destra? Erano di sinistra? Erano politicizzati oppure antipolitici?
La mia impressione era che si trattasse soprattutto di una grande festa rivoluzionaria, un rituale collettivo di partecipazione e distruzione, lo sfogo di un malessere che aveva una causa più profonda: l’incapacità del sistema politico francese – chiamiamolo: capitalismo, socialdemocrazia, Stato liberale, modernità politica, progressismo, o come ci pare – di garantire la realizzazione delle promesse che aveva fatto negli ultimi due secoli, o perlomeno negli ultimi settant’anni.
Quelle manifestazioni erano il segnale di una decomposizione dell’ordine civile, e lo fu anche la loro impietosa repressione.
Non è un caso che tutto fosse partito da una questione di carburante, ovvero dalla risorsa (scarsa) dalla quale la nostra civiltà si era resa dipendente ai tempi della rivoluzione industriale. E non è un caso che il momento più altamente simbolico della protesta fu il danneggiamento di una scultura che celebrava la Rivoluzione francese.
Ci si interrogava, tre anni fa, su chi avrebbe finito per egemonizzare quel malessere, tra i movimenti che accompagnavano i Gilets Jaunes in piazza, tra nazionalisti e anarchici. Stavamo iniziando a vedere in Italia, coi Cinque Stelle, quanto fosse facile riciclare il sentimento antisistema per metterlo al servizio del sistema stesso. In Francia qualche piccolo imprenditore del dissenso ci provò pure, a candidarsi alle elezioni con indosso un capo catarifrangente, ma nessuno è stato così stupido da cascarci.
Di tutta evidenza la vaghezza era un tratto essenziale di quell’ondata di protesta, durata almeno sei mesi, capace di aggregare un numero non trascurabile di francesi (e molti simpatizzanti) attorno a un pugno di temi strettamente collegati: il grido della “Francia periferica” contro la capitale; il sussulto del popolo contro le élite politiche, economiche e tecnocratiche; più concretamente l’erosione del potere d’acquisto, la desertificazione dei territori rurali, il definanziamento dei servizi di prossimità in una logica di crescente centralizzazione. I problemi denunciati sono fondamentalmente gli stessi già noti negli studi e nei rapporti istituzionali fin dalla fine degli anni 1960, e contro i quali nulla sono riusciti a fare i poteri pubblici.
A Parigi convergevano coloro che allo storytelling progressista avevano creduto per davvero, delusi e incazzati perché tutto era andato storto. Come se avesse potuto non andare storto, a lungo termine, quel progetto di sottomissione dell’umanità a una risorsa scarsa attraverso la divisione planetaria del lavoro. E come se non ci fosse margine perché andasse ancora più storto, sempre più storto.
Quelle piazze ci hanno dato una prima avvisaglia di quanta rabbia potesse nascere dalla delusione. E poi ci hanno mostrato tutta la violenza di cui è capace un sistema quando si sente minacciato.
Per molti le manifestazioni parigine erano una semplice gita: un pretesto per visitare la capitale da parte di famiglie che vivono in quella che i francesi chiamano “la provincia”, cioè il resto del paese, definitivamente colonizzato ai tempi della Rivoluzione. Non a caso il punto verso cui tutti convergevano era l’Arco di Trionfo, seguendo gli Champs-Elysées, luogo prettamente turistico, invece dell’area solitamente dedicata alle manifestazioni, ovvero la place de la République. C’erano mogli e mariti, nonne e nonni, bambine e bambini, attivisti improvvisati che si erano conosciuti poche settimane prima nelle rotonde stradali di paese dalle quali era nato il movimento.
Ma c’erano anche lacrimogeni. C’erano granate esplosive. C’erano cariche della polizia.
E soprattutto ci sono stati feriti, ben duemila e cinquecento. E occhi spappolati: ventiquattro. E mani mozzate: cinque. Sono quelle di cui parla il titolo del libro di Sophie Divry, Le mani mozzate.
Questo è il bilancio della repressione del movimento dei Gilets Jaunes da parte del governo di Emmanuel Macron. Questo è lo stato di salute delle socialdemocrazie liberali all’alba del ventunesimo secolo.
Se era una festa, se era uno sfogo, se era una catarsi, se si trattava soltanto di lasciare qualche ora di “ricreazione” (per citare il generale De Gaulle a proposito del Sessantotto) a una popolazione sferzata dalla fine della crescita sostenuta, di tutta evidenza qualcosa è andato storto: la violenza simbolica ha lasciato campo alla violenza reale. Una violenza che, praticata altrove che nel “paese dei diritti umani”, avrebbe sicuramente attirato l’attenzione e lo sdegno dell’opinione pubblica internazionale.
Cinque mani mozzate di Sophie Divry è il resoconto di questa violenza. Lo fa nella forma di un coro in cui si mescolano le voci di cinque testimoni, cinque vittime della violenza poliziesca, consegnando un racconto collettivo del trauma. Doppia delusione, quindi: prima della manifestazione, per quel potere che non ha saputo garantire il benessere che prometteva, e dopo la manifestazione, per quel potere che non riesce a proteggere i suoi cittadini ma anzi li ferisce e li mutila.
