Le grandi dimissioni – Slow News Days 2023

Ci hanno sempre ripetuto che il lavoro è ciò che ci definisce. E allora perché, in tutto il mondo, sempre più persone si dimettono?

Nel panel Lavoro e giornalismo: come ne parliamo?, tenuto con Francesca Coin nel corso degli Slow News Days 2023, abbiamo affrontato il tema delle le grandi dimissioni, e di come il lavoro abbia sempre più invaso la nostra vita privata.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Francesca Coin è sociologa. Si occupa di lavoro e diseguaglianza sociale. Ha insegnato in diverse università in Italia e all’estero. Scrive per Internazionale.
Per Einaudi Stile Libero ha pubblicato Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita” (2023).

Siamo in una fase in cui le nuove generazioni devono cercare più di una professione, svolgere più lavori e combinare diverse fonti di reddito per ottenere un salario mensile dignitoso.

Si parla di Grandi Dimissioni dal periodo della pandemia, quando negli Stati Uniti si è arrivati a picchi di oltre 5 milioni di dimissioni volontarie al mese – oltre due milioni sopra la media.

 

Se nel 20esimo secolo il lavoro era considerato un diritto fondamentale, quando non un vero e proprio scopo per la propria esistenza, negli ultimi anni stiamo assistendo a un cambiamento radicale, al punto che quello stesso lavoro sta venendo abbandonato.
Le “grandi dimissioni” non rappresentano una nuova forma di protesta, ma sono, piuttosto, un sintomo che qualcosa non va, che la soglia di tolleranza è stata superata.

 

Per trent’anni abbiamo discusso di appalti, subappalti, precarietà, salari bassi, dalla generazione del “€1000” alla generazione “€800” e poi “€700”.
Con l’avvento della gig economy abbiamo visto tutte le diverse forme di precarietà e assistito al progressivo deterioramento delle condizioni di lavoro.

 

Siamo in una fase in cui le nuove generazioni devono cercare più di una professione, svolgere più lavori e combinare diverse fonti di reddito per ottenere un salario mensile dignitoso.

Un doppio fallimento

Sono fallite le politiche di organizzazione del lavoro. Non sempre per colpa dei sindacati… ma in alcuni casi sì. Negli Stati Uniti, infatti, il periodo di grandi dimissioni è stato seguito da una fase di riorganizzazione sindacale. Ma cosa ci dice del mondo del lavoro il fatto che, a cinquant’anni di distanza dalle più grandi lotte sindacali della storia, sembriamo aver perso quasi totalmente interesse, non tanto nelle lotte sindacali, quanto nel lavoro stesso?

Sembriamo non volerlo più. Siamo pronti a dire “no, basta: abbandoniamolo”.

 

Un fattore centrale in questo senso è il burnout.

 

Andiamo con ordine.

 

Negli ultimi cinquant’anni il potere d’acquisto e i salari sono diminuiti. Ma allo stesso tempo la capacità produttiva è aumentata: le tecnologie hanno reso possibile il lavoro in qualsiasi momento della vita, abbattendo le barriere presenti in passato.
Quindi non solo è possibile misurare il lavoro in termini di tempo, ma si può anche essere raggiunti in qualsiasi momento.  

 

La distinzione tra vita lavorativa e vita privata è scomparsa. Le email arrivano di notte, arrivano durante le vacanze.

 

Anche il (poco) tempo libero è stato compromesso

"Prosumerismo": quando il consumatore diventa anche un produttore. E crea una forma di lavoro che si svolge nel tuo tempo libero, quando dovresti essere "libero".

Anche come consumatore, finisci per lavorare.

Lavora, produci, consuma

Questo avviene soprattutto in due modi.

In primo luogo, c’è l’ideologia pervasiva del merito. Le persone sono spinte a cercare di dimostrare costantemente il proprio valore, sia nel lavoro – spesso con lavori sottopagati -, sia nello studio, dedicando molto tempo a ottenere talvolta più titoli per dimostrare il proprio valori.

