Ma allora perché ne stiamo ancora parlando? La crisi del 2008 ha rimesso tutti al proprio posto, giusto? I downshifters, così come gli hippie, si sono arresi. Vero?
In realtà no e sono sempre di più le persone che decidono coscientemente di prendere sul serio quella voce che chiede loro di rallentare, di cercare un’altra strada. Uno di questi è proprio Simone Perotti, autore del best-seller Adesso Basta (Mondadori) con cui racconta la sua esperienza di downshifting che più di 10 anni fa lo ha portato a lasciare una posizione lavorativa sicura, ben retribuita e costruita dopo anni di duro lavoro e sacrifici, per “gettarsi nel vuoto” di un’esistenza più incerta, economicamente più modesta ma più lenta, libera, sostenibile e, si direbbe, più felice. «Non si tratta solo di ridurre il salario per avere più tempo libero» spiega Perotti a Slow News. «È necessaria una profonda revisione interiore che preveda un’inversione dei valori attuali. Non dovrebbe essere l’entità di un reddito a definirci o a modulare la nostra libertà. Il lavoro è un mezzo e non il fine. Il sistema ci ha insegnato a trovare la nostra identità nell’occupazione e nei soldi la gratificazione. La grande bugia» continua Perotti, «secondo cui tutti possiamo diventare chiunque vogliamo di stampo anglosassone, soprattutto americano, va spazzata via da una domanda onesta su cosa siamo, che limiti abbiamo, che talenti ma soprattutto quali sono le nostre passioni. È seguendo le passioni che si possono fissare sogni davvero realizzabili, a portata di mano, concreti».
Troppo radicale, potrebbe obiettare qualcuno; bello ma impraticabile, direbbe qualcun altro. Di certo il percorso non è facile: «Ci vuole coraggio, ma non quello che usiamo per affrontare la vita quotidiana, il coraggio di scegliere, di cambiare e di assumere su di noi la responsabilità della nostra storia», spiega Perotti, descrivendo il percorso che, da manager di successo in Italia e all’estero, lo ha condotto a vivere del lavoro delle proprie mani come marinaio e scrittore. O, più semplicemente, come downshifter. Senza aver mai fatto marcia indietro, oggi Simone Perotti vive con circa 9.000 euro l’anno, senza sprecare, inquinando il meno possibile, riutilizzando ogni oggetto, aggiustando tutto, viaggiando in maniera asincrona, fuori dai flussi, risparmiando senza ridurre la propria libertà. Da dieci anni non va in ufficio, non ha uno stipendio ma scrive professionalmente, «libero di trattare le storie che sento e che voglio, fa niente se non vanno per la maggiore». Finalmente libero di vivere la sua passione per il mare, navigando per il Mediterraneo.
Il fatto è che la via del “compromesso”, così come era stata presentata durante la prima Era del downshifting, soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, da scrittori come John Drake e Carl Honoré, si è rivelata quasi subito inadeguata e oggi insufficiente. Nel libro Downshifting, Drake propone semplicemente l’idea di lavorare meno (o meglio, per meno tempo) per diminuire lo stress, recuperare affetti, coltivare passioni e rafforzare le relazioni. Anche lo scrittore americano, come Perotti, parla da una prospettiva diretta tratta dalla propria esperienza personale ma guardandosi bene dall’affrontare di petto la questione filosofico-esistenziale che giace al sicuro sotto la superficie. Gli elementi che di fatto guidano la riflessione dei guru del primo downshifting sono due: il tempo e la velocità.
«Nessuno, in punto di morte, ha mai rimpianto di aver lavorato troppo poco», scrive Drake. Tuttavia, del lavoro non si può fare a meno, giusto? Dunque lavoriamo sì, ma meno. Stabiliamo quindi delle priorità: basta reperibilità totale, basta rimandare le vacanze, basta inseguire le tre P dell’infelicità, ovvero Potere, Proprietà e Prestigio. Diminuiamo le ore, passiamo al part-time o al telelavoro. Addirittura cambiamo occupazione. Il reddito perso risulterà solo investito in ciò che ci rende davvero felici: la nostra famiglia, le nostre passioni.
Honoré va un poco oltre. Nel 2004 nel suo volume Elogio della lentezza, lo scrittore canadese propone di recuperare quel tempo necessario da dedicare alla felicità rallentando, mettendo un freno a quella corsa senza sosta che sono le nostre vite. «Viviamo una vita veloce, piuttosto che bella. Acceleriamo anche i momenti più belli e piacevoli», afferma Honoré. Se dunque attraversiamo la vita, invece che viverla, si chiede lo scrittore, come possiamo essere felici? L’assunto che Honoré tenta di decostruire è di fatto uno dei capisaldi del capitalismo contemporaneo: il tempo è denaro. Se il tempo non lo usi, lo perdi e pertanto sei costretto a velocizzare ogni aspetto della tua vita per produrre di più, consumare di più, lavorare di più. Tale assunto prevede di conseguenza la stigmatizzazione della lentezza considerata nella società moderna quasi un tabù, un attributo dalle connotazioni negative. L’aggettivo lento va a descrivere una persona pigra, svogliata, arrendevole, spesso persino stupida. La conclusione, così come per Drake, anche per Honoré si riduce ad una: per non farsi scivolare la vita tra le mani bisogna lavorare meno, non smettere ma rallentare.
Manca un passo in più. Un enorme, destabilizzante sguardo oltre la balaustra di sicurezza.
Né Drake né Honoré hanno mai preso in considerazione l’ipotesi di mettere in pratica, ciascuno con la propria rivoluzione personale, un cambio di paradigma. I due scrittori propongono un downshifting saldamente situato all’interno del sistema vigente, fatto di piccoli aggiustamenti e qualche tirata di freno. D’altra parte, there is no alternative.
Ma che succederebbe invece se, sporgendosi troppo dalla ringhiera, ci si dovesse chiedere: “la vita che faccio mi rende felice? Mi sento realmente libero?”.
Si precipita nel vuoto.