L’ideologia che ha colonizzato tutto: anche la scuola

Il sapere come merce, la finanza che si autoreplica fin dai termini che usiamo per parlare di scuola

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«La finanza si autoperpetua – scrive Miguel Mellino in Cittadinanze postcoloniali – oltreché come appropriazione dei processi lavorativi e del comune (materiale e immateriale), anche come strumento di ulteriori forme di “accumulazione per espropriazione”: espropriazione attraverso il debito, mercificazione della salute e dell’educazione, speculazione monetaria e immobiliare».

Questa espropriazione, questa estrazione, è sempre a favore di pochi e sempre a danno dei più. Spesso viene legittimata proprio dalle persone che la subiscono. Passa attraverso usi di parole che riaffermano la colonizzazione di tutti gli ambiti delle nostre vite; passa attraverso il modo in cui ci misuriamo e ci confrontiamo, attraverso il valore economico che diamo a tutto e a tutti.

«Per deformazione professionale», scriveva qualche giorno fa Mafe De Baggis in una sua considerazione «sono particolarmente sensibile al linguaggio e alle parole scelte, soprattutto quelle scelte per nominare azioni e soglie. Ne dico tre, che per me sono il punto di partenza della direzione da invertire a scuola: verifica, debito, credito.
Senza rendercene conto stiamo già pagando o tassando i ragazzi. E stiamo suggerendo che la cultura possa essere soggetta a verifica, parola che poco si sposa con il dubbio, il confronto, la creatività. Non mi piace per niente».

Il concetto di debito – il credito formativo è solo l’altra faccia della medaglia – legato all’apprendimento è stato introdotto, in Italia, dopo il 1995. Uno dei primissimo documenti ufficiali che contiene questa terminologia è la Circolare Ministeriale 7 agosto 1996, n. 492, in cui si parla di interventi strutturali che

«presuppongono la sostituzione dei “corsi di recupero” con una più ampia strategia di individualizzazione dell’insegnamento e di verifica periodica dell’apprendimento, da realizzarsi nei confronti di tutti gli studenti -e non solo di quelli in difficoltà- nell’ambito di un organico sistema di debiti e crediti formativi, correlati ad un quadro di “saperi minimi” per ogni disciplina».

Nella medesima circolare si usa almeno tre volte la parola profitto per parlare delle competenze raggiunte da chi studia.

 

Nella legge del 10 dicembre 1997, n. 42, “Disposizioni per la riforma degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore” non c’è la parola debito.
Ma con quella legge vengono istituiti i crediti formativi.

«Il concetto di credito formativo», scrive Treccani, «si è affermato a livello europeo e nazionale in relazione alla prefigurazione di un diritto dei cittadini al riconoscimento del patrimonio di conoscenze e di esperienze, indipendentemente dalle sedi in cui esse siano state acquisite. Si parla, a tal fine, di spendibilità del sapere in ambiti anche assai diversi fra loro, dalla scelta dei corsi di studio o di formazione professionale».

A costo di essere pedante e nonostante i grassetti, devo sottolineare l’uso di spendibilità: un’altra parola che mercifica la conoscenza e la rende, ancora una volta, parte di un mercato.

In un documento del 2007, la CGIL rileva alcune criticità nel meccanismo del recupero del debito.

«I dati sull’alto tasso di studenti con un debito formativo che non viene mai superato», si legge nel documento, «dimostrano che il problema va affrontato con un’ottica e una strategia nuove, su cui ci deve essere l’impegno di tutti i docenti e i dirigenti scolastici, pena la rinuncia a svolgere la funzione principale di una scuola pubblica».

Comunque la si pensi sui sindacati, non si può non notare che pur con notazioni critiche del meccanismo, anche la CGIL – in teoria un corpo intermedio che dovrebbe essere dalla parte degli ultimi – ha introiettato completamente il concetto di debito collegato alla formazione.

Questo scenario si riflette perfettamente nella politica attuale: nei programmi dei principali partiti politici italiani che si sono presentati alle elezioni del 2022 la mercificazione del sapere era più che evidente. Così come la sua subordinazione a logiche di potere di varia natura.

Ma si riflette anche nel giornalismo che, quando parla di scuola, lo fa spesso esaltando storie di successo di singoli in cui, col sacrificio e la rinuncia, si ottengono risultati spendibili.

Dalle parole che usiamo e che accettiamo viene fuori il livello di colonizzazione che siamo disposti ad accettare e a tollerare. Abbiamo accettato – chi più chi meno – che all’istruzione venissero associati termini che riguardano la finanza, appunto. E l’abbiamo accettato senza alcun vantaggio concreto e misurabile: ora lo diamo per scontato. È così e basta.

Come si de-colonizza il nostro modo di pensare? È complesso, perché ci siamo dentro fino al collo. Forse un modo per iniziare a farlo è parlarne. O forse, prima, bisogna volerlo. Lo vogliamo?

Nota

L’immagine è realizzata con un’intelligenza artificiale generativa.

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