Le soluzioni degli altri
Venezia è unica. Ma non è l’unica. E non è sola.
La crisi sanitaria più complessa della storia.
Questo lavoro è stato possibile grazie all’interessamento della sezione italiana Medici Senza Frontiere, che ci ha aiutato a metterci in contatto con i responsabili che si sono occupati e continuano ad occuparsi dei progetti liberiani dell’organizzazione.
Il biglietto aereo per Monrovia è stato pagato da Africa&Affari, magazine economico verticale sull’Africa edito lingua italiana da Internationalia: un “cambio merce” per alcuni lavori svolti nei primi mesi del 2019. Tutti gli altri costi (albergo e diaria) sono stati coperti dalla comunità di lettori di Slow News.
Tra il dicembre 2013 e il maggio 2016 l’Africa occidentale (Guinea Conakry, Liberia, Sierra Leone, Mali, Nigeria e Senegal) è stata sconvolta dalla “più grave epidemia di virus Ebola della storia”. 28.657 individui contagiati e 11.325 decessi sono i numeri di una crisi che, in realtà, sembra essere stata molto più ampia e drammatica. Se è vero che Ebola distrugge la vita di chi viene contagiato, dei morti perché tali e dei sopravvissuti perché costretti a vivere lo stigma dell’untore nella propria comunità, è ancor più vero che Ebola marchia a fuoco gli incubi di chi sopravvive.
In Liberia, verso la fine del marzo 2014, nelle contee di Lofa e Nimba si registrarono i primi casi di contagio. Già a metà aprile altri ne erano stati registrati nelle contee di Margibi e Montserrado, quest’ultima nel cuore della capitale Monrovia. I primi di luglio il Ministero della Salute liberiano aveva già segnalato 107 infezioni e 65 morti e il 23 luglio 2014 le autorità sanitarie avviarono un piano strategico di lotta all’epidemia: il 27 luglio la Presidente Ellen Johnson Sirleaf, premio Nobel per la Pace, annunciò la chiusura dei confini liberiani, con rare eccezioni – ben monitorate – come il Roberts International Airport della capitale. Il 30 luglio l’agenzia Reuters riferì che il governo aveva ordinato la quarantena per alcune zone colpite dal virus e la chiusura di tutte le scuole.
Nell’estate 2014 l’organizzazione non-governativa Medici Senza Frontiere (MSF) aumentò il personale in Guinea Conakry, Sierra Leone e in Liberia, dove l’organizzazione aveva lasciato un semplice presidio in seguito alla fine della seconda guerra civile. Oltre 300 persone tra medici, infermieri, personale sanitario, furono mobilitate da MSF in queste tre nazioni africane, dove entro la fine dell’estate del 2014 furono inviate ben 40 tonnellate di attrezzature e forniture mediche. Secondo i numeri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in tutta la Liberia furono 10.675 i contagiati da Ebola, 4.809 i morti. Secondo molti potrebbero essere anche il doppio: lo stigma, la negazione e la difficoltà di raggiungere alcune zone rendono incerte le cifre ufficiali. Centinaia le comunità sconvolte nella loro quotidianità e nelle loro relazioni, migliaia le persone coinvolte in questo sconvolgimento.
In Africa la lotta contro Ebola continua senza sosta: dal 1 agosto 2018 l’ennesima epidemia di questo virus sta affliggendo la Repubblica Democratica del Congo. L’allarme è stato lanciato proprio da Medici Senza Frontiere, che con rammarico ha constatato la totale incapacità di prevenzione e di risposta immediata delle autorità sanitarie congolesi. L’OMS l’ha definita “emergenza internazionale” e “la crisi più complessa della storia”: la 14esima epidemia di questo tipo negli ultimi 40 anni ha già valicato i confini congolesi (diversi i casi registrati in Uganda) e mietuto migliaia di vittime.
Si conoscono almeno quattro specie di Ebolavirus responsabili della malattia, attualmente la febbre emorragica più letale conosciuta, nell’uomo. Il più noto è lo Zaire Ebolavirus, il primo ad essere isolato nel 1976. I sintomi si manifestano improvvisamente e sono variabili: febbre alta, cefalea, mialgia, dolori addominali, nausea, vertigini, dolori alle ossa. La malattia è di difficile diagnosi nei primi giorni proprio per la genericità dei sintomi, che si aggravano in poco tempo con l’aumento della carica batterica del virus: diarrea e sangue nelle feci, vomito “a fondo di caffè”, occhi rossi dilatati, emorragie interne dovute alla reazione del virus con le piastrine contenute nel sangue. Reni, milza e fegato vanno in necrosi e nelle fasi finali il paziente entra in coma.
