I PFAS e la Terra di sotto – Atto secondo
“Di chi possiamo fidarci se nemmeno più l’acqua che beviamo è sicura?”
Senza le mamme NoPFAS e il loro attivismo, probabilmente non ci sarebbe nemmeno una storia da raccontare.
I PFAS sono acidi molto forti e particolarmente resistenti. E contaminano grosse porzioni di terra.
Riunioni nelle case, nelle parrocchie, nelle aziende di famiglia per coordinare le azioni in modo che siano il più incisive possibile. Ma anche piccoli banchetti di auto finanziamento dove si raccolgono fondi tramite la vendita di torte e creazioni artigianali. Una attività che permette di finanziare viaggi e manifestazioni che in questi anni hanno caratterizzato le attività del comitato, che non si sono mai fermate.
Siamo in Veneto. Il comitato di cui parliamo è quello delle mamme NoPFAS.
E la nostra storia parte proprio da loro, perché senza le mamme NoPFAS e il loro attivismo, probabilmente non ci sarebbe nemmeno una storia da raccontare.
I PFAS sono sostanze utilizzate «a partire dagli anni ’50 come emulsionanti e tensioattivi in prodotti per la pulizia, nella formulazione di insetticidi, rivestimenti protettivi, schiume antincendio e vernici. Sono impiegati anche nella produzione di capi d’abbigliamento impermeabili, in prodotti per stampanti, pellicole fotografiche e superfici murarie, in materiali per la microelettronica. I composti perfluoroalchilici vengono usati inoltre nei rivestimenti dei contenitori per il cibo, come ad esempio quelli dei “fast food” o nei cartoni delle pizze d’asporto, nella produzione di PTFE (dalle note proprietà antiaderenti) e di nuovi materiali che hanno trovato applicazione in numerosi campi come quello tessile» [1].
Le loro applicazioni, insomma, si ritrovano in molti campi delle attività umane, soprattutto quelle industriali. Chimicamente, sono acidi molto forti e particolarmente resistenti. Ad alte concentrazioni sono tossici, per tutti gli organismi viventi.
Secondo alcuni studi e perizie i PFAS hanno contaminato la seconda falda acquifera più grande d’Europa.
La relazione Cnr-Irsa che individuò per prima la contaminazione della falda è del 2013. I più recenti studi pubblicati sul “Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism” sembrerebbero avvalorare la tesi del comitato secondo cui queste sostanze causano danni irreversibili all’organismo. Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno, stiamo parlando di un’area di 150 chilometri quadrati, 350 mila persone coinvolte tra le province di Vicenza, Verona e Padova.
La relazione si soffermava sui possibili effetti tossicologici per la salute umana delle sostanze. Mise i primi paletti a quella che fu poi ribattezzata “zona rossa”. La zona rossa è quella della massima esposizione sanitaria. Quella, cioè, in cui gli effetti sulla salute sarebbero maggiori. Nella zona rossa è in atto un vero e proprio screening pediatrico. Le altre aree che si vedono nella cartina, via via ampliate o riviste, sono oggetto di attenzione o di approfondimento.
In sei anni, mano a mano che i rilievi e le analisi procedevano, la “zona rossa” si è allargata. L’immagine che la illustra è tratta dal Comunicato stampa N° 664 del 21/05/2018 della Regione del Veneto. Il 12 novembre 2017, in seguito al biomonitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità, è stata vietata la pesca nella zona più inquinata. Con l’ordinanza dell’8 gennaio 2019, il presidente della Regione Veneto Luca Zaia il divieto è stato esteso a 30 comuni.
Il dossier è sotto gli occhi delle autorità europee. Fra di esse l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) ha annunciato per il 2019 «nuovi pronunciamenti definitivi in materia». Di certo c’è che gli studi sul tema si stanno moltiplicando e le evidenze di ipercolesterolemia, coliti ulcerose, malattie tiroidee, tumori del testicolo e del rene vengono sempre più spesso correlate alla presenza dei composti. Ultimo in ordine di tempo uno studio durato due anni dell’Università di Padova e coordinato dal professor Carlo Foresta ha concluso come i PFAS siano responsabili dell’alterazione della fertilità femminile e di provocare poliabortività.
