Le soluzioni degli altri
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La povertà alimentare in Italia è un problema, che riguarda da vicino bambine e bambini. La scuola potrebbe essere il luogo giusto dove affrontarla, anche grazie ai fondi europei. Ma la sfida va giocata ora
Per bambine e bambini, l’accesso ad almeno un pasto gratuito e sano al giorno è un elemento importante del pieno diritto all’educazion e anche un elemento centrale della Garanzia europea per l’infanzia.
Eppure, in Italia, le mense non sono abbastanza.
Secondo l’ultima indagine di CittadinanzAttiva, gli edifici scolastici statali con la mensa sono un terzo del totale: 13.533 su 40.160. Ma se ci sono realtà, come Toscana, Piemonte e Valle d’Aosta in cui la quota di edifici dotati di mensa supera il 60 per cento, al sud, le mense non raggiungono neanche un quarto degli edifici scolastici. Per le città di Trapani, Matera, Agrigento, Palermo, Catania, Ragusa e Napoli, la presenza di una mensa è dichiarata per meno del 10 per cento degli edifici scolastici statali presenti.
Non solo. I costi dei pasti in mensa, che devono essere sostenuti dalle famiglie, sono elevati.
Sempre secondo CittadinanzAttiva, ad eccezione di quelle con un Isee al di sotto di 6.000 euro, le famiglie pagano in media 82 euro al mese durante l’anno scolastico, ovvero circa 4 euro per pasto.
La situazione è così grave che l’apertura di nuove mense è diventato un obiettivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che ha destinato 400 milioni di euro alla costruzione di mille nuove mense scolastiche.
Inoltre, nel 2022, è stato approvato il Piano di Azione Nazionale della Garanzia Infanzia (PANGI), sostenuto da circa un miliardo di euro provenienti dai fondi europei di coesione. Tra le tante azioni del piano, è previsto anche di estendere gradualmente l’accesso gratuito alla mensa scolastica per tutti i bambini e le bambine entro il 2030, partendo subito da quelli che vivono in famiglie con un Isee inferiore a 9.500 euro.
In tutto il mondo 418 milioni di bambini beneficiano oggi di pasti scolastici, ossia circa il 41per cento dei bambini iscritti alla scuola primaria ha ora accesso a un pasto scolastico giornaliero gratuito o sovvenzionato, un dato che sale al 61 per cento nei paesi ad alto reddito, secondo il Programma Alimentare Mondiale.
L’Italia è al di sotto della media dei paesi ad alto reddito per una questione storica.
«Il nostro paese, così come i paesi del Sud Europa, sconta ancora le conseguenze di un’approccio familista, per cui il welfare scarica sulla famiglia molte delle responsabilità che altrove sono state assunte dallo Stato e già dagli anni Cinquata e Sessanta del secolo scorso. Questo ha finito per essere ostativo al riconoscimento del fatto che persone e famiglie avessero diritti esigibili nei confronti dello Stato. Quindi, oggi, della cura dei minori si fanno ancora ampiamente carico le famiglie, le donne in primis», spiega Franca Maino, professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano, e Direttrice Scientifica di Percorsi di secondo welfare.
Questo approccio ha avuto conseguenze anche sul modello scolastico italiano che, riprende Maino, «si è sviluppato con una grande differenziazione tra nord e sud. Da un lato, ci sono scuole che garantiscono il tempo pieno e di conseguenza devono prevedere anche un servizio mensa. Dall’altro, invece, scuole in cui il tempo pieno non è ancora previsto e quindi non hanno bisogno nemmeno della mensa».
Secondo i dati SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), per effetto delle carenze infrastrutturali, solo il 18 per cento degli alunni del sud accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48 per cento del centro-nord. Questo significa che un bambino del sud frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord — l’equivalente di un anno di scuola persa, sempre secondo SVIMEZ. Questo è in parte dovuto alla mancanza storica di investimento in infrastrutture e ad un progressivo disinvestimento che, denuncia SVIMEZ, ha interessato soprattutto le regioni del sud.
La carenza di mense, quindi, per quanto riguarda la scuola, è legata alla scarsa diffusione del tempo pieno, ma si intreccia anche ad un’altra questione più ampia, che tocca le famiglie di alunni e alunne: la povertà alimentare.
In Italia la povertà alimentare è un problema, soprattutto tra le famiglie con i bambini più piccoli.
