Ep. 1

La povertà educativa

In Italia, secondo i dati ISTAT del 2020, vivono in condizione di povertà assoluta poco più di due milioni di famiglie, per un totale di un milione 337mila minori.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Bambini poveri

Quando era bambina, Federica* frequentava la scuola molto poco. La sua era una di quelle famiglie considerate difficili: suo padre è stato a lungo disoccupato e sua madre, per portare pochi soldi in casa, si prostituiva. Secondo il racconto che ha fatto alla struttura che l’ha accolta, a dieci anni Federica ha subito una violenza da parte di un cliente della madre, che aveva pagato per un rapporto sessuale con lei. Anche in seguito a quell’episodio, venne allontanata dai genitori e accolta da una comunità per minori provenienti da famiglie in forti difficoltà.

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Foto di Pasquale Ancona

In Italia, secondo i dati ISTAT del 2020, vivono in condizione di povertà assoluta poco più di due milioni di famiglie, per un totale di un milione 337mila minori. Queste famiglie non sono in grado di accedere a beni e servizi considerati essenziali. È una povertà innanzitutto economica, ma che molto spesso si lega anche ad altre dimensioni, in un circolo vizioso difficile da interrompere: non si hanno i mezzi per fare sport, per leggere dei libri, a volte nemmeno per andare alla scuola pubblica. Così, la povertà economica diventa, tra le altre, anche povertà educativa. Si tratta di un problema enorme, soprattutto nel Mezzogiorno, dove si concentra il maggior numero di famiglie povere, il 9,4 per cento del totale (Secondo Welfare). E dove, a molti bambini e bambine, viene di fatto negata la possibilità di avere un futuro diverso da quello dei loro genitori.

2 milioni di famiglie in povertà assoluta.
1.377.000 minori

Per cercare di limitare il fenomeno, negli ultimi anni le iniziative in questo ambito sono cresciute grazie a nuovi stanziamenti nazionali, ma anche ai fondi europei di coesione, che organizzazioni pubbliche e private usano anche per contrastare la povertà educativa. Questo compito viene svolto nelle scuole, nei quartieri, sul territorio e anche nelle strutture di accoglienza. Tra queste ultime c’è anche l’Asp – Terra di Brindisi che, a Fasano, in Puglia, ha ospitato Federica dandole un’istruzione e un orizzonte.

La povertà educativa

«La povertà educativa è un circolo vizioso», sostiene Chiara Agostini, ricercatrice di Secondo Welfare. «I bambini che provengono da famiglie svantaggiate hanno meno possibilità di partecipare ad attività sociali, culturali e ricreative, di svilupparsi emotivamente e di realizzare il proprio potenziale, ottenendo quasi sempre risultati scolastici peggiori della media. Una volta diventati adulti, questi bambini incontreranno così maggiori difficoltà ad attivarsi nella società e a trovare lavori di qualità», continua Agostini.

Il fenomeno è complesso e, come spiega Openpolis, non è «una lesione del solo diritto allo studio, ma una mancanza di opportunità educative a tutto campo». Avere un dato preciso o un indicatore univoco non è semplice, anche perché il concetto è comparso nella letteratura scientifica nel corso degli anni ’90. C’è però l’indicatore di povertà educativa di Save the children, composto da diversi sotto-indicatori.

Partire dai dati sulla povertà assoluta è fondamentale perché, aggiunge Openpolis, la dimensione materiale e quella educativa della povertà «si alimentano a vicenda». Come un circolo vizioso, appunto.

Nel 2020, il numero di famiglie in povertà assoluta in Italia, complice anche la pandemia, ha superato la cifra di due milioni, facendo registrare il dato più alto dal 2005. Quelle con minori sono 767mila: sono quelle in condizioni di disagio più marcato. A soffrire di più il fenomeno sono, storicamente, le famiglie che abitano nel Mezzogiorno. Dall’inizio dell’emergenza Covid-19, la povertà è aumentata maggiormente al Nord, ma è sempre al Sud che si registra il maggior numero di famiglie e di minori poveri.

