Ep. 02

Vita da pendolare, parte prima

La Padania, un territorio senza confini “nazionali”, ma definito da azioni politiche e imprenditoriali.

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Quella dei pendolari è una comunità di 30 milioni di persone, eppure in pochissimi se ne preoccupano

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Due ciminiere e un campo di neve fradicia.
Padania, Afterhours, 2012.

Padania

Come forse intuibile da quanto scritto in precedenza, i pendolari AV che vivono a Torino e lavorano a Milano sono abbastanza numerosi. Secondo il Comitato Nazionale Pendolari Alta Velocità sono circa 15000 persone in tutta Italia, nella tratta Torino-Milano sono circa il 13%.

Le due città erano parte del glorioso triangolo industriale italiano (la terza era Genova) e spesso una certa retorica politica vorrebbe ancora raccontarle come aree senza soluzione di continuità, da integrare commercialmente ed economicamente, tralasciando però di segnalare che la direzione dell’integrazione è rivolta interamente verso Milano che sta assorbendo tutto, non solo chiaramente da Torino, ma da tutta Italia.

D’altronde se il Pil pro capite dei milanesi equivale al doppio di quello degli altri abitanti in Italia, una ragione c’è. Quello che forse sfugge ai più è che quindi, nei fatti, Milano è la capitale di un territorio che comprende Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto, la Padania, macroregione cavallo di battaglia della Lega fino alla svolta nazionale di Salvini. Questo scenario, per quanto non concretizzato a livello amministrativo, è un dato di fatto:

 

La Padania esiste. È un territorio del nord Italia senza confini nazionali ma definito da azioni politiche e imprenditoriali.

Dopo 30 anni è sotto gli occhi di tutti.

 

Padania Classics è l’atlante che raccoglie minuziosamente i tratti architettonici e paesaggistici che caratterizzano l’Italia settentrionale al di fuori delle grandi città.

Leggendo gli approfondimenti sul sito e osservando le immagini, la narrazione snocciola alcuni dati importanti che danno l’idea del disastroso impatto ambientale e visivo che la media-piccola-grande imprenditoria, armata di calcestruzzo, capannoni e palme, ha avuto e continua ad avere sul territorio dalle Alpi Occidentali all’Adriatico, grazie soprattutto alle forze politiche locali. In effetti chiunque conosca un pezzo di quel territorio, potrebbe senz’ombra di dubbio confonderlo con un altro, sostenendo di sapere dove si trova quella rotonda o capannone perché ci è passato (raramente stato, al massimo visto dall’automobile o dal treno).

 

L’insidia dell’errore sarebbe forte, tuttavia l’associazione mentale sarebbe comprensibile perché mettendo insieme i tanti indizi comuni, lo sbaglio sorprenderebbe: la piana, i campi, i prati incolti e ingialliti, il cielo azzurro pallido, la nebbia, gli alberi secchi, il cemento, le reti arancioni, i cantieri sempre aperti, le rotonde che impediscono gli incroci e i meticciati, le villette.

Tutti questi elementi  e tanti altri   costituiscono il nucleo concettuale che permette di dire che ogni luogo della pianura Padana è uguale all’altro, asfaltando l’idea stessa di diversità.

Mondo perso e immaginato

Dal treno ai trecento all’ora, così come dall’autostrada A4 in direzione Milano, la massima diversità possibile è capire che esistono due tipologie di paesaggio: a sinistra le Alpi, nelle giornate serene si distinguono la Val di Susa con il monte Musinè e la Sacra di San Michele, le Valli di Lanzo e, anche se è difficile riconoscerli perfettamente, il Gran Paradiso e il Massiccio del Monte Rosa.

A destra, dopo le colline torinesi e la Basilica di Superga, verso Chivasso, identificabile dalla torre della fabbrica Lancia e dalle tre ciminiere della centrale termoelettrica, si può immaginare l’Alto Monferrato, il Parco Fluviale del Po e poi la pianura. Quando i binari risalgono verso nord, a un certo punto troneggiano in lontananza le due clessidre nucleari di Trino Vercellese, simili a quelle di Springfield, la cittadina dei Simpson. Fino ad arrivare alle invisibili risaie, ai tralicci, ai ponti, ai viadotti e ai capannoni.

Infine, andando veloce, la cupola di Antonelli a Novara e la Fiera di Rho, con i suoi parcheggi e il suo Albero della Vita smorto made in Expo 2015.

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Immagine di Pallanz (Matteo Pallanza) – Opera propria, CC BY-SA 4.0, da Wikipedia.

Uno sguardo strabico, dove ogni occhio osserva un lato diverso, si raccoglie in un’unica malinconia perché il senso della perdita e, in seconda battuta, della sconfitta personale è molto forte.