Tra gli esseri umani il virus si trasmette mediante il contatto diretto con i fluidi corporei infetti, sudore compreso, e con le superfici da essi contaminate. Il periodo di incubazione varia dai 2 ai 21 giorni. Al momento del decesso il virus si trova al picco della sua concentrazione, ragion per cui i cadaveri sono il veicolo più pericoloso per l’infezione. In media l’infezione si manifesta e porta alla morte nel giro di circa una settimana ma sono stati documentati casi sia di morte improvvisa che di afflizioni durate oltre un mese. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il tasso di mortalità di Ebola è del 50% circa ma in alcune epidemie, come quella del 2002-2003 in Repubblica del Congo, questo è stato anche del 90%.
Non esiste ad oggi un protocollo standardizzato per il trattamento della febbre emorragica da Ebola anche perché questo tipo di virus tende a evolvere nel tempo sviluppando una resistenza ai farmaci. Esistono tuttavia diversi trattamenti, come il cocktail di anticorpi noto come ZMapp o il farmaco Remdesivir che inibisce la polimerasi del virus, in fase costante di studio e sperimentazione. Esistono buone pratiche di prevenzione che, dove adottate, riducono drasticamente il rischio di epidemia e di contagio: un attento controllo degli animali capaci di trasmettere il virus (scimmie, alcuni tipi di pipistrelli, etc), l’uso di dispositivi di protezione individuale adeguati al trattamento dei pazienti infetti ma anche della carne, la disinfezione, la cottura corretta degli alimenti di origine animale, il lavaggio frequente delle mani, il coinvolgimento dei leader delle comunità locali nel comunicare le buone pratiche ai membri delle stesse comunità.
«Anche se non esiste una cura certa contro Ebola la prevenzione e l’intervento precoce sono le migliori armi per la sopravvivenza» dichiarò nel 2015 alle Nazioni Unite Rebecca Johnson, infermiera infettata in Sierra Leone l’anno prima e sopravvissuta.
Se Ebola è il Diavolo, come in molte nazioni africane viene immaginato il virus, è vero che il diavolo è nei dettagli: le raccomandazioni dell’OMS agli Stati membri, nel 2005, nel 2009, nel 2011 e nel 2015, non si sono mai trasformate in obblighi per gli stessi, che possono decidere se e in che entità finanziare la ricerca e i progetti di prevenzione. Il problema è nella struttura dell’Organizzazione: un’istituzione sanitaria delle Nazioni Unite creata nel XX secolo deve oggi affrontare patogeni nuovi, che si spostano in un mondo globalizzato e interconnesso. E se anche la risposta al virus è efficace quello che praticamente non esiste è il sostegno ai sopravvissuti.
In Liberia Medici Senza Frontiere avviò alcune “survivor clinic” dopo l’epidemia e, nel settembre 2017, un programma, in collaborazione con il Ministero della Sanità liberiano (un unicum in Africa), chiamato Mental Health Project e focalizzato soprattutto sul sostegno e il trattamento di malattie psicologiche ed epilessia: un’eccellenza che dimostra come la collaborazione tra ONG e governi sia una possibile ed efficace soluzione a problemi apparentemente irrisolvibili e globali.
Attualmente il programma di MSF fornisce assistenza gratuita e cure ambulatoriali a circa 1350 persone con disturbi mentali o epilessia in cinque diverse strutture sanitarie nell’area di Monrovia.
West Point è una grande lingua di sabbia, terra e lamiere a nord del Central District di Monrovia. Si trova nel cuore della capitale liberiana ed ospita la più grande baraccopoli del Paese. La riva sinistra affaccia sull’Oceano Atlantico mentre la riva destra è bagnata dal fiume Mensurado, che sfocia nell’Oceano proprio tra la baraccopoli di West Point e quella di Clara Town, a ridosso del Porto della città. Le spiagge di sabbia gialla splendente e la posizione ventilata fanno di West Point una grande promessa mancata: quella del turismo. Lo scheletro del Ducor Intercontinental Hotel, primo hotel di lusso di tutta l’Africa distrutto nel 1990 durante la guerra civile, domina dall’alto di una collina a picco sul mare il ghetto di lamiere, legno marcio e cemento umido. Nel ghetto migliaia di persone brulicano e vivono come formiche. Sulle poche pareti di cemento si vedono ancora i segni della guerra civile, i buchi dei proiettili del soldati di Charles Taylor [ex-presidente della Liberia, ndr], e sono migliaia gli ex-bambini soldato divenuti adulti senza futuro che vivono a West Point insieme a sbandati e disoccupati. Vi risiedono tra le 50 e le 100 mila persone, i poveri più poveri di tutta l’Africa occidentale.