Inoltre, aggiunge un rapporto dell’Università degli studi di Milano,«con riferimento al divario territoriale, la povertà educativa si concentra nelle zone rurali e periferiche, dove la mobilità dell’utenza è spesso ridotta e i servizi pubblici sono carenti». Come dire che, se nasci in povertà in una zona povera, poi ci rimani.

La Locride è una zona in cui possiamo provare a farci un’idea di come si contrasti questo fenomeno, con quali interventi e con che risultati.

La povertà educativa è un circolo vizioso.
Chiara Agostini, Ricercatrice di Secondo Welfare

Civitas Solis e le ragazze di San Luca

La Calabria è la regione d’Italia con il più alto tasso di studenti delle scuole superiori che non raggiungono competenze alfabetiche e matematiche sufficienti, con rispettivamente il 47 e 57 per cento (Istat, 2019).

I suoi giovani sono quelli che partecipano meno di tutti alla vita culturale fuori casa (15,9 per cento – Istat 2020) e le sue biblioteche sono usate solo dall’otto per cento della popolazione sopra i tre anni (Istat 2020). La ‘ndrangheta è una delle cause di questa situazione, in particolare nella Locride. Siamo nell’area della città metropolitana di Reggio Calabria: 42 comuni per poco più di 130mila abitanti. È in questa zona complessa e tristemente nota per la criminalità organizzata che, da 33 anni, l’associazione Civitas Solis opera a Locri unendo la lotta contro la povertà educativa a quella per la legalità.

«Qui, la ‘ndrangheta è l’agenzia educativa del territorio più presente oltre la scuola», ha dichiarato pubblicamente Francesco Mollace, fondatore e direttore dell’associazione. «Nella Locride – aggiunge – non ci sono asili nido, non ci sono spazi per la ricreazione pomeridiana né altri luoghi per i ragazzi». Per questo motivo, i presidi sociali che Civitas Solis ha creato sono fondamentali «per rafforzare il capitale sociale e pensare a uno sviluppo che non sia concentrato solamente sui luoghi di organizzazione di stampo mafioso».

Qui, la 'ndrangheta è l'agenzia educativa del territorio più presente oltre la scuola.
Francesco Mollace, Fondatore e direttore di Civita Solis

Uno dei contesti in cui Civitas Solis agisce è il comune di San Luca, sulle pendici dell’Aspromonte. San Luca è noto alle cronache nazionali e internazionali per essere una delle culle della ‘ndrangheta, oltre che luogo di nascita di uno dei suoi capi, Antonio Pelle.

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Foto di Pasquale Ancona

Una delle cose che colpisce di più del racconto degli operatori è la storia delle ragazze di San Luca. Qui, nessuna bambina tra i 9 e i 13 anni ha il permesso di parlare a una persona che non sia del suo paese, perché ognuna di loro ha il dovere di preservarsi per quando sarà in età da matrimonio. Gli operatori di Civitas Solis, invece, ormai da qualche anno – complice una buona collaborazione con l’attuale amministrazione comunale – sono riusciti a stringere dei rapporti con le famiglie di queste ragazze, ottenendo il permesso di giocare con loro. Così, una cosa apparentemente banale come una partita di basket, diventa un momento eccezionale.

«L’amministrazione – dice Mollace – si è accorta dei benefici legati alla nostra presenza, a partire da due sportelli di sostegno alla genitorialità che abbiamo attivato, e per questo collabora con noi». Come raccontano gli operatori, in questi contesti, le ragazzine non sono libere: non possono passeggiare, non possono scegliere come spendere il loro tempo, spesso non possono andare a scuola se non quelle frequentate esclusivamente da compaesani. Vedere le ragazze di San Luca che giocano a basket con le operatrici di Civitas Solis «mostra una nuova realtà», dice un’educatrice di nome Pasqualina. «Normalmente tutto ciò non sarebbe possibile. Il fatto stesso che loro oggi possano venire al mare con noi è una conquista dal valore inestimabile», aggiunge.

