Le soluzioni degli altri
Venezia è unica. Ma non è l’unica. E non è sola.
Il caso concreto di un alloggio per anziani finanziato dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale diventa l’occasione per capire come l’Italia spende e monitora i fondi dell’Unione Europea. Compresi quelli del PNRR
Sulla punta estrema a nord di Pisa sorge una palazzina gialla e bianca nuova di zecca. Fino a pochi anni fa non esisteva la palazzina e non esisteva neanche la strada su cui sorge. Era solo un campo incolto alla fine della città circondato da un centro sportivo e dagli ultimi palazzi di case popolari della periferia.
Gli abitanti del quartiere hanno visto sorgere la nuova palazzina con interesse. Anche perché questo edificio pastello immerso in una zona che è insieme residenziale, popolare e assai silenziosa è finito al centro di una narrazione politica che ha assunto un certo rilievo a livello locale.
Il Comune di Pisa ha infatti edificato la palazzina grazie a un contributo del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Por Toscana): poco più di 4 milioni di euro interamente erogati e per i quali la fine del progetto era posta al 2 agosto 2022, secondo un report di OpenCoesione.
Il progetto prevede che la struttura venga utilizzata come residenza popolare da assegnare a persone anziane autosufficienti e che al suo interno vengano predisposte delle aree per attività sociali e fisiche con l’obiettivo di ritardare quanto più possibile l’ingresso di queste persone nella fase di non autosufficienza.
In un paese molto anziano come l’Italia, progetti simili sono molto utili sia per la collettività che per i singoli individui perché ritardare l’ingresso nella non autosufficienza consente agli anziani di vivere in salute per più tempo, di prender parte ad attività di sostegno sociale o familiare più a lungo e al sistema sanitario di far fronte a spese rilevanti per una quota minore di tempo.
Lo scorso 18 gennaio il Comune di Pisa ha inaugurato la palazzina nuova di zecca, coi colori pastello ben nitidi, l’asfalto ancora lucido e la bandierina dell’Unione Europea ben in vista sulla facciata principale.
Come raccontato da PisaToday, oltre al sindaco Michele Conti e altri rappresentanti istituzionali, all’inaugurazione erano presenti anche alcuni degli assegnatari dei 18 nuovi alloggi. Tra questi anche Sandra e Paolo, due coniugi che erano in lista d’attesa per una casa popolare da 36 anni.
Però, dopo che i riflettori della stampa locale si sono spenti, nella palazzina gialla è successo ben poco. Lo scorso 20 marzo, siamo andati a visitarla per vedere quali progetti fossero stati messi in campo. Le tapparelle erano tutte chiuse e sui citofoni non c’era alcun nome. Le stanze al piano terra – pensate per ospitare le attività – erano vuote e polverose ed erano diventate uno sgabuzzino per scale, pennelli e secchi di vernice. Probabilmente non erano ancora state messe a bando.
Per ore è stato impossibile parlare con qualcuno perché semplicemente non c’era nessuno. Anche i vicini di casa hanno confermato che dopo l’inaugurazione sembrava non essere successo nulla: i politici hanno inaugurato in pompa magna ma poi qui non abbiamo visto quasi mai nessuno, hanno spiegato più persone.
Dopo alcune ore di attesa, due persone diverse intervistate in due momenti diversi, entrambe assegnatarie di alloggi popolari all’interno della palazzina, hanno raccontato che «le case sono nuovissime ma ancora non sono abitabili. Alcuni di noi stanno portando i mobili ma nessuno ancora ci vive».
Una di queste persone ha detto: «qui manca ancora l’abitabilità, quindi non possiamo viverci e non possono ancora partire le attività. Credo sarà questione di un mesetto».
Abbiamo contattato a più riprese il Comune di Pisa per un commento e una conferma, ma anche per ottenere una spiegazione del perché all’indomani dell’inaugurazione i progetti non sono ancora partiti e non vi è ancora l’abitabilità. Il Comune però non ha mai risposto alle nostre domande.
Il caso di Pisa sembra raccontare in sé una storia più ampia che riguarda un numero molto maggiore di interventi finanziati con fondi europei, in particolare della Politica di coesione. Non si tratta di opere fantasma o di incompiute, ma semplicemente di lavori portati a termine con ritardo o di progetti dei quali si fatica a capire l’efficacia.
