Ep. 02

Vivere per lavorare

Nel 1930, l’economista John Maynard Keynes nel saggio Economic Possibilities for Our Grandchildren (Possibilità economiche per i nostri nipoti), prediceva una settimana lavorativa di 15 ore nel XXI secolo, con un fine settimana lungo cinque giorni. In pratica, la più grande preoccupazione degli esseri umani sarebbe stata quella di riempire il tempo libero. Ovviamente qualcosa […]

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Downshift

Il fenomeno della great resignation è qualcosa di più complesso di un semplice “rallentare”.

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Nel 1930, l’economista John Maynard Keynes nel saggio Economic Possibilities for Our Grandchildren (Possibilità economiche per i nostri nipoti), prediceva una settimana lavorativa di 15 ore nel XXI secolo, con un fine settimana lungo cinque giorni. In pratica, la più grande preoccupazione degli esseri umani sarebbe stata quella di riempire il tempo libero.

Ovviamente qualcosa è andato storto. Il capitalismo non è riuscito nella missione di creare più tempo per le persone. Al contrario, invece di liberarci dal lavoro, è il lavoro ad essere diventato la cifra della nostra vita. Le persone hanno iniziato a costruire la propria identità sul proprio successo lavorativo facendo del sacrificio, dell’iper-produttività e dello stress ritualità necessarie al raggiungimento di tale obiettivo. Da mezzo di sussistenza, il lavoro è diventato il fine dell’esistenza e, con le dovute distinzioni, da mezzo di produzione materiale si è trasformato in mezzo di produzione identitaria.

Fanno eccezione coloro per i quali il lavoro rappresenta davvero una fonte di sussistenza. Lavorare tanto, tantissimo, spremersi psicologicamente e fisicamente è divento infatti cruciale per ottenere quella validazione esterna che consacra il nostro valore non tanto come lavoratori bensì come persone tout court.

È in questo contesto che il termine workaholism, coniato dallo psicologo statunitense Wayne Oates già all’inizio degli anni ’70, è stato introdotto per descrivere lo sviluppo di una vera e propria dipendenza dal lavoro (come l’alcolismo!) spinta dal bisogno irrefrenabile di dedicarsi continuamente alla carriera, mettendo tutto il resto in secondo piano. L’identikit del workaholic è quello di una persona che trascura spesso la propria vita personale (con ricadute anche sulla salute fisica), lavora anche quando non è necessario o richiesto e manifesta sintomi da astinenza. Soffre di ansia, depressione e sbalzi d’umore, trascura le relazioni personali e abusa di dispositivi elettronici.

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Sebbene il workaholism sia stato definito come “la dipendenza del secolo”, non è necessario arrivare al caso estremo per rendersi conto di quanto il lavoro assorba la quasi totalità del nostro tempo e delle nostre risorse.

Prova a chiederti:

Cammino, o parlo rapidamente?;
Mangio male e spesso di fretta?;
Perdo la pazienza per il ritmo troppo lento con cui si svolgono alcune cose perchè sono sempre di fretta?;
Mi sento in colpa quando mi rilasso o sono inattivo anche per un breve periodo di tempo?;
Cerco di fare sempre di più in minor tempo?;
Divento competitivo al pensiero che qualcuno possa fare meglio di me?;
Posso svegliarmi quando voglio al mattino?;
Vivo in un luogo che non mi piace solo perché è vicino al lavoro?;
A volte, per problemi legati al lavoro, non dormo la notte?;
Mi porto spesso il lavoro a casa e cerco di essere sempre reperibile?;
Ho poco tempo per famiglia ed amici?;
Riesco a trovare il tempo per informarmi bene?

La previsione di Keynes avrebbe dovuto portare con sé una nuova mappa di valori in cui lo status sociale sarebbe stato misurato sulla quantità di tempo libero di una persona. Oggi, invece, il metro sembra essere il cosiddetto “consumo posizionale” secondo cui, grazie alla costante operosità, le persone segnalano di essere una risorsa rara all’interno del mercato (banalmente, “lavoro molto perché sono molto richiesto”).

È però narrazione autoprodotta, che non lascia spazio alla ricerca della felicità ma porta a sovrapporre il sacrificio con il lavoro e ad abbracciare lo stress e il malessere psicofisico come fisiologici, con conseguenze disastrose per la salute mentale delle persone.