Dal 2018, l’associazione è diventata uno dei beneficiari del “Fondo per il contrasto della Povertà Educativa Minorile”, istituito con una legge del 2016, alimentato da finanziamenti pubblici e fondazioni bancarie ed erogato tramite l’impresa sociale «Con i bambini». Da ben prima, però, Civitas Solis fa sponda anche sui fondi europei per sostenere le sue attività. Esse vanno dagli scambi culturali all’estero per i giovani ai poli educativi sul territorio. Tutti gli operatori che ha inserito nel suo organico sono passati per il Servizio Civile o per il programma Garanzia Giovani, che sono finanziati grazie ai contributi europei Fse o Fesr.

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La politica di coesione

Le sigle con cui si indicano questi contributi rischiano di sembrare molto burocratiche e non fanno capire bene di cosa si tratti. Per avvicinare la burocrazia alle persone bisogna spiegarla in maniera comprensibile e mostrarne gli effetti concreti. Fse e Fser sono fondi che fanno parte della cosiddetta politica di coesione dell’Unione Europea. Sono una parte del budget comunitario che sostiene centinaia di migliaia di progetti in tutto il continente. Il suo scopo, come dice l’Atto unico europeo del 1986, è «ridurre il divario fra le diverse regioni e il ritardo delle regioni meno favorite» e, come ha aggiunto il Trattato di Lisbona del 2007, favorire la «coesione economica, sociale e territoriale».

Nello specifico, Fse sta per Fondo sociale europeo mentre Fesr sta per Fondo europeo di sviluppo regionale. Finanziano iniziative in ambiti molto diversi, dai trasporti alla ricerca, dall’ambiente all’occupazione, dal rafforzamento della pubblica amministrazione alla competitività delle imprese.

Tra questi ci sono anche l’istruzione e l’inclusione sociale, due temi che si legano strettamente a quello della povertà educativa.

Il sostegno di Fse e Fes:
Istruzione: 5.564.771.224€
Inclusione sociale: 5.126.080.441€

Secondo i dati del portale pubblico OpenCoesione, tra 2014 e 2020, Fse e Fesr combinati, e integrati dal co-finanziamento nazionale richiesto, hanno sostenuto progetti di inclusione sociale per 5.126.080.441 € e di istruzione per altri 5.564.771.224 €. Non si tratta di cifre irrilevanti, se si considera che negli ultimi anni il budget del Ministero dell’istruzione si sta aggirando intorno ai 60 miliardi circa, ma vanno fatte anche delle valutazioni qualitative. E quelle di Andrea Morniroli, co-coordinatore del Forum Diseguaglianze e Diversità, non sono generose.

«Questi fondi sono connessi a bandi che non hanno una programmazione tale da poter incidere davvero sul territorio. La povertà educativa è causata da una serie di fattori: sociali, economici e culturali che riguardano soprattutto il contesto in cui i ragazzini crescono. È su questo che si deve agire e non lo si fa in un anno», spiega. A suo giudizio, i fondi europei, troppo spesso, «finanziano progetti ma mai servizi, rischiando di rimanere delle sperimentazioni infinite». Poi c’è la questione enti locali, sollevata anche da diverse associazioni del terzo settore che lavorano grazie a questi contributi. «Gli enti locali sono un buco nero, perché spesso non hanno le competenze per fare progetti. Nel Mezzogiorno accade molte volte».

Eppure, continua Morniroli, esistono anche dei casi in cui i fondi Ue sono diventati «la scintilla di processi educativi diffusi sul territorio», dove è stata coinvolta tutta la comunità educante: la scuola, gli enti locali, le associazioni. «Qui, sono state avviate delle riforme della didattica, così che il processo potesse stabilizzarsi indipendentemente dal termine di progetti specifici». È quello che hanno provato a fare alla scuola Nitti di Matera, che è la prossima tappa del nostro viaggio.