Qualcosa è andato terribilmente storto in quelle piazze, dove per rispondere alla minaccia di una folla disordinata (i Gilets jaunes rifiutavano di ufficializzare e inquadrare le manifestazioni) le forze dell’ordine hanno applicato misure di contenimento progettate per contesti insurrezionali, tra cui fucili con proiettili di gomma “a letalità attenuata” (LBD o flash-ball) e granate lacrimogene esplosive GLI-F4, classificate “armi di guerra” – caso unico in Europa di arsenale militare impiegato in contesto civile.
Qualcosa è andato terribilmente storto, perché questa tattica di repressione ha incontrato dei manifestanti occasionali, inconsapevoli dei rischi che avrebbero incontrato, di certo non preparati per la guerriglia urbana: Divry restituisce l’ingenuità, che sarebbe stata anche la nostra, con cui raccolgono da terra quelle granate un attimo prima della deflagrazione.
C’è una violenza che sorge dalla delusione: disordinata, spontanea, era quella dei Gilets jaunes. E poi c’è la violenza della repressione: fatta in nome dell’ordine, tuttavia nasconde un disordine più profondo.
Apparentemente è una violenza ordinata, nel senso c’è una logica della repressione. Governare la piazza, intimorirla, dissuaderla, educarla. Shock and awe. Mettere in mostra il potere dello Stato. Inseguire gli agitatori con gli strumenti della legge, controllarli, arrestarli, umiliarli, processarli. Quest’ordine si leggeva nelle parole dell’allora ministro dell’interno, Christophe Castaner, che si presentava come “uomo forte” e voleva lanciare un messaggio altrettanto forte ai manifestanti, proprio come il precedente ministro Manuel Valls di fronte alla radicalizzazione islamica. Amnesty International si è preoccupata degli abusi della giustizia francese in un rapporto del 2019, tra arresti preventivi e perquisizioni ingiustificate, denunciando addirittura delle “leggi contrarie al diritto internazionale”. Soltanto la stagione dei Gilets jaunes ha prodotto dodicimila arresti e quarantamila condanne “sulla base di leggi vaghe”, veri e propri casi di “accanimento giudiziario”. E per le vittime della repressione non prevede nessuna riparazione, ma un’estenuante e onerosa odissea processuale di cui il libro di Sophie Divry rende conto.
È la violenza con cui il potere compensa un vuoto crescente della sua legittimità. Fintanto che il dominio politico appare legittimo · perché rispetta le forme legali o tradizionali, perché seduce oppure perché conviene – la servitù è volontaria. Si possono orientare i comportamenti attraverso delle “spinte gentili” (nudge) e contare sulla governamentalità attraverso i grandi numeri. Le opinioni pubbliche occidentali sono state docili negli anni del Boom, quando i frutti della crescita rotolavano giù dall’albero un po’ per tutti; hanno dato i primi segni di scontento proprio quando, verso la metà degli anni 1960, la stabilità economica del sistema ha iniziato a traballare. Nel decennio successivo al Sessantotto ci si preoccupa delle conseguenze dello stiramento e del sovraccarico delle istituzioni rispetto alle aspettative della popolazione, della crisi di legittimazione che ne consegue, del rischio d’ingovernabilità crescente. E così via via che il capitale di legittimità si erode, via via che le esternalità sociali dello sviluppo si manifestano, nella forma di crescenti ineguaglianze, poco a poco gli Stati si trovano costretti a puntellare il difetto di servitù volontaria con un surplus di coercizione, a investire crescenti risorse nella prevenzione dei nuovi rischi che proliferano: criminalità, disagio mentale, dissenso. Si esternalizzano presso specifiche istituzioni o professioni, tecnicizzandole, le funzioni precedentemente svolte (a minor costo) dalle strutture sociali elementari e dai corpi intermedi. E in ultima istanza si militarizza lo spazio pubblico, da principio in certi suoi luoghi sensibili e tempi caldi, non potendo più contare sull’autoregolazione pacifica della società civile. Come già intuiva Machiavelli al suo tempo evocando l’immagine del principe che si fa leone, la repressione è il sintomo di un potere mortalmente indebolito, che fa la guerra perché non può garantire la pace: si tratta di una strategia di dominazione che può funzionare per tempi brevi, ma a termine si rivela fin troppo costosa.
Innanzitutto la repressione, che dovrebbe compensare il difetto di legittimazione, contribuisce a eroderla. Questo appare evidente presso le vittime dirette o indirette, nei segmenti sociali colpiti dalla sua violenza, che iniziano a diffidare dalla polizia, come mostra bene Divry. Inoltre la mediatizzazione degli abusi polizieschi a ridosso della stagione dei Gilets Jaunes ha portato al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica l’esistenza di un problema. Sono sempre più numerosi i francesi che dubitano della natura democratica e liberale della loro repubblica, e certo non basta loro consolarsi constatando che le cose vanno peggio nella Russia di Putin. La Francia è il “paese dei diritti umani”: se cessa di esserlo, è ancora qualcosa?
