Ep. 05

Biodiversità è anche il giardino sotto casa

Quello urbano è un ecosistema. Anzi, in realtà la città ne contiene più di uno, di ecosistemi.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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Roma selvatica

Un lago, nato dagli scavi del cantiere di un centro commerciale, in meno di trent’anni ha dato vita a un monumento naturale.

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Enrico Alleva è un etologo. Tra i suoi numerosi incarichi è presidente della Federazione Italiana Scienze della Natura e dell’Ambiente, accademico dei Lincei e componente del comitato scientifico dell’Enciclopedia Treccani. Sui giornali, italiani ed esteri, il suo nome compare spesso, come autore o come intervistato, in relazione al tema della convivenza tra l’uomo e gli animali selvatici. Alleva ha visitato il lago Bullicante in occasione di una delle sedute di progettazione condivisa del Monumento naturale Parco delle Energie che si è tenuto il 1° luglio 2020. Durante il suo discorso ha puntato più volte lo sguardo verso il cielo raccontando a tutti quali uccelli stavano passando sulla nostra testa.

Gli abitanti delle città possono apprezzare gli alberi, riconoscere alcune specie erbacee, constatare la presenza di animali – soprattutto uccelli – ma difficilmente pensano di vivere all’interno di un ecosistema. Come raccontare il contrario?

«Anche quello urbano è un ecosistema. In realtà la città ne contiene più di uno. Coesistono l’ecosistema del centro metropolitano, dove la vegetazione è spesso rarefatta, quello dei parchi urbani, quello delle ‘penisole’, ovvero di quei parchi periferici che si insinuano in città, oltre al cosiddetto habitat frammentato, quello della periferia, nelle zone che chiamano suburbio, dove le costruzioni si diluiscono tra campi, giardini e parchi verdi. Lì l’ecosistema è ulteriormente complesso e diversificato come comunità vegetali e animali. Ognuno di questi ha la propria flora e la propria fauna, le sue specie caratteristiche e quelle rare o solo stagionali. Spesso il cittadino urbano poco lo nota e si attiva a osservare piante e animali magari solo quando è tranquillo in vacanza. Faccio un esempio: molti turisti vanno all’estero e considerano la ballerina bianca, un uccello che ha questo nome proprio perché ha un modo molto artistico e ritmato di alzare e abbassare la coda, un animale strambo ed esotico. In realtà in centro a Roma non sono così rare le ballerine bianche che hanno magari imparato a nutrirsi di piccoli pezzi di cornetto che la gente smangiucchia davanti al bar al mattino».

Quali uccelli sono presenti a Roma?

«Partiamo da un aspetto importante: Roma, come moltissime altre grandi città, eroga e involontariamente dona una grande quantità di cibo a tutte quelle specie poco timide, capaci di mangiare ciò che trovano. Le chiamiamo ‘commensali’, proprio perché si nutrono dei nostri scarti alimentari. Questa offerta di appetitosa nostra immondizia attira i ratti, i gabbiani, i colombi, che si chiamano così proprio perché fin dall’antichità nidificavano sulle colonne. Più di recente, ma già da parecchi decenni, sono penetrati in città i merli e poi le cornacchie. Il problema è che le metropoli ospitano solo poche specie con un elevatissimo numero di individui, mentre negli ecosistemi con alta biodiversità, quindi più resilienti, troviamo uccelli granivori, onnivori o insettivori come cinciallegre, cinciarelle e capinere. Nei pressi di casa mia a Roma, vicino all’Università La Sapienza, si scorgono i pendolini e qualche volta i rigogoli, presenti perché lì vicino è ubicato il Cimitero Monumentale del Verano, un grande parco che ospita anche i barbagianni e, più o meno saltuariamente, anche altri rapaci notturni o diurni, regolatori importanti perché si nutrono specialmente di ratti. Un ecosistema con un altissimo numero di individui e poche specie, però, rischia di dimostrarsi un’ecosistema squilibrato, fragile, poco resistente ai cambiamenti nel tempo».

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Quanto è importante difendere la biodiversità negli ambienti urbani?

«Le amministrazioni più sagge, oculate e più preoccupate della salubrità dell’ambiente cittadino prendono provvedimenti per misurare e monitorare nel tempo la biodiversità. Da alcuni anni in alcune zone in Italia vengono realizzate delle mappe in cui il territorio cittadino è diviso in quadranti e in ognuno di questi viene misurata la biodiversità presente. I rapaci sono un buon indicatore di biodiversità perché sono predatori apicali, ovvero stanno in cima alla piramide alimentare e mangiano uccelli che a loro volta si nutrono di insetti. A Roma il monitoraggio della presenza delle coppie di falchi pellegrini o del falco più comune è un buon indicatore. Gufi, allocchi, barbagianni e civette sono invece indicatori di quel che accade di notte. È possibile difendere la presenza di questi animali, per esempio, posizionando cassette adatte al nido. Molti di loro poi nidificano vicino al luogo in cui sono nati ed è più probabile quindi che rimangano in zona. Esistono poi accorgimenti di bioarchitettura come la costruzione di facciate che possono fungere da rifugio per il nido di rondini, rondoni e pipistrelli o la realizzazione di sottopassaggi per i porcospini che attraversando sulla strada rischiano di restare schiacciati dalle auto. Sono tutti accorgimenti che paesi più zoofili dell’Italia utilizzano da molto tempo».