 

Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: in molti ambiti, alcune fasi del processo produttivo sono state trasferite agli utenti.

Hai bisogno di una visita medica? Passi ore al telefono.

Devi rifornire di carburante la tua auto? Lo fai da solo.

Devi fare la spesa? Scansioni gli articoli al supermercato.

Acquisti mobili dall’Ikea? Li monti da solo.

 

Questo fenomeno si chiama prosumerismo: quando il consumatore diventa anche un produttore.

 

Il prosumerismo crea una forma di lavoro che si svolge nel tuo tempo libero, quando dovresti essere, appunto, “libero”.

E invece, anche come consumatore, finisci per lavorare.

E in Italia?

Il carico di lavoro sul singolo individuo, quindi, è diventato enorme.

 

Inoltre, in Italia risulta particolarmente difficile fare stime, poiché solo un terzo delle persone lavora a tempo pieno e in modo regolare.

 

Ci sono molte forme di lavoro sommerso o part-time, spesso non volontario. Se consideriamo l’incidenza del lavoro non dichiarato, il lavoro di cura, e tutte le manifestazioni del prosumerismo, diventa evidente che gran parte del nostro tempo è dedicato in qualche modo alla produttività.

 

Rispetto a una generazione fa, il tempo libero è una risorsa molto scarsa. Non lo abbiamo rivalutato: piuttosto, ci siamo resi conto che il tempo libero non esiste più. E quindi, come tutte le risorse scarse, ora c’è un’ossessione sul bisogno di tempo.

Le persone ne hanno bisogno.

 

Un segnale significativo di questa situazione – non solo in Italia, ma nel mondo – è ravvisabile in un’affermazione fatta dal CEO di Netflix, che già nel 2017 aveva dichiarato come il loro concorrente principale sia… il sonno.
Nel corso degli ultimi due secoli, la giornata di una persona era suddivisa – generalmente – in 8 ore di lavoro, 8 ore di tempo libero e 8 ore di sonno.

Avendo le persone esaurito il tempo libero, ora devono erodere il tempo dedicato al sonno.

 

In un suo saggio, 24/7 – Il capitalismo all’assalto del sonno, Jonathan Crary afferma come la media delle ore di sonno stia diminuendo da 8 a circa 6 ore: l’autore lanciava un appello che recitava: “proletari di tutto il mondo, dormite!“.

E invece, ci sono milioni di persone nel mondo che si ritrovano con le notti infestate da ciò che prima facevano nel tempo libero.

Mentre alcuni possono vedere l'abbandono del lavoro come un lusso, per molti è una necessità dovuta alla mancanza di sicurezza e stabilità.

Il lavoro del giornalista, il lavoro culturale

Il giornalismo, poi, è un settore che è stato gravemente colpito dai cambiamenti nei modelli di lavoro.

 

I giornalisti sono diventati lavoratori autonomi, responsabili del loro tempo: questo porta vantaggi e svantaggi. I contratti a tempo pieno sono sempre più rari, non hai un salario fisso, devi costantemente cercare nuovi lavori e opportunità. Il che, soprattutto alla lunga, può risultare estenuante.

 

Ci sono sicuramente privilegi e vantaggi associati al poter dire “no” al lavoro, ma ci sono anche molte sfide e criticità legate alla precarietà del lavoro moderno.

E mentre alcuni possono vedere l’abbandono del lavoro come un lusso, per molti è una necessità dovuta alla mancanza di sicurezza e stabilità.

 

Un altro aspetto interessante riguarda il lavoro culturale, così come altre forme di lavoro che hanno raggiunto livelli estremi di precarietà. Il cottimo o il freelance, ad esempio, con l’incidenza sempre maggiore di partite IVA fasulle e simili. 

In questi contesti, è più difficile accedere ai dati e comprendere appieno cosa sta accadendo.