Ma quella dell’inquinamento da PFAS è stata per troppi anni una storia oscurata, sottovalutata, nonostante la contaminazione del bene più prezioso che c’è: l’acqua. La stessa acqua che i veneti hanno bevuto per anni e quella con cui hanno innaffiato campi, serre, frutta e verdura e gli allevatori dato da bere ai propri capi di bestiame. In Regione è stato nominato un commissario ad hoc (dal 1° gennaio 2019 è Riccardo Guolo, che succede a Luciano Gobbi, il quale venne dopo Nicola Dell’Acqua) per occuparsi del caso. Dal governo sono arrivati, a maggio del 2018, 23 milioni di euro per risolvere l’emergenza e altri 80 sono destinati ad arrivare per la totale eliminazione delle sostanze dagli scarichi.
È un piano da oltre cento milioni che definisce bene sia la mole dell’intervento necessario sia la gravità del danno causato. Eppure lo ha sottolineato anche Nicola Dall’Acqua, designato per primo commissario straordinario dal governo, con ordinanza di Protezione Civile per l’emergenza: «Se questo tema è arrivato sui tavoli della politica italiana ed europea è principalmente grazie alle Mamme No Pfas e ai comitati sul territorio».
Un esempio virtuoso di politica dal basso, mai urlato ma efficace, con azioni mirate e coordinate che hanno dato vita a una protesta che sta cambiando le cose. «Sono stato fautore di questa richiesta di emergenza – ricorda ancora Dall’Acqua in uno dei tanti incontri pubblici che si sono succeduti in questi anni -, «anche se sono convinto che siano servite di più le persone che sono andate a parlare con il governo con indosso una maglia bianca con sopra scritto la percentuale di Pfoa [2] nel sangue dei propri figli a muovere questa emergenza». La classe di PFAS più diffusa è infatti proprio la PFOA, dichiarata nel 2009 “sostanza inquinante resistente” dalla Convenzione di Stoccolma, assimilata nel sangue attraverso l’acqua e “non espellibile” dall’organismo se non in decenni, cosa che porta ad alterazioni ormonali e a conseguenti patologie. «Quindi quando si parla con i comitati si dovrebbe anche dare atto che queste persone hanno ottenuto quello che presidenti, consiglio regionale e onorevoli non sono riusciti a ottenere, e li ringrazio di questo perché è così. Ho frequentato Roma e la presidenza del Consiglio per una decina d’anni. La richiesta di stato d’emergenza della Regione Veneto è stata fatta nel 2017, ma quando sono andate le Mamme No Pfas, hanno ottenuto un grande risultato» ha concluso Dall’Acqua.
Ora la vicenda approda anche nelle aule di giustizia. La procura di Vicenza ha notificato a gennaio 2019 l’avviso di chiusura delle indagini a 13 persone, in particolare manager della Miteni di Trissino, azienda considerata la fonte dell’inquinamento. Le accuse sono di avvelenamento delle acque e «disastro innominato» per i fatti accaduti fino al 2013. Un fascicolo è già aperto per il periodo immediatamente successivo. Il tutto avviene in ritardo e con i possibili reati già vicini alla prescrizione.
Ma questa storia non parla di verità giudiziarie. Questa storia racconta com’è cambiata la vita delle persone che devono combattere contro i PFAS. Ed è quella che racconteremo nelle prossime puntate, dopo aver stabilito il contesto.
I PFAS sono acidi molto forti e particolarmente resistenti. E contaminano grosse porzioni di terra.
“Di chi possiamo fidarci se nemmeno più l’acqua che beviamo è sicura?”
Senza le mamme NoPFAS e il loro attivismo, probabilmente non ci sarebbe nemmeno una storia da raccontare.
“Di chi possiamo fidarci se nemmeno più l’acqua che beviamo è sicura?”
Per trovare l’origine dell’inquinamento in West Virginia occorre riavvolgere il nastro al 1951.
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