È così che due aziende, Bressan Legnami e Agevola, hanno ricevuto due «box station» per due dipendenti ciascuna. «Una sorta di uffici mobili con pc, stampante, cuffie, microfono e un finanziamento per la connessione Internet», racconta Zuin, «in modo che le quattro dipendenti avessero a casa tutto il necessario per poter lavorare a distanza».
Per le professioniste, invece, «è stata fornita soprattutto formazione sulle competenze digitali e l’uso delle piattaforme per attuare il lavoro agile. Parliamo di consulenti del lavoro, architette, geometri, commercialiste che così potevano anche lavorare al di fuori degli studi, conciliando meglio lavoro e famiglie». Una mossa innovativa, considerando che i lavoratori autonomi, tranne poche eccezioni di qualche studio professionale lungimirante, normalmente restano fuori dalle iniziative di welfare aziendale. Con il risultato che, come spiegal’associazione dei freelance Acta, le disuguaglianze tra lavoratori nel welfare privatosi sommano quelle già presenti nel welfare pubblico..
Il progetto veneto si è concluso a fine 2021. Ma anche qui, come avvenuto trale associazioni del terzo settore piemontesi,il lavoro ibrido, un po’ a distanza un po’ in presenza, è ormai diventato una buona abitudine per conciliare vita e lavoro. «Anche se non ci sono più i finanziamenti, questi progetti continuano a camminare sulle loro gambe», dice Zuin.
Secondo gli ultimi dati dell’Inapp, lo smart working in Italia oggi interessa il 14,9 per cento degli occupati, che svolge parte dell’attività da remoto. Ma il bacino potenziale potrebbe essere ben più ampio, considerando che fino al 40 per cento della forza lavoro potrebbe oggi lavorare in modalità “smart”.
Cos’è che frena aziende e lavoratori? Dopo il boom vissuto nel 2020, in piena pandemia, quando l’Italia è passata dal 4,8 per cento di telelavoro dell’anno precedente al 13,7 per cento, il tasso di crescita ha subito una brusca frenata, dimostrando che l’opportunità del “lavorare ovunque” non è stata colta appieno dalle aziende. Certo, ci sono lavori che non si possono fare a distanza, ma molti altri sì. Sulla limitata diffusione dello smart working incide il differente grado di “smartabilità” del lavoro, che varia dal 25 per cento per le professioni intellettuali o esecutive al 2 per cento di quelle non qualificate. Ma la percentuale è anche legata alla differente capacità dei manager di adottare nuovi modelli organizzativi e investire in nuove tecnologie, che è più ridotta nelle piccole e medie imprese, come confermano i dati.
I fondi della politica di coesione UE , dunque, potrebbero essere un volano utile per lavorare meglio, diventando più “smart”. E i casi di Torino e Venezia lo confermano.