 

C’è una sorta di movimento bidirezionale in corso: alcuni scelgono di lavorare in modo autonomo pensando di trovare maggiore libertà, mentre altri, stanchi di un lavoro autonomo che comporta costi elevati, alla fine rinunciano e cercano un’occupazione dipendente più sicura.

È un dato di fatto che entrambe le situazioni abbiano sempre più forme intrinseche di sfruttamento, specialmente in contesti frammentati come il giornalismo.

È un lusso poter dire no al lavoro? C'è una questione di classe coinvolta nell'abbandono del lavoro?

Sono domande fondamentali.

 

La storia testimonia un graduale peggioramento delle condizioni lavorative e la normalizzazione dell’incertezza professionale.

Si assiste a un cambio di paradigma: un numero crescente di persone rifiuta di accettare un certo livello di disagio per mantenere il proprio impiego.

 

Tale disagio può derivare da soprusi, mobbing, stipendi bassi e altre forme di abuso, con situazioni che variano considerevolmente. Oltrepassata una soglia di tollerabilità, i lavoratori tendono a dimettersi.

Questo fenomeno riflette un processo di precarizzazione che ci riporta indietro, al XX secolo, quando abbandonare un impiego era spesso l’unica opzione per migliorare la propria condizione e affermare il proprio valore, cercando riconoscimento altrove.

Questo modo di pensare era tipico di un’era caratterizzata da diffusa incertezza, scarse opportunità di crescita professionale e mancato riconoscimento del lavoro svolto. In tale periodo, molte protezioni lavorative e forme di compensazione, sia diretta che indiretta, sono state ridotte, così come le possibilità di avanzamento.

 

Oggi, si osserva un ritorno a una situazione in cui coloro che ambiscono a migliorare la propria situazione sono inclini a lasciare il proprio posto di lavoro.

Questo comportamento riguarda in particolare chi percepisce retribuzioni insufficienti, come evidenziato dai dati a disposizione. In seguito alla pandemia, c’è stato un incremento di occupazioni a basso reddito e qualifica.

Persone altamente qualificate si trovano spesso in settori con un alto tasso di turnover volontario, come la logistica, l’assistenza sociale, la ristorazione e il commercio al dettaglio, dove il fatto di sentirsi poco valorizzati porta a una maggiore mobilità volontaria.

 

C’è poi l’altro lato della medaglia: chi, avendo elevate competenze, lascia il proprio lavoro per migliorare la propria situazione personale.

 

Tuttavia, il fenomeno più evidente degli ultimi anni si verifica nella fascia inferiore del mercato del lavoro. Frequentemente, si osserva che le persone abbandonano l’impiego per dedicarsi ad altre attività – ad esempio, realizzando che il costo di una babysitter supera il reddito guadagnato lavorando.
Lo stesso vale per l’assistenza agli anziani, dove le dimissioni possono essere dettate dalla mancanza di servizi di welfare adeguate: molti devono prendersi cura dei propri cari anziani, constatando che lavorare non permette di coprire le spese di una badante.

 

Queste grandi dimissioni riflettono non solo su di noi e sul mondo del lavoro, ma anche sugli Stati e sulla direzione che stanno prendendo.

Segnalano principalmente la crisi di un modello produttivo. Da una parte, rivelano come gli organici siano stati ridotti all’osso, aumentando il carico di lavoro individuale, e come il mercato del lavoro sia stato liberalizzato in vari modi. È necessario analizzare le specificità di ciascun settore, considerando che ad esempio le dinamiche nel settore sanitario differiscono da quelle logistiche, e così via. Ciascun settore ha le sue peculiarità e le sue criticità.

Il lavoro femminile

In Italia, la storia del lavoro femminile è segnata da dimissioni forzate, una vera e propria espulsione dal mercato del lavoro. Sebbene la pratica delle dimissioni in bianco sia meno frequente, persiste ancora l’aspettativa sociale che la donna assuma il ruolo di principale caregiver.