Sono due le strade che conducono alla penisola di West Point: una è il prolungamento di Water Street, che incrocia l’affollatissima United Nations Drive tagliandola da sud a nord, e l’altra è una strada senza nome che ricollega il ghetto proprio a United Nations Drive, qualche centinaio di metri più ad est, verso il ponte per Clara Town. Nell’agosto 2014 una folla inferocita di abitanti di West Point assaltò il centro medico di quarantena al suo interno, prese i 29 pazienti infetti che vi erano confinati e li buttò nel Mensurado sostenendo che erano stati portati da altri quartieri della città e che lì non ci dovevano stare. Calmati gli animi e messa in sicurezza la zona, il 20 agosto del 2014 la Presidente Ellen Johnson Sirleaf ordinò la quarantena dell’intero ghetto di West Point per ragioni sanitarie. New jersey in cemento e soldati armati di bastoni e fucili automatici furono messi a guardia delle due uniche vie d’accesso al quartiere, sigillandolo.
La disperazione crebbe velocemente: molti cercarono di evadere a nuoto, altri forzando i blocchi dell’esercito. La diminuzione delle scorte di cibo e acqua potabile portarono la popolazione di West Point allo stremo, sull’orlo dell’ennesima guerra civile localizzata: 17 giorni dopo l’ordine presidenziale di chiusura del ghetto la quarantena fu dichiarata conclusa ma i blocchi dell’esercito restarono fino alla fine dell’epidemia, nel maggio 2016. Due anni. «È stata durissima» racconta Samuel Akkon, 24 anni, nato, cresciuto e residente a West Point, carpentiere e padre di due figli.
L’esercito aveva l’ordine di sparare a vista su chiunque cercasse di fuggire dal ghetto. Non esistono statistiche ufficiali sul numero di morti ammazzati ma parlando con gli abitanti di West Point ci si accorge di quanti abbiano una storia luttuosa e rabbiosa da raccontare. La situazione di totale disagio diventa evidente addentrandosi tra le lamiere del ghetto: famiglie che vivono letteralmente una sopra l’altra, promiscuità assoluta tra persone, fogne a cielo aperto, animali domestici e discariche ovunque, negozi e ristoranti che sono poco più che baracche marce e fatiscenti. West Point ha diversi primati: su tutti quello tasso di scolarizzazione più basso di tutta la Liberia, un fatto che porta due conseguenze, risentimento e negazionismo.
«In farmacia si va per stare meglio, in ospedale si va per morire» dice Samuel: «Molta della gente che vive qui non si sarebbe mai sognata di entrare in un ospedale: i parenti venivano spediti nelle farmacie» o nelle decine di spacci informali dove trovi ogni bene, dal cibo alle medicine fino al cherosene per le stufe e i fornelli da campo. Antidolorifici e farmaci per lo stomaco erano i medicinali più in voga a West Point all’inizio dell’epidemia, inutili per arrestare la più dolorosa e terribile febbre emorragica che l’uomo possa contrarre. «Poi sono iniziati i funerali» continua Samuel: «Le veglie funebri nelle case durano giorni e sono sempre affollatissime di parenti e amici. Io ne avevo il terrore: proprio a una veglia ho visto collassare improvvisamente il mio migliore amico. È caduto morto, anche lui malato di Ebola».
È impossibile, forse anche inutile, quantificare il numero di morti di Ebola nel ghetto di West Point. Secondo molti i numeri ufficiali ne contano meno della metà: «Prima dell’epidemia non avevo mai sentito parlare di Ebola» racconta Joseph Wyle, un sopravvissuto che vive nel ghetto. Le strutture ospedaliere fatiscenti di Monrovia rafforzarono la paura di contrarre malattie negli ospedali. Joseph, che ha una moto cinese rossa e fa il tassista, mi mostra casa sua: proprio di fronte alla porta d’entrata scorre un collettore fognario a cielo aperto che bisogna scavalcare per accedere alla baracca di legno putrido. Il pavimento è di sabbia viscosa e appiccicosa, il terreno di coltura perfetto per un virus, Ebola, che si contrae attraverso il contatto con il sangue, le feci, l’urina, il sudore. «Mia madre è morta qui dentro, su quella sedia» dice Joseph indicando un angolo buio: «Aveva paura di essere portata in ospedale e di morire lì. Dopo di lei sono morte mia moglie e mia figlia». La madre di Joseph, sua moglie e sua figlia sono vittime senza la dignità della statistica: si sono ammalate nascoste e sono morte nascoste.
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