Energia: verso quale direzione?
Rinnovabili, efficientamento, comunità energetiche. A che punto sono l’Italia e l’Unione Europea nella sfida della decarbonizzazione
Le foto che accompagnano questo articolo raccontano la comunità energetica rinnovabile di Magliano Alpi, in provincia di Cuneo. La storia di questa CER è stata raccontata da Ilaria Sesana in un articolo per la prima edizione di A Brave New Europe e la si può leggere qui.
Carbone, petrolio e gas «naturale». Dall’inizio della rivoluzione industriale a oggi sono stati questi i tre pilastri su cui si sono basate la produzione di energia e lo sviluppo industriale dell’Europa. Sono stati il combustibile che ci ha permesso di riscaldare le nostre case e alimentare le nostre automobili, i camion per il trasporto merci, gli aerei. Ma a caro prezzo: le emissioni di CO2 e altri gas climalteranti hanno causato un aumento delle temperature globali e una crisi climatica già oggi evidente in tutto il mondo.
«Più di un secolo di utilizzo di combustibili fossili e di uso iniquo e non sostenibile dell’energia e del suolo ha portato a un riscaldamento globale di 1,1°C rispetto ai livelli preindustriali», ha avvertito nel marzo 2023 il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc) in occasione della presentazione del Rapporto di sintesi del Sesto rapporto di valutazione sul clima.
Occorre cambiare direzione e bisogna farlo in fretta. Da questa situazione, avverte sempre l’Ipcc, sono scaturiti «eventi meteorologici estremi più frequenti e più intensi che hanno causato impatti sempre più pericolosi sulla natura e sulle persone in ogni regione del mondo».
La siccità che da quasi due anni sta colpendo l’Europa (Italia compresa), il drammatico scioglimento dei ghiacciai alpini, le ondate di calore sempre più intense e frequenti e le piogge torrenziali che devastano interi territori (come quelle che nelle ultime settimane hanno colpito l’Emilia-Romagna) sono solo alcune delle conseguenze del cambiamento climatico già sotto i nostri occhi.
Che cosa sta facendo l’Unione europea per cambiare rotta?
La Commissione e il Parlamento europei che si sono insediati nel 2019 hanno posto la sfida climatica tra le loro priorità. Il 29 novembre il Parlamento ha adottato una risoluzione in cui ha dichiarato l’emergenza climatica e ambientale in Europa e nel mondo. Ha chiesto inoltre alla Commissione di garantire che tutte le proposte legislative e di bilancio pertinenti siano pienamente in linea con l’obiettivo -stabilito dagli Accordi di Parigi- di limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5° rispetto ai livelli preindustriali.
Nel dicembre 2019, la Commissione ha presentato il “Green deal europeo”, un pacchetto di iniziative strategiche che mira ad avviare l’Unione europea sulla strada di una transizione verde, con l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica nel 2050. All’interno del pacchetto sono stati adottati diversi piani d’azione rivolti a vari settori (tra cui trasporti, industria e agricoltura) e sono state presentate diverse proposte normative in parte già approvate e in parte ancora in discussione. Con esiti più o meno positivi.
Una tappa intermedia di questo percorso è stata fissata con la legge europea sul clima: l’Ue e gli Stati membri si sono impegnati a ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento entro il 2030 rispetto ai valori del 1990.
All’interno dell’Unione Europeala produzione e l’uso di energia è responsabile del 77,1 per centodelle emissioni di gas effetto serra (circa un terzo del quale attribuibile ai trasporti) ed è da qui che bisogna partire se si vuole raggiungere l’obiettivo net zero entro il 2050. Carbone, petrolio e gas dovranno quindi lasciare il posto all’energia prodotta dal sole (fotovoltaico), dal vento (eolico) e dall’acqua (idroelettrico) nel più breve tempo possibile. Nel maggio 2022, il piano REpowerEu -che punta ad azzerare le importazioni di gas dalla Russia- ha fissato al 45 per cento l’obiettivo vincolante per la quota di energia rinnovabili nel mix energetico dell’Unione europea entro il 2030.
Fin qui gli obiettivi, ma come fare per concretizzarli? E soprattutto, che impatto avranno queste politiche sulla vita quotidiana di 447 milioni di abitanti dell’Unione europea? E dei 58 milioni di abitanti dell’Italia?