Osservare queste terre di fatica, trasformazioni, lotte e storie, rende inquieti.

 

Le montagne raccontano uno scenario più attuale, ovvero una specie di rinascita consapevole e dolce che lentamente e faticosamente prosegue da qualche stagione — forse il Movimento No Tav e i suoi festival Alta Felicità hanno qualche merito pure in questo. Enrico Camanni su Dislivelli e altrove riassume il concetto in poche parole: «Montanari per vocazione, non per nascita o punizione» dove il rifiuto e la ribellione stanno nell’atto stesso di andare in montagna, di salire e mettersi contro la forza gravità fisica, ma anche sociale.

Un clamoroso e triste aiuto a questa risalita potrebbe arrivare dall’emergenza climatica e dalla pandemia legata alla Covid-19 perché le pianure e le città stanno diventando invivibili e luoghi di contagio. Allora le Alpi potrebbero diventare una sorta di oasi, verosimilmente per ricchi, visto che per forza non potranno essere per tutti — non lo sono mai state. Questo pensiero è allo stesso tempo confortante e disastroso, anche perché la conoscenza di quel mondo, intesa come la quotidiana e sana capacità di saperci vivere, di prendersi cura della terra, è stata quasi totalmente distrutta.

Crollata per il turismo legato alla neve, la mancanza di incentivi, di manutenzione delle case, invase da spifferi ed erbacce; attaccata da stili di vita più agevoli oppure chiusa in una teca, in case museo ristabilite per l’occasione.

 

L’altra parte, la pianura, invece suggerisce un ritorno al passato, una memoria collettiva persa e raccontata da tanti. Uno di questi è Gianni Celati che, grazie a tre documentari, mostra il paesaggio delle cascine, relitti del latifondo trafitte da rughe, crepe e interstizi profondi, ormai parte integrante della natura.

 

Gianni Canova, a proposito di Visioni di case che crollano (Case sparse), scrive: «Il tempo come malattia. Come patologia inevitabile di un’epoca tesa a rimuovere il tempo e a piallare le sue gibbosità sull’asse liscio del presente. Per questo, allora, far vedere il tempo è per Celati il vero atto politico che il cinema ci può ancora aiutare a compiere: non il filmare «la realtà così com’è», non coglierla nella sua presunta «autenticità», secondo le illusioni dogmatiche care ai feticisti del realismo, ma cogliere il tempo che attraversa il mondo, e mostrare il lavoro che sul mondo produce».

 

Celati vuole mostrare il tempo, imprimerlo e ricordarlo per contrastare l’idea che esso sia una malattia o una sindrome vera e propria. Sul treno AV la sensazione di unire i luoghi con l’alta velocità sembra fallace, tremendamente; non permette di vedere, capire, assimilare e per forza quindi si perdono dei pezzi: cosa c’era prima, che cosa c’è ora e cosa ci sarà poi. In quanti lo sanno?

Oltre al tempo, a essere stravolto è anche il concetto di stratificazione, fondamentale a tutte le scienze dure e sociali. Ma la domanda cosa c’è sotto? ormai è diventata la chiave che apre alle teorie complottiste di ogni genere. Cosa c’è sotto? La risposta si divide tra: qualcosa che non bisogna sapere perché qualcuno non vuole che si sappia, oppure, qualcosa che non è più necessario conoscere perché il risultato è già messo a disposizione: il desiderio è arrivare al punto velocemente, senza capire quale sia il processo che lo ha generato. L’Alta Velocità sembra una metafora adatta per spiegare questa ossessione al risultato, che ha la sua spiegazione nel disinteresse personale, nella mancanza di approfondimento, nella superficialità, ma anche nella scelta di affidarsi dogmaticamente a chi si pone come custode del sapere.

 

Sembra ancora utile porre l’attenzione su un’altra questione, sempre in relazione al tempo: perché lamentarsi di un ritardo? Una volta pagato un abbonamento o un biglietto, una volta che si è seduti sul treno o si è in stazione ad aspettare — è noioso, stancante e snervante, certo, soprattutto da quando nelle stazioni non ci sono più le sale d’aspetto— ma qual è il motivo che spinge a lamentarsi di un ritardo?

Potrebbero esserci diverse ragioni, tutte legate a una certa componente vittimistica: innanzitutto chi non “pendola” non sa che vuol dire convivere con l’incertezza del ritardo sistematico e questo crea una dimensione di unicità e sensazione di poca empatia ricevuta, inoltre esiste a livello inconscio una promessa che a ogni ritardo viene disattesa. Per esempio l’alta velocità promette di metterci meno tempo, questo significa arrivare prima, quindi se ritarda, dove sta il guadagno?