Secondo i dati Istat, un minore su sette vive in povertà assoluta, un dato superiore alla media UE. Inoltre, sempre secondo Istat, una famiglia su 10 non può permettersi di mangiare carne o pesce ogni due giorni. E questo ha conseguenze ampie e pesanti.
Un’alimentazione adeguata è essenziale per lo sviluppo del cervello durante l’infanzia e i bambini che mangiano bene si concentrano più facilmente, quindi imparano di più.
Per questo, in un paese con livelli di povertà così elevati, sarebbe fondamentale garantire pasti scolastici per tutti. Secondo ActionAid Italia, CittadinanzAttiva, e altre organizzazioni che si occupano del tema, rendere il servizio di mensa un diritto pubblico, universale e gratuito è ormai una necessità.
«La mensa è una misura di contrasto strutturale alla povertà alimentare», dice Roberto Sensi, policy officer del programma diritto al cibo di ActionAid Italia. A suo parere, «dovrebbe essere un servizio essenziale però il problema è che storicamente lo si è sempre configurato come tempo scuola», e cioè come parte del sistema educativo. «Quindi la mensa è inquadrata come un servizio a domanda individuale, che viene fornito dai Comuni, che decidono le fasce ISEE», conclude.
I soldi finanziati dal PNRR verranno investiti in costruire spazi per ospitare mense, ma poi i pasti continueranno a dipendere dalle autorità locali, elemento che ora porta a grandi differenze anche nella qualità.
Come spiega l’esperto di fondi europei Antonio Bonetti, la Garanzia Infanzia è stata istituita proprio per contrastare la povertà minorile nei paesi dove è al di sopra della media europea, come l’Italia, utilizzando il Fondo sociale europeo Plus. Quindi i fondi del PANGI, che prevedono di estendere l’accesso gratuito alla mensa scolastica per tutte le bambine e i bambini con Isee inferiore a 9.500 euro, sarebbero un buon complemento ai finanziamenti del PNRR.
Il rischio, però, è che il PANGI passi in secondo piano e che, con i finanziamenti del PNRR, si costruiscano mense che poi le autorità locali non riescono a gestire in una maniera che realmente aiuti nella lotta alla povertà alimentare, perché non hanno la volontà politica, le risorse economiche o anche le competenze per farlo.
«Il timore è che il PNRR finanzi la mera costruzione e/o ristrutturazione di mense scolastiche senza che queste siano legate ad un’effettiva estensione del tempo pieno. L’optimum sarebbe la trasformazione del servizio da domanda individuale a universale ma ci vorrà ancora tempo», sostiene Adriana Bizzarri, coordinatrice della Scuola di CittadinanzAttiva.
A suo parere, coi fondi del PNRR, non basta occuparsi delle mense come luogo fisico, occorre anche sostenere la spesa per la gestione ordinaria di tale servizio e le attività di accompagnamento verso le famiglie per far comprendere la sua importanza per la crescita dei bambini.
«Le risorse – aggiunge – dovranno confluire nella logica dei Patti di Comunità e delle Comunità Educanti. Si dovrà garantire il pieno raccordo delle politiche educative con quelle sociali, attraverso un piano inclusivo che tenga insieme bambini e famiglie».
«Mi pare che il PANGI adesso sia “chiuso in un cassetto”», dice Maino.
Lo scorso maggio, la coordinatrice del piano Anna Maria Serafini ha rassegnato le sue dimissioni, motivandole con «l’assenza di decisioni» da parte del Governo «e i conseguenti ritardi nell’attuazione del Piano compromettano politiche essenziali per bambini e adolescenti e loro famiglie».
«Il PANGI – riprende Maino – non è presente nel dibattito, non mi sembra che questo governo lo consideri uno dei documenti strategici del proprio mandato. Di fatto l’attuazione di quello che prevede il piano è ferma».
Forse anche per questo, Bizzarri avanza un’ulteriore proposta: «è arrivato il momento di predisporre una Legge Nazionale sulla ristorazione collettiva in cui rientri anche quella scolastica».
«Rispetto alla scuola, questo consentirebbe di ridurre la frammentarietà nelle tariffe a livello comunale, da un lato, e di avviare un lavoro sulla qualità degli appalti dei menù, attraverso linee guida e norme vincolanti, dall’altro. Il servizio di ristorazione scolastica – conclude – dovrà diventare un diritto pubblico, universale e gratuito».
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