La mancanza di servizi adeguati per l’infanzia e l’assenza di congedi parentali obbligatori e paritari contribuiscono a una situazione in cui le donne, specialmente se decidono di avere figli, sono spinte a lasciare il lavoro, spesso sotto la maschera delle dimissioni volontarie.

 

Il ruolo dello Stato appare paradossale.

Negli Stati Uniti, ad esempio, l’ingresso di forza lavoro femminile nel mercato del lavoro post-pandemico ha evidenziato una diminuzione della partecipazione femminile che solo gradualmente sta tornando ai livelli pre-pandemia. Il segmento femminile non era ancora pienamente recuperato a settembre, principalmente a causa della carenza di personale nei servizi per l’infanzia che ostacola il rientro delle donne nel mondo del lavoro.

 

Ci troviamo di fronte a un triplice paradosso: le aziende faticano a reperire personale, mentre un maggiore investimento nei servizi pubblici potrebbe favorire il rientro delle donne nel mercato del lavoro, migliorando la situazione.

Nonostante ciò, la responsabilità della cura non è ancora equamente distribuita tra i generi. L’insufficienza di personale riflette un regresso nei servizi essenziali, una problematica storica in Italia, specialmente nei servizi per l’infanzia.

 

I dati dell’Eurobarometro rivelano che persiste l’antiquata convinzione che i bambini soffrano in assenza della madre, evidenziando la resilienza di stereotipi di genere. Ciò ha influenzato le politiche pubbliche, specialmente per i servizi per l’infanzia, indicando una storica carenza che necessita di essere colmata.

Queste lacune si estendono ad altri settori, come quello sanitario, dove la riduzione del personale e il sovraccarico di lavoro hanno portato a un elevato numero di dimissioni.

 

Queste dinamiche segnalano un ritiro dello Stato dai fondamenti del welfare e della democrazia.

La fuga di personale dal settore sanitario pubblico denota un significativo disinvestimento statale, quasi irreversibile senza un deciso cambio di rotta, che non sembra essere imminente.

‘Mio nonno, meccanico, amava il suo lavoro.
Ma non avrebbe mai lavorato gratis’.

La trappola della passione

Spesso il lavoro intellettuale non è considerato un vero e proprio lavoro e si presume debba essere offerto gratuitamente.

Quindi, forse, una possibile soluzione consiste nel riconoscere il nostro valore e, a un certo punto, imporre un limite.

 

Nel settore culturale, questa nozione ha contribuito a sovvertire le norme contrattuali, permettendo al lavoro di invadere la vita personale e spesso deprimendo i salari.

Pertanto, dobbiamo esaminare i possibili effetti perversi della passione per il lavoro.

Eppure, il dibattito sulle dimissioni genera scetticismo: una reazione comprensibile. Le dimissioni non sono una soluzione, ma un sintomo del contesto lavorativo attuale.

 

L’aspettativa di lavorare per passione, spesso gratis, e la convinzione che dobbiamo agire collettivamente, è fondamentale.

Rifiutare questa visione, che valorizza la passione ma tralascia il compenso, è un primo passo verso la rivendicazione del valore del lavoro.

 

Dobbiamo essere pronti a dire: ‘Mi interessa questa offerta, ma la retribuzione non è adeguata‘, non per declinare il lavoro, ma per elevare il livello di compensazione. Dieci anni fa, Giorgio Fontana scriveva: ‘Mio nonno, meccanico, amava il suo lavoro, ma non avrebbe mai lavorato gratis’.

 

Questa è l’essenza del lavoro: posso apprezzarlo, posso anche amarlo e dedicarmici con passione.

 

Ma deve essere pagato, perché stai acquistando il mio tempo, la nostra risorsa più preziosa, che una volta persa non può essere recuperata.

 

I soldi sono ciò che ci spinge a dedicare tempo a compiti che altrimenti eviteremmo.

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