Non tenendo conto dell’impennata dello scorso anno dovuta alla pandemia, in Italia i dati parlano di un aumento dell’8% nel consumo di psicofarmaci (ansiolitici, sedativi e ipnotici) mentre sarebbero quasi 4 milioni gli italiani colpiti da disturbi depressivi (il 7% della popolazione oltre i 14 anni). Nel 2019 l’Organizzazione mondiale della sanità ha incluso il burnout nell’undicesima revisione dell’International Classification of Diseases. Sebbene non sia considerata una malattia, l’Oms definisce il burnout come una “sindrome occupazionale” dovuta in modo specifico ad una condizione di stress cronico causato dalla situazione lavorativa. Viene sottolineato come il burnout rientri ampiamente tra i fattori che influenzano lo stato di salute e che sono causa di richieste di assistenza sanitaria: secondo un recente sondaggio condotto negli Stati Uniti da Gallup, quasi un lavoratore su quattro (il 23%) ha sperimentato almeno una volta il burnout.

Ma allora perché, se fa così male, le persone continuano a restare fedeli a questo modo di lavorare e di vivere?

Perché continuiamo a comprarci la macchina (indebitandoci) per andare a lavorare (passando ore nel traffico) per guadagnare i soldi che ci servono per pagare quella stessa macchina che ci porta a lavoro? Come si rompe questo circolo vizioso? Come si fa a scegliere di non comprare la macchina?

L’esempio è superficiale, forse anche banale, ma apre una grande questione: c’è un’alternativa?

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Mark Fisher, nel libro Realismo Capitalista, ragionando proprio sull’ingombrante presenza di un’impostazione di pensiero arrendista che ha di fatto occupato ogni area della nostra esperienza quotidiana, si interroga su come sia possibile combatterla. Un’alternativa c’è, scrive Fisher, e forse, ribaltando un celebre detto, non è vero che sia «più facile vedere la fine del mondo che quella del capitalismo». Qualcuno se ne è già reso conto e molti altri lo stanno facendo.

La stagione delle “Grandi dimissioni” in America è coincisa con il successo di massa di un canale Reddit (una sorta di social network diviso in forum dove gli utenti iscritti possono pubblicare contenuti) chiamato Antiwork. Nato nel 2010, prima della pandemia contava 100mila iscritti, oggi 1,7 milioni. Antiwork si presenta non solo come uno spazio di sfogo per tutti coloro che si sentono oppressi e sfruttati dalle proprie condizioni lavorative bensì un’immensa community che si sta costruendo con l’ideale di riedificare completamente il sistema lavorativo. Chi frequenta il forum non vuole lamentarsi o semplicemente battersi per migliorare le proprie condizioni di lavoro, si legge in diversi position post del canale, ma piuttosto cambiare il sistema affinché «si possa lavorare meno, oppure non farlo proprio».

In tantissimi hanno trovato in Antiwork un nome e dei volti simili al proprio e animati dallo stesso senso di frustrazione che prima consideravano un problema strettamente personale e affatto condiviso. Molte persone, grazie al supporto collettivo e reciproco, stanno esplorando nuovi modi di esistere nel mondo che non hanno al centro il lavoro.

Il fenomeno non è altro che un indizio, una crepa in una frattura più grande che si sta aprendo nel sistema economico e sociale a propulsione capitalista. Anche nel suo epicentro, l’America, la pandemia ha fermato per un attimo la vita delle persone che si sono rese conto che questa gli stava scorrendo tra le dita, portata via da uno stile di vita fatto solo di consumi e votato unicamente alla produttività.

Tacciata di elogiare la pigrizia e rifiutare la fatica, la community di Antiwork è stata spesso descritta come un club di anarchici potenzialmente pericolosi per il sistema economico americano. Di sicuro parliamo ancora di una minoranza – di una grande minoranza in questo caso. Il prototipo, forse, di quella nuova élite descritta da Simone Perotti nel libro Adesso Basta, fatta di persone diversissime tra di loro che non hanno in comune alcuna condizione privilegiata né per censo né per formazione ma solo una sensibilità condivisa e, forse, un orecchio più attento a quella “voce” interiore che chiede di rallentare.

Decidere di abbracciare il downshifting rappresenta una scelta personale, un treno, parafrasando Pirandello, che deve fischiare personalmente per ognuno di noi. Tuttavia, è possibile avvicinare le persone “alla stazione” con la forza dell’esempio e del confronto e attraverso l’analisi lucida e sincera del nostro modo di vivere, senza guide o manuali di istruzioni.

Un passo in avanti, quasi una rivoluzione in realtà, sarebbe quello di iniziare a considerare anomalo il nostro modus vivendi. «È la sua aura di normalità» dice Perotti «che lo rende invincibile».

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Downshift

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Rallenta frà!

Tutti, chi più chi meno, chi più spesso chi meno spesso, almeno una volta nella nostra vita abbiamo sentito una voce dentro di noi dirci “Oh, rallenta!”. Con tono alle volte minaccioso. Altre quasi supplice. Se vivi in Europa, negli Stati Uniti o nel resto del cosiddetto primo mondo​​​​​​​ sei dentro al sistema: sei abituato […]

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