In un certo senso l’alta velocità è uno strumento di alta selezione che vende una sensazione di furbizia a chi desidera meglio alloggiare rispetto a chi arriva dopo; e, se questa promessa fallisce, il sentimento di presa in giro è maggiore, anche perché il prezzo del biglietto lo è.

 

Sull’alta velocità è stato scritto e detto tanto, soprattutto per spiegare le ragioni del rifiuto al progetto in Valle Susa. Per avere una panoramica ampia e dinamica della questione, fondamentali sono il libro Binario Morto di Andrea De Benedetti e Luca Rastello e l’intervista proprio a Rastello che Daniele Gaglianone ha confezionato nel 2012.

Diversamente da altre fonti, queste hanno il pregio di offrire tante domande e poche risposte su più livelli e ambiti: chiaramente si discute della Val di Susa e del rapporto affettivo con quel territorio, ma lo sguardo si allarga e vengono affrontati altri temi, per esempio si parla delle persone che compongono il movimento per il no e della repressione nei loro confronti (“neanche i movimenti armati degli anni Settanta erano così calunniati”) o anche più tecnici, come la logistica dei trasporti, il progetto del Corridoio 5 Lisbona-Kiev, l’impiego dei fondi.

Insomma Rastello entra nel merito della questione e questo, rispetto al piatto dibattito tra l’essere favorevoli o contrari, sembra essere sconvolgente.

Le altre macroregioni

La Padania è solo una macroregione che Padania Classics, per ragioni estetiche, ambientali e politiche, ha deciso di mettere in mostra egregiamente, dando concretezza e dati a una semplice idea che probabilmente molti avevano intuito. Come il lavoro di Celati, mette in mostra il tempo e soprattutto la sua stratificazione.

Approfondendo colpisce che, in realtà, esistano altre macroregioni — certamente non così estese come la Padania, che meriterebbero comunque attenzione.

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Nell’immagine, presa dal rapporto Pendolaria del 2017, le aree arancioni rappresentano il 14% del territorio nazionale, dove vivono in totale circa 25 milioni di persone, quasi la metà del popolo italiano. Nella ricerca questo dato è messo in relazione con le aree del paese che necessitano di maggiori investimenti per incrementare il trasporto su ferro delle persone.

 

L’aumento della domanda di trasporto sulle principali linee ferroviarie urbane ha una spiegazione legata al cambiamento avvenuto nelle principali aree metropolitane italiane negli ultimi venti anni. Perché diverse conurbazioni si sono andate ad allargare e consolidare, e oggi qui vivono circa 25 milioni di persone.

La ragione è nel cambiamento avvenuto nelle principali aree metropolitane italiane, con il trasferimento di centinaia di migliaia di famiglie in Comuni di seconda o terza fascia.

Pochi fenomeni in effetti sono più rappresentativi di quanto avvenuto nel territorio e nella società italiana negli ultimi venti anni, quando è avvenuta una autentica “esplosione” delle periferie delle principali città italiane arrivate a inglobare i Comuni limitrofi dove si sono trasferite migliaia di persone che continuano a lavorare nel capoluogo, mentre si sono distribuite nel territorio attività e funzioni con uno spaventoso consumo di suolo. La crescita dell’urbanizzazione lungo tutte le direttrici principali, ha infatti ampliato in maniera impressionante i perimetri di queste realtà sempre più intricate.

 

È in queste aree, che occupano una superficie pari al 14% (poco più di 42000 km²) del territorio italiano, che si concentra la massima densità abitativa, la più alta richiesta di mobilità, il maggior consumo di suolo. In sintesi, ci troviamo di fronte ad un tema di rilevanza nazionale che riguarda da vicino la crisi economica che sta attraversando il Paese, le famiglie, il tessuto imprenditoriale, il mondo del lavoro. Un esempio di questi cambiamenti è la cosiddetta Città Adriatica.

Da Pescara a Rimini, con le Marche al centro di questo sistema, dove sarebbe di fondamentale importanza puntare a una “metropolitana della Città Adriatica”. Ossia a un servizio di trasporto ferroviario con caratteristiche europee, che colleghi i 237 km, ed i 20 centri principali, con treni moderni a orari cadenzati, abbonamenti integrati e coincidenze con autobus locali, treni e pullman verso collegamenti interni e nazionali, ma anche il sistema di porti (commerciali e turistici) e aeroporti (Rimini, Ancona, Pescara).

 

Alla fine, senza troppi giri di parole, il concetto di macroregione coincide con l’autentica “esplosione” delle periferie descritta nel rapporto di Legambiente. La parola “macroregione” allora è soltanto un modo accattivante per raccontare il consumo smodato di suolo, la disneylandizzazione delle città e l’allontanamento dai centri urbani dei suoi abitanti.

 

 

L’immagine di copertina è di Valentina Cobetto, autrice del progetto Il passeggero 8b.

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