Per capire a fondo serve fare un passo indietro e distinguere tra il progetto in sé e il finanziamento. Mentre il progetto è un insieme di attività svolte affinché si concretizzi un’idea che nasce per risolvere un problema e che dovrebbe infondere i suoi effetti positivi sul territorio nel breve, medio e/o lungo periodo, il finanziamento consiste nei soldi erogati per realizzare il progetto stesso, che segue le regole dei vari fondi utilizzati. Finanziamento e progetto corrono su binari diversi, e a volte il finanziamento copre solo in parte le attività necessarie per rendere pratica l’idea.
Succede così che, per ottenere l’ultima rata del finanziamento, sia ad esempio necessario inaugurare l’opera o l’infrastruttura per cui sono stati chiesti i fondi, e poco importa poi se quell’opera è già effettivamente in funzione oppure lo diventerà dopo settimane o mesi.
In altre parole, un’opera ancora non terminata o non pronta ad essere utilizzata potrebbe essere un progetto concluso per quanto riguarda l’erogazione dei fondi. Anche perché, spesso, accanto alle opere principali mancano i cosiddetti interventi complementari, ossia lo sviluppo di strumenti (come infrastrutture, mezzi di trasporto pubblici o altro) che eviterebbero che un’opera in sé buona diventi una cattedrale nel deserto.
Come spiega Lorenzo Bandera di Percorsi di secondo welfare, questo rischio è peraltro simile a quanto potrebbe accadere coi fondi del PNRR, ammesso che l’Italia riesca ad approvare le riforme necessarie per ottenere tutte le risorse.
«I fondi che per ora sono arrivati sono andati da Bruxelles a Roma e poi, in molti casi, da Roma alle varie diramazioni territoriali della Pubblica Amministrazione. Qui però si stanno arenando, perché i territori non sempre riescono a gestire la messa a terra come previsto. Sulla carta, quindi, le risorse sono stanziate come previsto dal cronoprogramma del Piano, ma le iniziative concrete spesso non sono neanche partite», commenta Bandera.
L’Unione Europea è impegnata affinché non si verifichino truffe o frodi coi soldi dei progetti europei e anche per monitorare l’entità di eventuali ritardi. In particolare, i controlli possono provenire dagli agenti dell’Olaf, cioè l’ufficio europeo per la lotta antifrode, o dagli ispettori della Corte dei conti europea o ancora da quelli della Commissione Europea, che svolgono controlli a campione. In generale la Commissione si avvale dell’aiuto degli Stati membri per assicurarsi che i progetti siano conclusi con successo e che i fondi siano spesi bene.
Oltre al monitoraggio ufficiale e istituzionale esiste anche quello civico. In Italia ad esempio nel 2013 un gruppo di cittadini e cittadine ha deciso di trasformare un evento di monitoraggio dei progetti europei in un’organizzazione di volontari che stabilmente si occupano di verificare cosa succede e come vengono spesi i soldi dei contribuenti europei. Si chiamano Monithon, una crasi tra “monitoraggio” e “hackathon”, ossia un evento in cui gli appassionati di un determinato settore si riuniscono e lavorano tutti insieme, di solito digitalmente.
Il presidente di Monithon Luigi Reggi ha spiegato a Slow News che «i progetti che analizziamo vengono etichettati in funzione di come procedono. Alcuni vengono segnati come appena iniziati, altri invece con un buono stato di avanzamento oppure come conclusi con successo. Abbiamo etichette anche per i progetti conclusi ma sostanzialmente inutili e per progetti che sono rimasti bloccati o che procedono con dei problemi rilevanti».
Dalla sua nascita a oggi Monithon ha monitorato 1.236 progetti pubblici, un numero ampio per una rete di volontari ma ancora poco rappresentativo degli oltre 1,8 milioni di progetti monitorati da OpenCoesione, un’iniziativa nazionale di governo aperto (open government) sulle politiche di coesione. Per ciascuno di essi i volontari di Monithon hanno generato un report in cui si sintetizza l’avanzamento dei lavori, il tipo di analisi svolta e si spiegano i criteri adottati per l’etichetta assegnata a ogni singolo progetto.