Matera: la dispersione scolastica e il quartiere Serra Venerdì

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Oltre alle condizioni socio-economiche, c’è un’altra causa di povertà educativa: la dispersione scolastica. Nel 2020, 543mila giovani hanno lasciato la scuola dopo la licenza media. L’Italia è al terzo posto nella classifica che la Ue aggiorna ogni anno su questo fenomeno. Anche in questo caso, come per l’indice di povertà delle famiglie e dei minori, i livelli più alti si registrano proprio al Sud: dopo Sicilia e Campania, c’è la Calabria, con un tasso di abbandono scolastico del 16 per cento che, negli ultimi dieci anni, anziché diminuire, è aumentato dello 0,6 per cento. L’unica eccezione è la Basilicata che, stabile intorno al 10 per cento, è sotto la media nazionale, ma concentra la dispersione scolastica soprattutto nelle aree urbane, come Matera.

Al centro della città lucana, poco lontano dai Sassi, si trova il Rione Serra Venerdì, nato per trasferirvi forzatamente le persone che, ancora negli anni ‘50, abitavano i due quartieri rupestri, Sasso Caveoso e Sasso Barisano. È un rione popolare particolarmente povero, i cui abitanti vivono in case popolari, spesso in condizioni di disagio. La sua scuola è proprio il plesso Francesco Nitti dell’Istituto statale Giovanni Pascoli. Fin dalla sua apertura, è stata etichettata come “la scuola dei poveri”.

Qui, nel 2016, ha preso vita il progetto La scuola nelle periferie, finanziato con un contributo del Fondo sociale europeo e pensato proprio per contrastare dispersione scolastica e povertà educativa. L’idea era quella di organizzare dei percorsi di apprendimento alternativi, dopo le normali ore di lezione, e di aprirli a tutti gli studenti dell’istituto, non solo quelli della “scuola dei poveri”. E così il progetto ha coinvolto 200 alunni provenienti da famiglie molto eterogenee dal punto di vista socio-economico

Angela Festa, docente referente del progetto, spiega che La scuola nelle periferie puntava prima di tutto ad attivare moduli che potessero «coinvolgere la sfera emozionale dei ragazzi». Questo è servito a renderli consapevoli di quanto sia importante «non essere indifferenti rispetto alle vite degli altri». Partendo dallo sviluppo di competenze musicali, artistiche o di logica, i ragazzi hanno potuto confrontarsi con delle vite diverse dalle loro. «Grazie a questo progetto, il plesso Nitti – prosegue Festa – è stato riqualificato prima di tutto nell’immaginario comune, creando un presidio di aggregazione proprio in quella porzione di territorio più povera e più difficilmente vivibile per le persone».

Non solo. Il progetto ha dato anche altri risultati, più concreti: gli organizzatori del progetto hanno rilevato che il 62 per cento dei partecipanti ha migliorato la propria performance scolastica, e ha conseguito risultati migliori alla fine dei corsi. «Il contrasto alla povertà educativa – conclude Festa – passa innanzitutto dalla costruzione di motivazioni nei ragazzi a raggiungere degli obiettivi, a piccoli passi, cercando di lavorare sul proprio potenziale e sulle proprie ambizioni nella vita. Molti vivono senza aspettative, pensando la scuola come un obbligo e non come un’opportunità. Il progetto, invece, è servito anche a fargli capire che possono avere delle ambizioni anche se non nascono ricchi».