A che punto è la produzione di energia rinnovabile in Europa?
Il 2022 sarà un anno da ricordare: per la prima volta solare ed eolico combinati fra loro hanno superato il gas nella produzione di energia elettrica nei 27 Paesi dell’Unione europea. L’ultima edizione del rapporto European electricity review pubblicato dal think tank Ember evidenzia come abbiano generato il 22 per cento dell’energia elettrica nell’Unione, mentre il gas si è attestato al 20 per cento e il carbone al 16 per cento.
In particolare, nel 2022 la produzione di energia attraverso impianti fotovoltaici è aumentata del 24 per cento, contribuendo a evitare dieci miliardi di euro di costi del gas: «Ciò è dovuto – si legge nel rapporto – alle installazioni record di 41 Gigawatt nel 2022, il 47 per cento in più di quelle del 2021. Venti Paesi dell’Unione europea hanno raggiunto la quota più alta mai raggiunta di elettricità solare ». La Germania ha aumentato la propria capacità solare di 7,9 GW, la Spagna di 7,5 GW, la Polonia di 4,9 GW, i Paesi Bassi di 4 GW e la Francia di 2,7 GW.
Colpiscono in particolare i risultati ottenuti dai poco soleggiati Paesi Bassi dove il fotovoltaico ha prodotto il 14 per cento dell’energia elettrica (era appena l’1 per cento nel 2015). Un risultato ottenuto attraverso politiche semplici ed efficaci, ad esempio incentivando l’installazione di pannelli fotovoltaici sui tetti delle abitazioni, la cui capacità è passata da 1,3 Gw nel 2021 a 1,8 Gw nel 2022. «Il governo olandese ha inoltre annunciato un rapido piano di espansione dell’eolico offshore che pone il Paese in linea con l’obiettivo di un sistema energetico pulito al 100 per cento entro il 2030», si legge nel report di Ember.
A che punto è la produzione di energia rinnovabile in Italia?
Per leggere la composizione del mix energetico italiano è utile affidarsi ai dettagliati rapporti mensili pubblicati da Terna, il gestore italiano delle reti di trasmissione di elettricità. Nel 2022 la produzione da fonti rinnovabili ha contribuito per il 35,6 per cento alla produzione totale netta, in calo rispetto al 40,4 per cento del 2021. Una situazione dovuta in larga parte alla drastica diminuzione di energia idroelettrica, causata alla grave siccità che da due anni ormai colpisce le regioni settentrionali del Paese: nel 2020 questa pesava per il 41,4 per cento sul totale delle rinnovabili e nel 2022 è scesa al 28,4 per cento. Una riduzione solo parzialmente compensata dalla crescita del fotovoltaico, passato dal 21,5 per cento nel 2020 al 28 per cento nel 2022. Sommate tra loro, eolico e fotovoltaico coprono circa il 15 per cento della domanda di energia elettrica in Italia, in leggera crescita rispetto al 2021.
Nel corso del 2022 sono stati installati in Italia poco più di 3 gigawatt di nuova potenza da fonti rinnovabili (con 2,4 gigawatt il fotovoltaico ha fatto la parte del leone) portando così a 60,7 GW il totale installato. Un dato positivo ma non sufficiente per raggiungere gli obiettivi climatici e di sviluppo delle rinnovabili che l’Italia si è data con il Piano nazionale energia e clima (Pniec) approvato nel 2019: 70 nuovi gigawatt al 2030. Untarget che, peraltro, dovrà essere rivisto al rialzo per allineare le strategie italiane a quanto indicato dal “Green deal” e dal piano REpowerEu.
Sulle cause di questo stallo concordano sia le aziende del settore, sia associazioni ambientaliste. Le prime, riunite all’interno di “Anie rinnovabili”, puntano il dito contro «l’assenza di una volontà decisa nel tradurre in pratica quella che è la strategia nazionale» ed evidenziano il fatto che diversi impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili sono ormai prossimi al fine vita: motivo per cui l’associazione sollecita un intervento dell’esecutivo per evitare che siano dismessi.
