Una specie in via di estinzione?
Come vengono vissuti, dai pendolari, i grandi eventi naturali a carattere emergenziale come i terremoti o simili?
Il destino degli esclusi dalla società del benessere è stato beffardo: prima contadini, poi operai, ora pendolari
Quella dei pendolari è una comunità di 30 milioni di persone, eppure in pochissimi se ne preoccupano
Tenendo a mente la questione esplorata nell’episodio precedente, un altro elemento a proposito del passato è il mutato valore che il pendolarismo ha assunto nel tempo. Nuto Revelli, che nel 2019 è stato celebrato per i cent’anni della sua nascita, è stato un ufficiale alpino sopravvissuto alla campagna di Russia, partigiano nella zona di Cuneo e, dopo la Liberazione, attento studioso dei cambiamenti sociali in atto durante il boom economico.
Tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso raccolse le testimonianze di chi, sopraffatto, ma in qualche modo beneficiario dell’industrializzazione, si ritrovò a essere escluso “dalla società del benessere”, avanzo di un mondo che sarebbe scomparso, quello contadino a conduzione famigliare, perché svalutato e ritenuto poco sostenibile. Ne Il mondo dei vinti, vecchi contadini della campagna o della montagna cuneese ricordano i tempi grami in un misto di nostalgia dei tempi andati e consapevolezza di vivere in un tempo dove il benessere è concreto, ma ricattatorio: il lavoro in fabbrica salariato consente un tenore di vita migliore, ma a un determinato prezzo. Revelli entra nelle loro case, registra le loro storie trascrivendo e curando le interviste fiume (la durata media era di circa quattro ore accorciate in sei-sette pagine) che descrivono la società passata e al contempo quella presente, il moto di emigrazione di italiani all’estero del primo Novecento (verso la Francia e le Americhe), la Grande Guerra, il Fascismo, la Seconda Guerra Mondiale, la Campagna di Russia, la Resistenza e il rapporto con la popolazione, ma pure le “truffe” della Democrazia Cristiana, l’inquinamento e il turismo predatorio.
Attraverso 270 interviste vengono analizzati temi ancora molto attuali, in qualche modo legati a quello dello spopolamento delle zone rurali: i giovani, spinti dalla ricerca di condizioni di vita migliori, lasciarono le montagne, le colline, la pianura e il mondo contadino per avvicinarsi ai centri urbani e, per riuscire a mantenere sé e la propria famiglia di origine, vivevano part-time: operai a cottimo e pure contadini, con giornate lavorative interminabili.
Insieme al discorso principale sui problemi del trasporto su ferro in Italia, leggendo il rapporto di Legambiente si intuisce un racconto marginale che rivela una specie di ritorno ad alcune di quelle stesse terre, più o meno lontane dai centri urbani, che erano state lasciate per la fabbrica. Rispetto all’andata e allargando l’orizzonte oltre al cuneese, questo ritorno a quei luoghi non ha niente a che vedere con la vita antica e contadina che vi si svolgeva, anzi assomiglia più a una fuga dalle città. I centri urbani restano nevralgici perché sono i luoghi di lavoro, ma, a causa del costo della vita, smettono di essere luoghi di residenza.
Di conseguenza, il pendolarismo dagli anni Sessanta e Settanta tra fabbrica e campagna era una necessità che creava le sue contraddizioni evidenti risolte solamente con grandi frustrazioni e compromessi. Il pendolarismo attuale verso i grandi centri crea altri tipi di cortocircuiti, rendendo il centro minore una sorta di periferia del centro maggiore: il piccolo insomma soccombe, perde abitanti per mancanza di opportunità e il grande cresce. La conferma arriva da questi dati, ma si può capire il discorso anche in maniera del tutto empirica. Questo crea qualche scompenso: da un lato una città che si prosciuga, dall’altro una che ingrassa senza freni e con un po’ di spocchia.