62%: i partecipanti al progetto che hanno migliorato la propria performance scolastica

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza

Nel Piano di Ripresa e Resilienza (Pnrr) che il governo italiano ha iniziato a implementare grazie soprattutto ai fondi europei straordinari di Next Generation Eu, l’espressione «povertà educativa» ricorre sei volte. All’interno delle sei missioni in cui è strutturato il piano, c’è una voce che finanzia direttamente, con 220 milioni di euro, bandi per il contrasto alla povertà educativa al Mezzogiorno. «La misura – si legge nel Pnrr – intende contrastare la povertà educativa delle Regioni del Sud attraverso il potenziamento dei servizi socio-educativi a favore dei minori, finanziando iniziative del Terzo Settore, con specifico riferimento ai servizi assistenziali nella fascia 0-6 anni e a quelli di contrasto alla dispersione scolastica e di miglioramento dell’offerta educativa nella fascia 5-10 e 11-17».

L’obiettivo è lanciare fino a 2 mila progetti per «coinvolgere fino a 50.000 minori che versano in situazione di disagio o a rischio devianza».

Nel Pnrr ci sono poi altre azioni che sono direttamente correlate alla povertà educativa. Da un lato, vi è la creazione di 228.000 posti negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia (stanziati 4,6 miliardi di euro). Dall’altro, ci sono: mentoring individuale (3 ore) e 17 ore di recupero formativo per 120mila studenti tra i 12 e i 18 anni; 10 ore di mentoring o consulenza individuale a favore di 350.000 giovani tra i 18-24 anni, per favorire il loro rientro nel circuito formativo.

Nel primo caso, la Rete #educAzioni ha sottolineato come sia «necessario stabilire un target minimo della copertura dei servizi (33 per cento), in gestione pubblica diretta o affidati in convenzione, per ciascuna regione ed anche nelle aree interne e periferiche, con accesso gratuito o semi-gratuito in modo tale da favorire la frequenza dei bambini appartenenti a famiglie in condizione economica modesta». Negli altri due, invece, Caritas Italiana ha fatto diversi rilievi:

  • la modalità per «bandi» potrebbe non cogliere il target vero individuato dalla misura, ovvero i territori maggiormente deprivati dal punto di vista della partecipazione e dell’attivazione socio-educativa;
  • garantire la qualità degli interventi che saranno attivati, per esempio, immaginando un sistema di «accreditamento» dei soggetti o di valutazione qualitativa e di impatto su quanto attivato attraverso i fondi;
  • garantire continuità nel tempo degli interventi, affinché non si creino «fuochi di artificio» nel deserto, con carattere di episodicità, senza garantire percorsi stabili nel tempo e servizi strutturati;
  • riflettere sul coordinamento delle iniziative sui territori, assegnando un ruolo di regia a enti locali o scuole, in modo che si possano comporre percorsi complessivi di accompagnamento per i giovani, senza attivare insiemi composti di azioni spot;
  • il tema della partecipazione dei bambini e delle bambine e della loro crescita in termini di cittadinanza responsabile deve essere progettata con strumenti di consultazione ad hoc.

Se le richieste della società civile, come queste, verranno accolte lo si vedrà nei prossimi mesi. «Molto dipenderà da come il piano verrà declinato», riprende Morniroli del Forum Diseguaglianze e Diversità. «Io credo – dice – che il salto culturale che è stato fatto con il piano è quello di pensare che educazione, welfare e contrasto alla povertà non siano un esito dello sviluppo, ma il presupposto. Non dobbiamo tornare alla normalità di prima perché normalità era quella che produceva i divari, le diseguaglianze, la povertà».

Una storia che può anche finire bene

Come in molti altri settori, insomma, il PNRR rappresenta al tempo stesso una grande occasione ma anche un potenziale problema se l’enorme mole di investimenti a disposizione non verrà correttamente indirizzata.

I divari, le diseguaglianze e, soprattutto, la povertà sono stati elementi che per molti anni hanno fatto parte della normalità di Federica, quando era una bambina. Eppure la storia della giovane di Fasano da cui abbiamo cominciato, oggi è diversa.

Anche grazie all’Asp – Terra di Brindisi.

