Le soluzioni degli altri
Venezia è unica. Ma non è l’unica. E non è sola.
Quando finisce l’emergenza restano le vite degli individui, con traumi profondi e drammatici.
Quando finisce l’emergenza, quando le organizzazioni umanitarie di tutto il mondo smantellano le proprie strutture perché “il pericolo è cessato”, sia esso una guerra, una pestilenza o una carestia, restano le vite degli individui. Vite che hanno subito traumi, spesso traumi profondi e drammatici: la fine dell’epidemia di Ebola in Africa occidentale nel 2016 ha lasciato pesanti eredità che incidono non poco sulle vite delle persone, sulle vite delle famiglie, delle comunità. Chi ha visto morire i parenti e gli amici, chi è stato isolato dalla propria comunità che lo addita come untore, chi fa fatica a ritrovare una dimensione di quotidiana abitudine, chi ancora vive l’incubo, la paura, l’insicurezza. Il dramma di Ebola non termina con la fine dell’epidemia ma ha strascichi lunghi, abissali, che lasciano ferite aperte e profonde nell’animo e nella psiche delle persone.
Arrivata in Liberia nel 1990 l’organizzazione umanitaria internazionale Medici Senza Frontiere ha fornito assistenza medica durante le due guerre civili, convertendo le proprie attività quando nel 2014 tornò per rispondere all’epidemia. Sconfitto Ebola, nella seconda metà del 2016 l’organizzazione ha smantellato buona parte delle strutture cliniche che avevano gestito l’emergenza scegliendo però di lasciare un presidio e l’eredità più preziosa possibile: la consapevolezza della prevenzione, la Survivor Clinic e il Mental Health Project, per cui alcune di queste strutture sono state riconvertite per fornire assistenza ai sopravvissuti all’epidemia e, più in generale, a persone afflitte da problemi psichici e psicologici. Il progetto è nato nel 2017: «Le persone afflitte da psicosi, depressione grave o altri disturbi» spiega a Flow Elisabeth Jaussaud, capomissione di MSF a Monrovia, «sono meno in grado di prendersi cura di se stesse, della propria famiglia e di gestire la vita quotidiana. I familiari fanno davvero fatica a reagire, sostenere e aiutare il parente afflitto da problemi psichici, soprattutto quando non sono disponibili cure di alcun tipo: è qui che noi interveniamo».
Il Mental Health Project non si occupa solo di problemi psichici e di disturbo di stress post-traumatico ma anche di epilessia. È un’attività che non si limita alla cura, processo questo che spesso deve scontrarsi con difficoltà logistiche enormi, ma che si declina anche con l’educazione alla consapevolezza, l’educazione alla scienza medica e alla compassione (dal latino patire-con).
Con un solo ospedale psichiatrico e solo due medici specializzati in psichiatria presenti in tutto il Paese, la Repubblica di Liberia offre servizi molto limitati agli utenti. La collaborazione tra il Ministero della Salute e Medici Senza Frontiere è, in questo senso, l’avanguardia di un servizio che altrimenti semplicemente non esisterebbe. Spiega Elisabeth Jaussaud che «abbiamo centri di assistenza a Bensonville, Bromley, Clara Town, Pipeline e West Point, e nove medici formati da noi che forniscono supporto e cure ai pazienti» sia a domicilio che in strutture dove non si curano solo le persone ma si aiutano i familiari a comprenderne le condizioni, a sostenere le terapie, a superare lo stigma culturale e la paura.
La follia e i disturbi mentali, in Africa ma anche in Europa, spesso difficilmente sono accettati dalle comunità di riferimento.
«Uno degli obiettivi che ci siamo preposti è anche combattere la stigmatizzazione che i sopravvissuti ad Ebola vivono da parte della loro cerchia, della loro comunità. Vengono visti, e si sentono tali almeno in una prima fase, come appestati o untori. Nel peggiore dei casi come individui in qualche modo maledetti. Hanno paura, anche a distanza di anni e a epidemia conclusa, ad avere contatti con le persone, con la loro famiglia. Molti di loro sono stati isolati quando erano infetti, molti altri addirittura rifiutati dalle strutture sanitarie durante l’epidemia. Se non si fossero rivolti a noi probabilmente sarebbero morti» ci rivela Elizabeth Jassaud. Justine Hallard è francese e ha una lunga esperienza nella gestione delle risorse umane e dei progetti umanitari. Lavora con Medici Senza Frontiere dal 2013 e ha fatto esperienza sul campo in Medio Oriente. A Monrovia coordina il Mental Health Project: «Molte persone con problemi psichici per anni si sono affidate, o sono state affidate, alle cure di guaritori o erboristi senza mai ricevere vera assistenza medica di tipo psichiatrico».