Anche per Legambiente a rallentare il processo sono norme obsolete e frammentate, la lentezza degli iter autorizzativi, gli ostacoli e le lungaggini burocratiche di Regioni e Soprintendenze ai beni culturalii due principali colli di bottiglia dei processi autorizzativi. Per questo motivo l’organizzazione ambientalista che chiede un riordino delle normative in materia: «Un lavoro congiunto tra ministero dell’Ambiente, delle Imprese e del Made in Italy e della Cultura con l’obiettivo di pubblicare un Testo Unico che semplifichi gli iter di autorizzazione degli impianti, definisca in modo univoco ruoli e competenze dei vari organi dello Stato, dia tempi certi alle procedure», si legge nell’ultima edizione del rapporto “Scacco matto alle rinnovabili”.
I fondi europei finanziano la transizione energetica?
Raggiungere obiettivi così ambiziosi richiede necessariamente importanti contributi pubblici, che permettano a tutti di sostenere i costi della transizione ecologica ed energetica. Nell’ambito del bilancio dell’Unione europea ci sono varie tipologie di fondi che (direttamente o indirettamente) finanziano la transizione energetica, a partire dai 300 miliardi mobilitati piano REpowerEu, destinati per il 95 per cento « ad accelerare e scalare la transizione verso l’energia pulita». Ci sono poi il “Modernization fund” che punta a sostenere dieci Stati dell’Europa centro-orientale verso la transizione energetica e il programma Horizon Europe che finanzia la ricerca e l’innovazione e dedica 15 miliardi di euro ai bandi del settore “Climate, energy and mobility”. A queste risorse si aggiungono poi quelle messe a disposizione dalla Banca europea per gli investimenti, come il fondo Elena (European local energy assistance) che fornisce assistenza tecnica per l’efficienza energetica e gli investimenti nelle energie rinnovabili, con particolare riferimento agli edifici e ai trasporti urbani innovativi.
Anche la nuova politica di coesione dell’Unione europea per il periodo 2021-2017, pur non essendo la prima fonte di finanziamento in ambito energetico, pone un’attenzione particolare a questi temi e ha indicato «una transizione più verde e a basse emissioni di carbonio verso un’economia a zero emissioni di carbonio nette» come uno dei cinque ambiti d’intervento prioritari. Complessivamente, l’obiettivo due (Greener Europe) ha previsto uno stanziamento complessivo di 92 miliardi di euro a sostegno degli investimenti nei settori dell’energia, dell’adattamento e della mitigazione degli impatti dei cambiamenti climatici e della mobilità urbana sostenibile. Più nel dettaglio: 21 miliardi di euro sono destinati all’efficientamento energetico, mentre 9 miliardi sono destinati al sostegno della produzione di energia da fonti rinnovabili, in particolare sul fotovoltaico.
A queste risorse si aggiungono poi quelle del nuovo Fondo per una transizione giusta (Just transition fund, Jtf) con una dotazione complessiva di 17,5 miliardi di euro, i cui obiettivi sono quelli di attenuare gli effetti negativi della transizione climatica fornendo sostegno ai territori e ai lavoratori più colpiti dai cambiamenti oltre a promuovere una transizione socioeconomica equilibrata. Per l’Italia, i fondi sono destinati alla zona di Taranto, in Puglia, e a quella del Sulcis Iglesiente, in Sardegna.
Nel sostenere le misure di efficienza energetica, si legge nel Regolamento che istituisce il Jtf, «dovrebbe poter fornire sostegno a investimenti come quelli che contribuiscono a ridurre la povertà energetica, principalmente attraverso miglioramenti a livello di efficienza energetica del patrimonio abitativo». Questo fondo, inoltre, dovrebbe intervenire anche per «alleviare gli effetti della transizione, attenuando le ripercussioni negative sull’occupazione e finanziando la diversificazione e la modernizzazione dell’economia locale».
Che ruolo ha il Piano nazionale di ripresa e resilienza?
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) ha destinato 59,46 miliardi di euro alla Missione due, «Rivoluzione verde e transizione ecologica», pari al 31 per cento dei 191,5 miliardi di euro che l’Unione europea ha destinato all’Italia attraverso il piano Next generation Eu. Gli ambiti di intervento in questo ambito vanno dalla gestione del ciclo dei rifiuti al miglioramento delle infrastrutture idriche. Non mancano però stanziamenti importanti per la transizione energetica e l’efficientamento energetico.