Nato oltre 120 anni fa come istituto scolastico privato, oggi è un ente pubblico che si occupa di accogliere minori che provengono da famiglie in difficoltà economica. I ragazzi che vivono i suoi luoghi provengono quasi sempre da nuclei non abbienti o culturalmente poveri. A disporre il loro trasferimento in comunità sono i tribunali in accordo con le famiglie oppure i servizi sociali, anche nel tentativo di rimediare alla loro condizione di povertà educativa. «Qui – spiega Massimo Vinale, presidente dell’Asp Terra di Brindisi – i bambini mangiano, dormono, studiano o praticano attività che consentano loro di diventare adulti nel modo migliore possibile: frequentano le scuole, vanno in palestra o fanno attività pomeridiane. Tutto quello che può servire loro ad avere un futuro dignitoso».

Il mantenimento economico dei ragazzi italiani che vengono inviati all’Asp-Terra di Brindisi è possibile grazie all’utilizzo dei cosiddetti «Buoni servizio», finanziati con fondi comunitari, i Fesr (Fondi Europei di Sviluppo Regionale). Finalmente, sappiamo a cosa servono le sigle burocratiche.

I «buoni di servizio» sono degli assegni nominali che servono a coprire gran parte della retta dei minori, per consentirgli di avere una vita dignitosa, dai pasti ai vestiti fino ai loro corsi di formazione extrascolastica.

Come spiega Vinale, «ciascuno dei ragazzi ha un piano educativo individuale, pensato e preparato in base alle singole esigenze. Può trattarsi di un soggetto già scolarizzato, il cui ambiente familiare è però completamente saltato, quindi la sua permanenza qui è solo una parentesi prima di procedere con l’affido, oppure bambini e ragazzi costretti a rimanerci per anni e la cui formazione è strettamente legata al nostro lavoro».«In quel caso – continua – l’istituto ha il compito di rispondere alle loro esigenze di base, quelle che riguardano la lingua o la scolarizzazione. Molto spesso, infatti, accade che questi ragazzi facciano fatica a rispettare le regole, perché a casa non gli sono mai state insegnate e non sanno da dove iniziare. Però, come ho potuto spesso vedere in questi anni, se vengono accompagnati e seguiti, si ottengono dei risultati davvero gratificanti, che ripagano tutti gli sforzi».

Oggi Federica ha 21 anni. Non abbiamo potuto incontrarla, perché l’Asp non può mantenere i contatti con le persone che aiuta. Sappiamo, però, che vive a Udine con una nuova famiglia. E che nell’ultimo resoconto della sua esperienza con l’Asp ha scritto una poesia. Fa così:

«Restano queste storie, tra la gravità del cielo

e lo spazio della sua luce. Restano come i ricordi

e le rose. Quelle capaci di germogliare sullo stesso gambo, di vivere in fretta, di morire per mano

di chi le coglie, di essiccarsi fino a far tacere

il proprio profumo, così da vincere la morte

e tornare alla vita come una dedica d’amore».

La storia di Federica è finita bene: ci sono anche casi in cui gli acronimi e le sigle portano soldi e iniziative virtuose.

Quel che non sappiamo, purtroppo, è cosa sia successo alla sua famiglia d’origine.

Allo stesso modo, sappiamo sempre molto poco di tutte le altre storie che finiscono sotto l’etichetta della povertà educativa o che archiviamo come un numero, che vale la pena di ricordare: 337mila minori in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta.

*I nomi delle persone, in alcuni casi, quando la delicatezza delle loro storie lo richiedeva, sono stati cambiati per non renderle riconoscibili. Abbiamo verificato le loro storie e riportato i dettagli su cui possiamo garantire in termini di metodo di lavoro. Quelli in cui non abbiamo potuto approfondire li abbiamo lasciati- se necessari e credibili – come racconto diretto della persona testimone o protagonista della storia.

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