Qual è il ruolo delle aree verdi nella tutela della biodiversità?

«Mantenere zone verdi con specie di piante autoctone è importante per accogliere la biodiversità animale. Per esempio, un albero marcescente permette di sopravvivere a specie relativamente rare di insetti o ai pipistrelli migratori che necessitano di fessure in un albero morto per andare in letargo. Per dirla con una battuta: quando un albero viene scelto da un architetto perché ha una certa forma o un certo colore e non dall’ecologo o dal botanico perché è adatta a quell’ecosistema specifico – con un ragionamento di promozione o restauro della naturale biodiversità -, di solito poi la biodiversità ne soffre. Non a caso il modo in cui è stata reimpostata la disciplina del paesaggio vede, più spesso del passato, l’insegnamento della botanica e della zoologia all’interno di corsi di laurea destinati ad architetti e urbanisti, così che questi giovani laureati sappiano rispettare la biodiversità».

Lei ha visitato il Lago dell’ex-SNIA. Cosa ne pensa?

«Quell’area è molto interessante e di altissimo pregio dal punto di vista naturalistico, ma anche sociologico, antropologico e culturale. I cittadini del territorio si sono posti il problema di salvaguardarla per il proprio tempo libero, ma anche per il benessere della comunità locale. E questo è molto importante: nel momento in cui il cittadino si preoccupa del giardino che ha sotto casa impara a riconoscere la biodiversità. Entra, insomma, in sintonia culturale con essa».

Come spiegherebbe agli abitanti di Roma l’importanza di preservare un ambiente come quello del lago dell’ex Snia, sorto in un quadrante molto urbanizzato?

«Prima di tutto va ricordato che la biodiversità è un valore di per sé. Un valore celebrato e ben legificato a livello europeo e non solo. Un’area verde in piena città, con i suoi colori naturali, è inoltre importante per la salute mentale. Alcuni studi hanno appurato che il verde e l’azzurro sono molto utili anche negli ospedali, soprattutto in pediatria. Poi possiamo anche avanzare una valutazione utilitarista: dove vivono allocchi e barbagianni per qualche chilometro quadrato ratti e roditori non avranno vita facile. E ancora: essere una zona di sosta per uccelli migratori insettivori significherà sfruttare degli insetticidi naturali. Da una posizione utilitaristica possiamo passare a quella estetica, che ha molto a che fare con l’etica: abbiamo il dovere di conservare questo ecosistema per le generazioni future. Infine, c’è un valore strettamente legato alla cultura: possedere un patrimonio di conoscenze naturalistiche arricchisce il modo con cui si interagisce con il mondo che ci circonda. Riconoscere una pianta o un uccello è un patrimonio di conoscenza, come riconoscere un attore, un calciatore, un poeta o uno scrittore».

A maggio 2020 ha firmato, insieme ad altri 400 scienziati e professori, una lettera aperta al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, con dieci proposte per un paese sostenibile dopo il Covid-19. Uno di questi punti è intitolato “Città verdi”, nel quale chiedete uno stop alla cementificazione selvaggia e la promozione di piani per il verde cittadino, compresa la realizzazione di foreste urbane. Dobbiamo smettere di pensare alle città come a qualcosa di totalmente opposto della natura?

«Non si tratta di negare i comfort della vita in città. La qualità della vita è fatta anche di soluzioni tecnologiche. Considerare l’impatto antropico e l’ecosistema originario come due alternative non conciliabili non fa parte della storia contemporanea. Il terzo millennio è tolleranza, integrazione, rispetto tra Homo sapiens e le comunità vegetali e animali con lui coabitanti, simpatriche ma anche simpatiche».

Possiamo immaginare un mondo nuovo post Covid 19 partendo da questa relazione tra la natura e la città?

«A forza di stare chiusi in casa durante la quarantena ci siamo accorti, per esempio, che attorno a noi vivono molte specie di uccelli prima ignote. Ma anche insetti, rettili, piante che con una lente d’ingrandimento rivelano mondi sconosciuti e affascinanti. Senza il rumore del traffico abbiamo potuto rendercene conto. Ci siamo accorti che in primavera sono passate delle specie migratrici, che i piccoli sono usciti dai nidi. Ne siamo usciti più alfabetizzati sulla natura che ci circonda avvicinandoci molto di più ad altre popolazioni, come per esempio quelle del nord Europa, che sanno decifrare meglio di noi l’ecosistema in cui abitano. Mi auguro che il mondo post Covid sia un mondo più slow, che si prende il tempo di accorgersi di queste cose. Birdwatching, lente e guardinghe passeggiate serali o meglio all’alba aprono mondi nuovi, popolati di esseri timidi ma bellissimi. È un punto su cui insisto da tanti anni: l’alfabetizzazione di tutti i cittadini è molto importante. Anche l’Unione Europea a partire dal 2014 ha investito molto sulla cosiddetta ‘citizen science’, che punta a un coinvolgimento maggiore e ben strutturato della cittadinanza nelle decisioni di natura scientifica, attraverso una migliore informazione su queste tematiche. Il mondo post Covid-19 dovrebbe puntare su questo approccio».

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