Ci siamo dati appuntamento con Justine Hallard e con Emmanuel Deigh, il driver liberiano di MSF, nella zona di Duala, isola di Bushrod. Ho fermato il kékeh su United Nations Drive di fronte alla fabbrica di birra Club, a New Kru Town. Con un Defender bianco con il logo di MSF e una grande antenna radio sul cofano mi hanno portato fino alla missione episcopale di Bromley. Qui, nel cuore di una fitta foresta dove le strade sono tutte rosse e sterrate, ci sono una scuola e una clinica: casupole in cemento bianche e azzurre, la terra marrone e il prato verdissimo, i tetti in lamiera grezza o dipinti di grigio. La vegetazione, fittissima, mitiga l’umidità. Su una di queste casupole c’è la scritta in blu “Isolation Unit”: qui venivano messi in quarantena i malati di Ebola. Il Defender parcheggia in mezzo della radura, sulla destra gli uffici della clinica dove lavorano tre donne, operatrici del Ministero della Salute liberiano. «Il Mental Health Project» spiega Justine «è un progetto in collaborazione tra Medici Senza Frontiere e le autorità sanitarie locali» ed è uno dei primi progetti in tutto il continente africano volti a intervenire su problemi psichiatrici e di epilessia. Il primo in assoluto nato da una partnership pubblico-privato, almeno a quanto risulta a Flow.
Quello del sostegno psicologico al reinserimento nella società e nella propria comunità dei sopravvissuti non è un lavoro semplice e non va messo in secondo piano rispetto alle cure cliniche del virus: sono interventi medici complementari. Si tratta di aiutare individui afflitti da disturbo da stress post-traumatico che vivono lo stigma negativo dell’untore.
«Quando visitiamo i pazienti e quando vengono in clinica la prima cosa che facciamo è stringere loro la mano. Far sentire loro contatto fisico, anche abbracciarli se possibile, è fondamentale» dice a Flow Theresa S. Traub, operatrice sanitaria psico-sociale liberiana formata da Medici Senza Frontiere nell’ambito del progetto Mental Health. «È importante far arrivare questo messaggio a chi ci chiede aiuto: il pericolo se n’è andato, ora bisogna ricostruire tutto partendo dalle relazioni». Theresa ha i capelli annodati in corte treccine e il viso vispo, i suoi occhi raccontano storie che non appartengono solo a lei tradendo grandi doti empatiche. «Parliamo tanto anche con le comunità in cui vivono i sopravvissuti, promuoviamo buone pratiche sanitarie e organizziamo simulazioni, ad esempio su come reagire in caso si trovi un cadavere» racconta mostrando alcune foto e alcuni video sul suo smartphone. «Rompere con la “no-touch policy” una volta terminata l’epidemia» la prassi sanitaria base durante l’epidemia di Ebola, che ingiunge a chiunque di non toccare chi è infetto o sospettato di esserlo, «è il primo passo verso la stabilizzazione delle relazioni. È un lavoro lungo ma necessario, come necessario è manifestare calore umano» chiarisce Justine Hallard.
Gli operatori sanitari liberiani ingaggiati e formati da MSF incontrano gli individui e le comunità andando direttamente sul posto, ogni giorno. Questo avviene per due ragioni: far sentire la presenza capillare dell’organizzazione, riconosciuta e apprezzata da tutti, e ovviare a problematiche comuni quando si ha a che fare con malati psichici. Uno schizofrenico grave, ad esempio, potrebbe avere difficoltà a presentarsi a un appuntamento. Il lavoro di educazione e di conoscenza del paziente e del suo ambiente è importante tanto quanto quello clinico: la comprensione delle patologie, la loro accettazione da parte dell’individuo e della comunità facilitano la somministrazione farmacologica, oltre a offrire un terreno fertile per combattere la stigmatizzazione sociale.
Senza le cure fornite da MSF sarebbero le famiglie a doversi sobbarcare l’assistenza a tempo pieno dei malati, spesso affidandosi alle credenze popolari o a idee molto poco scientifiche della medicina. Questo nello scenario migliore. In quello peggiore l’assenza di cure costringe le famiglie, ad esempio in caso di comportamenti violenti o aggressivi, a legare il malato, chiuderlo in casa, nasconderlo al resto del mondo e ai (pochi) medici in visita. Nè più né meno di ciò che succederebbe ad uno psicotico, e sono migliaia, lasciato solo dal Servizio Sanitario Nazionale italiano. Orribile, certo, ma comprensibile in assenza di conoscenza e buone pratiche da applicare.
Quando invece l’approccio al trattamento medico viene condiviso con la comunità di riferimento diventa più semplice intervenire sul paziente ma anche permettere alla sua famiglia ed alla sua comunità più prossima di riorganizzare la vita quotidiana. Il raggiungimento di maggiore indipendenza del paziente grazie al trattamento farmacologico e al supporto psicologico, la liberazione della famiglia dall’assistenza coatta e la consapevolezza che la malattia mentale è un’esigenza medica come le altre è il primo passo per combattere lo stigma e migliorare l’accesso alle cure.