Tra gli interventi più significativi figurano quello da un miliardo di euro per «aumentare la produzione italiana di energie rinnovabili e ridurre la dipendenza da produttori stranieri, potenziando le filiere nei settori del fotovoltaico e delle batterie. E sviluppando una leadership nazionale in ricerca e sviluppo, innovazione e brevetti».
Il Pnrr punta poi a sostenere con 2,2 miliardi di euro lo sviluppo delle comunità energetiche: gruppi composti da singoli cittadini, associazioni, enti locali e piccole imprese che si riuniscono per produrre e consumare l’energia prodotta da fonti rinnovabili. L’intervento si concentrerà in particolare sui Comuni con meno di cinquemila abitanti e grazie a queste risorse, sarà possibile installare «duemila Megawatt di nuova capacità di generazione elettrica, grazie a cui verranno prodotti circa 2.500 GWh annui e si ridurranno le emissioni di gas serra di 1,5 milioni di tonnellate».
Sempre all’interno della missione dedicata alla rivoluzione verde e alla transizione ecologica, sono previste risorse per l’efficientamento di alcune tipologie di edifici pubblici. L’intervento più significativo (800 milioni di euro) prevede la progressiva sostituzione di parte del patrimonio edilizio scolastico obsoleto intervenendo su circa 195 edifici con una riduzione del consumo di energia del 50 per cento che permetterà di ridurre le emissioni annue di gas effetto serra per circa 8.400 tonnellate di CO2. Altri 411,7 milioni di euro sono stati destinati alla riqualificazione di 48 uffici giudiziari che, a lavori ultimati, si stima permetterà di risparmiare 2.500 tonnellate di CO2 all’anno.
Difficile in questo momento conoscere l’avanzamento dei progetti nei singoli settori. Da mesi la piattaforma Openpolis denuncia la mancanza di trasparenza e di dati aperti sui progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza che permettano all’opinione pubblica di effettuare una valutazione indipendente.
Lo scorso febbraio il think tank indipendente Ecco ha pubblicato un’analisi (in collaborazione con E3G e Wuppertal Institute – qui il link al testo in inglese) in cui evidenzia come a fronte del dichiarato 40 per cento di fondi dedicati alla transizione energetica, il Pnrr italiano raggiunga una quota effettiva di spesa per il clima di appena il 13 per cento. In particolare si sottolinea il fatto che i fondi vengano dispersi tra tanti progetti di piccolo impatto dedicando poche risorse a interventi complessi tra cui la decarbonizzazione del settore industriale o la produzione di energia da fonti rinnovabili. «Molti degli investimenti previsti dal piano – si legge nel documento – appaiono piuttosto insignificanti rispetto alle esigenze di una transizione dell’economia verso la neutralità climatica. In particolare, manca un sostegno adeguato ai pilastri cruciali della transizione energetica, in particolare l’espansione della generazione di energia rinnovabile».
Altro elemento critico che viene stigmatizzato è il fatto che all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono previste forme di sostegno che possono favorire il settore del gas (come gli investimenti nel biometano e nell’idrogeno) mentre manca una strategia per l’elettrificazione e l’aumento dell’offerta di elettricità rinnovabile.
Che ruolo ha l’efficientamento energetico degli edifici per decarbonizzare i consumi domestici?
Aumentare la produzione energetica da fonti rinnovabili, però, non sarà sufficiente per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione fissati dall’Unione europea. In futuro un numero sempre maggiore di dispositivi, che oggi sono alimentati a gas fossile, a partire dagli impianti di riscaldamento, dovranno passare all’elettrico.
Gli edifici sono responsabili del 36 per cento delle emissioni di CO2 nei 27 Paesi dell’Unione europea e del 40 per cento del consumo energetico. Una quota significativa (circa il 75 per cento) delle case, degli uffici pubblici e privati, delle scuole e degli ospedali è inefficiente, e quindi altamente energivoro, è evidente l’importanza dell’efficientamento nella battaglia per il clima e per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione fissati dall’Unione europea.