«È importante capire che Monithon ha analizzato una percentuale troppa bassa di tutti i progetti europei esistenti per poter avere la presunzione di essere rappresentativi del quadro generale» ha sottolineato Reggi. «Tuttavia alcuni schemi ricorrenti si possono intravedere. Per dirne una: io non ricordo un singolo progetto analizzato che non avesse una certa quota di ritardo», racconta.
Non solo: circa un terzo dei progetti analizzati da Monithon mostra difficoltà, risultando, bloccato (8 per cento) oppure in corso ma con problemi di realizzazione (15 per cento), oppure ancora completo ma inefficace (10 per cento), ovvero concluso con successo da un punto di vista di rendicontazione e consegna, ma di fatto poco utile o inutile per la popolazione a cui era rivolto. Il che sembrerebbe essere il caso di Pisa, almeno per ora.
Uno dei problemi sta nel modo in cui vengono monitorati e valutati i progetti. I parametri adottati dall’Ue sono infatti esclusivamente quantitativi e mai qualitativi. Vengono cioè considerate solo variabili quantificabili oggettivamente, come ad esempio il numero di persone servite o raggiunte dal progetto. Mai appaiono variabili qualitative come ad esempio il gradimento o l’apprezzamento da parte degli utenti dei progetti.
Questa scelta, da un lato rende il monitoraggio più semplice e oggettivo, dall’altro crea problemi di analisi. Il progetto di Pisa ad esempio – che non è attivo e ancora non ha servito nessun cittadino – risulta terminato se si adottano i criteri oggettivi impiegati dall’Ue e – a cascata – da OpenCoesione.
Monitorare e valutare efficacemente l’uso dei fondi Ue è particolarmente importante in un paese come l’Italia, che storicamente fatica a spendere i contributi che arrivano dall’Unione Europea.
Uno dei motivi di questo perenne ritardo è la stessa catena di comando del denaro, che da Bruxelles passa a Roma, poi alle Regioni, poi ai Comuni e infine alle aziende private, rendendo il sistema macchinoso e talvolta poco trasparente. Un’altra ragione è la composizione della Pubblica Amministrazione italiana, che è spesso composta da molti giuristi e pochissimi uffici tecnici e per cui dunque risulta necessario esternalizzare determinate attività tramite bandi che portano via ulteriore tempo.
«E poi c’è l’annosa questione della burocrazia», aggiunge Luigi Reggi, «che spesso è copiosa e sovrabbondante».
Come dicevamo, motivazioni molto simili sono alla base anche dei ritardi italiani sul Pnrr, per il quale la Commissione Ue non ha ancora erogato la terza rata di finanziamenti.
Bruxelles, per la prima volta dall’avvio del piano, non ha confermato il raggiungimento degli obiettivi minimi da parte dell’Italia. Il ritardo, ha dichiarato il commissario europeo all’economia Paolo Gentiloni, «non è un’eccezione, lo abbiamo fatto con altri paesi».
«Quello che è cruciale – ha continuato Gentiloni – non è questo versamento, che ci sarà, ma la dimensione del programma a sostegno della ripresa italiana. È così importante che un impegno congiunto di Bruxelles e Roma dovrebbe essere molto importante se si vuole attuare questo piano».
Secondo un calcolo dell’Associazione degli artigiani e delle piccole imprese di Mestre, infatti, per spendere al meglio tutti i fondi del PNRR, l’Italia dovrebbe farlo a un ritmo «4,5 volte superiore» a quello con cui ha utilizzato i fondi della Politica di coesione Ue dell’ultimo settennato. Questi ultimi erano circa nove miliardi all’anno, quelli del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono ben 42, fino al 2026.
La palazzina gialla e bianca di Pisa, quindi, non è uno scandalo, ma una spia di problemi di estrema attualità.
UN PROGETTO DI SLOW NEWS, PERCORSI DI SECONDO WELFARE, INTERNAZIONALE, ZAI.NET,
LA REVUE DESSINÉE ITALIA, FINANZIATO DALL’UNIONE EUROPEA.
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