Perché dietro all’ordine repressivo incarnato da ministri dell’interno aggressivi come Valls e Castaner si cela in realtà un disordine tanto più inquietante, quello di uno Stato in decomposizione, solcato dal conflitto tra i suoi diversi organi. In effetti la sollecitazione crescente delle forze dell’ordine da parte dell’esecutivo lo vincola a un rapporto di dipendenza che paradossalmente finisce per indebolirlo. La Francia aveva visto, poco prima dell’esplosione del fenomeno Gilets jaunes, un gigantesco sciopero della polizia e un’inconsueta protesta dei vertici dell’Esercito. Simili prove di forza non sono una notizia rassicurante per una democrazia liberale, come avrebbe poi mostrato il bilancio della repressione del 2018-2019.
Non c’è bisogno di tornare all’impero romano con il colpo di stato di Giulio Cesare, o di guardare alla Russia governata da un ex del KGB, per intuire quello che succede quando un popolo delega un potere crescente alle sue forze armate. Il processo di modernizzazione è minato da una legge fondamentale: ogni sforzo per aumentare la sicurezza produce anche un relativo incremento dell’insicurezza iatrogena, costituita dai “danni collaterali” della repressione. A questo si aggiunge una constatazione che sorge dall’esperienza degli ultimi anni di tragedie e di scandali, pensiamo anche a Genova 2001 o al caso Cucchi: il rispetto dei diritti umani sembra costituire una variabile di aggiustamento nella negoziazione tesissima tra il corpo sociale e la classe incaricata di garantire la sua sicurezza.
Non potendo soddisfare tutte le richieste (economiche, legislative, simboliche, di equipaggiamento e di effettivo) che emanano da un apparato repressivo sempre più esteso, sempre più esigente, e sempre più efficace nel rivendicarle, l’esecutivo non può fare altro che tollerare metodi più sbrigativi, garantire un minore controllo, rinunciare a sanzioni e tacere sugli eccessi, nella speranza che l’apparato continui a operare anche a regime ridotto. Ma per ottimizzare il risultato a fronte dell’esiguità delle risorse sarebbe necessaria una progettazione efficace delle tattiche di contenimento della folla, caratterizzata da una duplice economia dei mezzi e degli effetti collaterali: la palese inadeguatezza della granata GLI-F4 per gestire una massiccia protesta popolare nel rispetto dell’incolumità fisica dei cittadini, ad esempio, è stata infine certificata dalla sua proibizione nel gennaio 2020, dopo che nel 2014 il decesso di un militante ecologista aveva già scosso l’opinione pubblica e spinto a un giro di vite nelle regole del suo utilizzo, comunque considerato dall’allora ministro Cazeneuve e dagli esperti di ordine pubblico come “necessario per il mantenimento dell’ordine”.
Cos’è accaduto dunque nelle piazze francesi perché si arrivasse a un simile massacro? Primo, una mobilitazione estesa e informale che eccedeva le capacità di gestione regolare dell’ordine pubblico entro percorsi stabiliti, attraverso dei semplici nudge. Secondo, una forza di polizia in sotto-effettivo, non addestrata per quella specifica situazione, equipaggiata con armi pensate per situazioni estreme. Terzo, situazioni che sono diventate estreme a causa della composizione eterogenea dei manifestanti, della rabbia, dell’incomprensione, dell’escalation della violenza. Quarto, infine, la pesante responsabilità dei vertici politici che hanno pianificato una risposta “ferma e decisa” senza tenere conto del costo umano che, nella situazione reale di scarsità e impreparatezza, avrebbe prodotto. Lo Stato francese, insomma, non era abbastanza forte per permettersi una risposta forte. Una debolezza ben formulata dal balbettio del presidente Macron, citato in esergo del libro di Sophie Divry : “Il fallait quand même que l’ordre soit tenu. Il ne l’a pas été tenu d’une manière, si vous voulez, où il y a eu ce que j’appellerais des, des, des violences irréparables.”
Quante violenze irreparabili ci accompagnano nella lunga fase di decomposizione dell’ordine politico in cui siano nati, e che credevamo eterno!
L’ipertrofia dell’organo repressivo appare, più che come un segno di salute, come un’avvisaglia di breakdown statuale per esaurimento di risorse materiali (fondi per infrastrutture) e simboliche (legittimazione). La nostra società pretende sempre più sicurezza a misura dell’aumento dei rischi, e genera sempre più rischi a misura dell’aumento della sicurezza. Più cresce lo scarto tra sicurezza e rischi, più cresce la delusione: e da lì un nuovo rischio sociale da inquadrare.
Così ci si è trovati di fronte a uno Stato democratico che usa armi da guerra contro la propria popolazione, in una logica che, se già non è precisamente bellica, in certe zone assomiglia sempre di più al famigerato peace-keeping dei territori irredenti. In questo meccanismo infernale capita talvolta che una mano rimanga impigliata o una vita distrutta.
Mano dopo mano, occhio dopo occhio, vita dopo vita, la macchina non potrà continuare a triturare all’infinito senza prima o poi incepparsi.
Questo testo è stato pubblicato come prefazione al libro Cinque mani mozzate, di Sophie Divry, Luca Sossella Editore, 2022.
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