«Una delle sfide più difficili che affrontiamo con il Mental Health Project» dice Theresa Traub mentre viaggiamo nel Defender di MSF per andare a visitare un paziente «è lo stigma, specialmente verso gli individui che soffrono di epilessia. Per questo lavoriamo molto nelle scuole, dove svolgiamo lezioni sul tema, e ci rivolgiamo direttamente alle famiglie. Parliamo con loro tantissimo, spieghiamo perché l’epilessia non sia niente di innaturale o sovrannaturale come molti liberiani pensano».
La rimozione di un trauma è una reazione fisiologica della psiche umana, un vero e proprio atto di autodifesa. Ma in una società che esce da 15 anni di guerra civile e da 3 di epidemia, stress e psicosi si sono accumulati negli angoli più remoti della mente della popolazione. Si tratta di un gioco di reazioni uguali e contrarie, un gioco che è sempre al ribasso: vivere lo stigma dell’untore, a epidemia di Ebola conclusa, può essere drammatico quanto la morte di un figlio durante l’epidemia stessa.
«Tre anni di Ebola sono stati molto peggiori di quindici anni di guerra civile» mi dice James T. Bonah. Lo incontro a casa sua, non lontano dalla clinica di Bromley, dove lo staff di MSF mi ha condotto per incontrarlo. «In guerra puoi schierarti con una o l’altra parte, sai chi sono i tuoi amici e chi sono i tuoi nemici: con Ebola non hai idea se l’altra persona è infetta o no e forse non lo sa nemmeno lei. Ebola ha portato via mia moglie, mio figlio e mia figlia mentre io e Ayres, mio figlio minore, ci siamo ammalati ma siamo sopravvissuti».
James siede di fronte a me massaggiandosi la gamba sinistra. Ha 50 anni e l’arto gonfio e purulento a causa di un incidente avuto da poco: «Una moto mi ha travolto mentre ero in bicicletta, per fortuna non ho niente di rotto» dice quasi scusandosi. Sediamo nel piccolo patio di una casupola a un piano immersa nella foresta, una costruzione in cemento dipinta di verde: galline e cani gironzolano nel cortile di terra rossa e fango mentre lui siede affaticato e dolorante su una sedia in plastica. «Ho imparato a lavarmi le mani di continuo, a stare attento a quello che mangio, a come lo cucino, ai sintomi che accuso. Non era ovvio, noi siamo gente di campagna, che ne sappiamo? Non siamo così attenti a questi dettagli ma dobbiamo capire che conclusa l’epidemia di Ebola non possiamo dimenticarla: la memoria è fondamentale» dice con un sorriso.
«Mi sono ammalato nel novembre 2014, il mese prima si erano ammalati mia moglie e mio figlio James. Si chiamava come me, James. Dopo nove giorni di febbre alta, vomito e diarrea lui è morto e così ho deciso di mandare mia moglie in quarantena ma è morta anche lei». Mentre parliamo Ayres, un giovanotto con gli occhi grandi, gioca con le galline mentre ci ascolta distrattamente. Non parlerà mai né durante né dopo l’intervista al padre. «A un certo punto non riuscivo più a mangiare perché vomitavo immediatamente. Mi sentivo veramente debole e gli occhi erano diventati rossi come il sangue, avevo un fortissimo mal di testa. Accusavo dolore costante allo stomaco e non riuscivo a fare niente. Quando il personale di MSF è venuto da queste parti mi hanno visto così e sono intervenuti immediatamente, hanno preso il mio nome, lo hanno comunicato agli uffici e mi hanno portato alla clinica. La mia esperienza alla Survivor Clinic è stata ottima: il personale mi parlava e mi ha spiegato tutti i passaggi, avevamo la possibilità di parlare con altri malati e con i sopravvissuti, una cosa completamente diversa dal solito, l’opposto del totale abbandono che i malati di Ebola dovevano affrontare altrove. La gente non vuole toccarti, non vuole parlarti, non vuole nemmeno essere associata a te che sei malato o sei stato malato di Ebola. In nessun modo. Verrebbero emarginati anche loro. Questo è orribile».
James è grato, e non ha alcun problema a manifestare tale gratitudine, agli operatori sanitari di MSF: «Quando vedo il defender bianco sono sempre felice. E anche Ayres lo è» dice indicando il figlio sopravvissuto. Quindi qualcosa di “buono” questa orribile epidemia l’ha lasciato? «In un certo senso sì, io ho capito quali sono i comportamenti a rischio e quali no e ho capito che non siamo maledetti, che non siamo degli untori. Ma io oramai sono vecchio e non mi resta altro che mio figlio: è lui il futuro ed è a lui che devo pensare oggi trasmettendogli tutto quello che ho imparato. Nel bene e nel male».
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