Eliminare l’utilizzo del gas per riscaldare casa e per la produzione di acqua calda sanitaria (ad esempio sostituendo la caldaia con una pompa di calore) e, dove possibile, installare un pannello fotovoltaico sul tetto per produrre l’energia necessaria al funzionamento degli elettrodomestici è il primo passo verso la decarbonizzazione dei consumi energetici del settore domestico. Un passo importante ma non sufficiente.
«Se pensiamo di andare a installare una pompa di calore, magari in un edificio di classe energetica F o G, la prima azione da fare è pianificare un intervento di efficientamento energetico, anche per abbassare la bolletta elettrica», spiega Marco Grippa, programme manager dell’Environmental coalition on standards (Ecos). «L’installazione di un cappotto e la sostituzione degli infissi, ad esempio, permettono di ridurre la dispersione di calore, aumentano l’inerzia termica dell’edificio e ne abbassano la domanda complessiva di energia. In altre parole: in questo modo il calore si disperde meno e l’impianto di riscaldamento può essere acceso di meno per riscaldare casa», aggiunge.
Come è la situazione in Italia?
L’Italia, avverte Legambiente, è in forte ritardo sul fronte della riqualificazione edilizia: solo il 10 per cento degli edifici residenziali è in classe A o B (quelle con la migliore efficienza energetica), mentre il 75,4 per cento rientra nelle ultime tre (dalla E alla G): questo significa che chi le abita è costretto a far andare più a lungo i termosifoni per riscaldarle durante i mesi invernali o i climatizzatori in estate, con un’evidente ricaduta in termini di emissioni di gas climalteranti e sulle bollette. Secondo le stime dell’associazione, contenute nel rapporto “Civico 5.0”, un aiuto strutturale per le famiglie che permetta di portare un’abitazione dalla classe energetica G alla classe A permetterebbe di ridurre i consumi energetici del 75-80 per cento.
Anche in questo settore, l’Unione europea sta lavorando per fissare obiettivi stringenti: l’Energy performance of buildings directive (la Direttiva sulla performance energetica degli edifici, più nota in Italia come direttiva “Case green”) stabilisce che tutti i nuovi edifici dovranno essere a «emissioni zero» entro il 2028. Gli edifici residenziali, inoltre, dovranno raggiungere la classe energetica E entro il 2030 e la D entro il 2033 mentre per gli edifici pubblici e quelli non residenziali il raggiungimento delle rispettive classi è stato anticipato di tre anni. La direttiva è stata approvata lo scorso marzo dal Parlamento Europeo, che ora dovrà trovare un accordo con il Consiglio dell’Unione Europea, che riunisce gli stati Ue.
Se gli obiettivi dovessero essere confermati, la sfida per l’Italia sarebbe ambiziosa e urgente: sempre secondo Legambiente il nostro Paese dovrebbe avere la capacità di intervenire su almeno 6,1 milioni di edifici residenziali, ovvero almeno 871mila edifici all’anno. Un obiettivo che sale a 7,8 milioni se guardiamo al 2033 e all’obiettivo minimo della classe D. Almeno 780mila edifici all’anno per dieci anni.
Ma in concreto questo che cosa significa? Ci sono diversi tipi di azioni che possono essere messe in atto come spiega Eva Brardinelli, Buildings policy coordinator per il Climate action network Europe (Can Europe), un’Ong con sede a Bruxelles: «Prendiamo ad esempio un’abitazione singola in classe energetica G, quella in cui rientrano la maggior parte degli edifici residenziali in Italia: sostituire la caldaia a gas con una pompa di calore o installare nuovi infissi a triplo vetro già permette di fare un ‘salto’ significativo in termini di classe energetica. Andando a intervenire in maniera prioritaria sugli edifici che rientrano nelle classi meno efficienti c’è un potenziale di risparmio energetico enorme».
In che modo la transizione può contrastare la povertà energetica?
L’aumento del costo dell’energia innescato dalla pandemia da Covid-19 ed esploso con l’invasione russa dell’Ucraina ha acceso l’attenzione di molti osservatori e dei media sul tema della povertà energetica. L’Unione europea la definisce come una «situazione in cui un nucleo familiare non è in grado di soddisfare il proprio fabbisogno energetico domestico». In altre parole, una famiglia si trova in povertà energetica quando costretta a vivere in una casa troppo fredda durante i mesi invernali (o troppo calda in quelli estivi), con una qualità dell’aria insufficiente, umida o piena di spifferi.
