«Per deformazione professionale», scriveva qualche giorno fa Mafe De Baggis in una sua considerazione «sono particolarmente sensibile al linguaggio e alle parole scelte, soprattutto quelle scelte per nominare azioni e soglie. Ne dico tre, che per me sono il punto di partenza della direzione da invertire a scuola: verifica, debito, credito.
Senza rendercene conto stiamo già pagando o tassando i ragazzi. E stiamo suggerendo che la cultura possa essere soggetta a verifica, parola che poco si sposa con il dubbio, il confronto, la creatività. Non mi piace per niente».
Il concetto di debito – il credito formativo è solo l’altra faccia della medaglia – legato all’apprendimento è stato introdotto, in Italia, dopo il 1995. Uno dei primissimo documenti ufficiali che contiene questa terminologia è la Circolare Ministeriale 7 agosto 1996, n. 492, in cui si parla di interventi strutturali che
«presuppongono la sostituzione dei “corsi di recupero” con una più ampia strategia di individualizzazione dell’insegnamento e di verifica periodica dell’apprendimento, da realizzarsi nei confronti di tutti gli studenti -e non solo di quelli in difficoltà- nell’ambito di un organico sistema di debiti e crediti formativi, correlati ad un quadro di “saperi minimi” per ogni disciplina».
Nella medesima circolare si usa almeno tre volte la parola profitto per parlare delle competenze raggiunte da chi studia.