A proposito di più giornate in una sola, le incertezze della vita da pendolare danno vita a numerosi episodi che portano a pensare di vivere più vite insieme. In quella mattina di dicembre, preso dalla fretta e con la bici in spalla, sono caduto per le scale. Non ho patito conseguenze, praticamente mi sono ritrovato seduto con la bicicletta di fianco, pronto per rialzarmi immediatamente e ripartire. Riuscito a salire sul treno, ricordo che, a porte chiuse e con il treno in partenza, stavo ancora recuperando fiato con le mani sulle ginocchia. Tolti poi cappello e sciarpa, slacciata la giacca e sistemata la bicicletta nel corridoio in modo da non intralciare il passaggio, in automatico cercai il telefono nella solita tasca, ma non c’era. Un po’ stufo dell’ennesima sorpresa, controllai nello zaino e in altre tasche, ma mi arresi quando il pensiero che probabilmente mi era scivolato dalla tasca nel momento del capitombolo attraversò il mio cervello. Mi presero una discreta ansia e una certa stupidità: il primo riflesso automatico fu di prendere il telefono e chiamare qualcuno in aiuto, ma ovviamente non era possibile. Rimasi interdetto. Con qualche flebile speranza, andai dal capotreno, ma purtroppo, disse che non aveva modo di contattare la stazione. Comunque, in un gesto di estrema gentilezza, mi prestò il suo per chiamare la Polizia Ferroviaria che, giustamente, non trattandosi di un’emergenza e nemmeno di un furto, declinò il mio gentile invito di andare a controllare se sulla scalinata del binario 4 corridoio D della stazione Porta Susa ci fosse da qualche parte un telefono con la cover arancione.
Sconsolato ritornai verso la bici e chiesi il telefono in prestito a un passeggero che, allarmato e titubante, acconsentì. Mentalmente cercai tra i pochi contatti telefonici imparati ancora a memoria, incrociandoli con le persone che sapevo potessero aiutarmi in quel momento: mia sorella più grande. La fortuna ebbe un sussulto perché mi rispose e soprattutto perché mi disse che sarebbe andata in stazione di lì a poco; nel frattempo il mio telefono continuava a squillare, segno del fatto che fosse ancora al posto suo tra gli scalini. Raggiunto uno stato di calma apparente, riconsegnai il telefono al legittimo proprietario, sollevato come se non si aspettasse più di rivederlo e con lo sguardo attento iniziai la ricerca di facce amiche sul treno. Questa è una particolarità da spiegare: nel periodo di pendolarismo ho incontrato e riallacciato i rapporti con tante persone che non vedevo da tempo, addirittura dai tempi delle scuole elementari o medie. E, avendo i tempi di viaggio per aggiornarsi sulle rispettive vite, i rapporti in alcuni casi si sono rinsaldati e sono ripartiti da dove si erano interrotti.
Finalmente incontrai una di queste persone che, senza troppi indugi, mi diede il suo telefono. Chiamai nuovamente mia sorella e le indicai la zona da perlustrare e poco dopo, mi richiamò con buone notizie, l’aveva ritrovato. In verità, arrivata alla rampa di scale, mia sorella non trovò il telefono immediatamente, ma chiese a un’addetta alle pulizie in servizio nei paraggi se per caso ne avesse trovato uno. Lei, scrupolosa e attenta, chiese come fosse fatto e, girandosi verso mia sorella che le stava parlando con il suo cellulare in mano, si accorse dell’adesivo identico – una specie di smile sbiadito – che mia nipote aveva attaccato sopra ai cellulari di tutta la famiglia. Riconosciuto lo stesso sul mio, prese dalla tasca del suo grembiule il bottino della caccia al tesoro mattutina, il mio telefono.
Per come è finita questa storia, forse non ho mai ringraziato abbastanza mia sorella e soprattutto sua figlia che ha avuto l’idea di rendere un oggetto comune, simile a tanti altri, facilmente riconoscibile e personalizzato. La presa di coscienza di avere una vita seriale, in batteria come un pollo, dipendente da uno strumento che considero amico, ma che trama alle mie spalle perché raccoglie informazioni su di me per conto terzi, è arrivata durante quella mattina.
Illustrazione di copertina di Luca Tagliafico per il libro In treno con Gianni Rodari (2020), gentilmente concessa da Einaudi Ragazzi in occasione del centenario della nascita di Gianni Rodari.
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