Secondo Eurostat, nel 2020 nell’Unione europea c’erano circa 36 milioni di persone che si trovavano in queste condizioni (l’8 per cento del totale della popolazione), mentre il 6 per cento della popolazione europea non riusciva a pagare tempestivamente le bollette energetiche. Per il nostro Paese l’Osservatorio italiano povertà energetica (Oipe) stima che nel 2021 fossero 2,2 milioni le famiglie interessate da questa condizione (pari all’8,5 per cento del totale).
Intervenire per migliorare l’efficienza energetica delle abitazioni, riducendo le dispersioni di calore e sostituendo gli impianti di riscaldamento più vecchi e inefficienti con pompe di calore ad alta efficienza, l’installazione di pannelli fotovoltaici per l’auto-produzione di energia elettrica è una possibile forma di risposta a lungo termine a questa situazione. Trattandosi però di interventi decisamente onerosi, è necessario un forte sostegno pubblico attraverso forme di agevolazione fiscale.
Che cosa sono le Comunità energetiche rinnovabili?
Una possibile alternativa è data dalle comunità energetiche (Cer), un soggetto giuridico autonomo, i cui soci, come abbiamo spiegato, possono essere persone fisiche, enti locali, associazioni, piccole e medie imprese. L’obiettivo: produrre energia pulita da fonti rinnovabili all’interno della comunità, contribuendo in questo modo a ridurre le emissioni di CO2 e ad abbassare le bollette energetiche di chi partecipa alla comunità.
Le Cer rappresentano una rivoluzione copernicana nel modello “tradizionale” di produzione e distribuzione dell’energia oggi basato su alcuni grandi fornitori da un lato e milioni di consumatori dall’altro. Quello proposto dalle comunità energetiche è un modello orizzontale e più democratico che coinvolge i cittadini in prima persona, spronandoli ad avere un ruolo più attivo: parlare di energia non significa più quindi solo occuparsi di kilowattora o delle reti di distribuzione, ma rappresenta un’occasione per affrontare in maniera strutturale temi importanti come la povertà energetica e le disuguaglianze sociali.
Una delle prime ad attivarsi in questo senso è stata la Comunità energetica solare Napoli Est: l’impianto fotovoltaico da 53 kilowatt è stato installato sul tetto di un istituto religioso del quartiere di San Giovanni a Teduccio e l’energia prodotta viene condivisa con una ventina di famiglie in difficoltà economica (ma l’obiettivo è raddoppiarne il numero).
Nel corso del 2021, in collaborazione con la cooperativa energetica ènostra, si sono costituite anche le due Cer sarde di Villanovaforru e Ussaramanna: in entrambi i casi le amministrazioni comunali hanno coperto i costi di installazione e manutenzione ordinaria degli impianti (installati su edifici pubblici) per massimizzare i benefici economici per i soci. Il progetto per la Cer del rione Mangialupi, a Messina, ha visto l’installazione di un impianto da 55 kilowatt sul tetto della sede della Lega lotta Aids e tossicodipendenza: l’energia generata permette di ridurre i costi della bolletta elettrica dell’edificio e viene in parte condivisa con le famiglie e le piccole imprese che hanno aderito alla comunità.
Gli esempi sono numerosi: noi avevamo raccontato quello di Magliano Alpi, per esempio
Il problema, però, è che, oggi, le comunità energetiche non possono ancora dispiegare il loro potenziale a pieno. Dopo una fase di sperimentazione durata un anno, nel dicembre 2022 è entrato in vigore il decreto legislativo “Red II” (d.lgs 8 novembre 2021, 199) che dà piena attuazione alla direttiva 2018/2001 dell’Unione europea sulla «promozione e l’uso dell’energia da fonti rinnovabili». Le nuove Cer potranno installare impianti più grandi, fino a un megawatt di potenza, e potranno estendersi su territori più ampi, coinvolgendo così un maggior numero di partecipanti. Ma per «sbloccare» definitivamente la situazione manca ancora l’approvazione da parte della Commissione europea al decreto che disciplina l’incentivazione economica approvato dal ministero dell’Ambiente nel febbraio 2023.
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