Ep. 01

Da qualche parte tocca iniziare

Tutto molto bello, per carità, ma da dove possiamo collocare l’inizio della storia dei videogiochi? Facciamo un tentativo.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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I videogiochi sono ormai un pezzo importante della cultura pop. Questa è la loro storia.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Come in ogni storia che si rispetti, prima di arrivare al sodo, alla ciccia, è necessario almeno una parte per capire il come. Provare a collocare un inizio, se vogliamo.

Ecco, questo è il nostro prologo.

Siamo in America, è il freddo inverno del 1939.

Edward Condon è un giovane fisico nucleare, neanche quarantenne. Tra qualche anno prenderà parte al Progetto Manhattan, con tutte le conseguenze che conosciamo. E un giorno, ancora più lontano, un cratere lunare verrà battezzato col suo nome. Al tempo della nostra storia, però, Condon non può neanche lontanamente immaginare queste cose. È impegnato in ben altri progetti. Da qualche mese, a New York, ha infatti preso il via l’Esposizione Universale – il tema è Il mondo di domani.

Serve qualcosa sia per intrattenere i visitatori, sia per flexare macchinari e computer in dotazione a chi fa ricerca per i militari. Le forze armate, si sa, hanno sempre i giocattoli più fighi, e chi ha dei giocattoli fighi è naturale voglia sfoggiarli un po’ ovunque, un po’ come fanno i bambini al parchetto dopo la scuola.

A Edward finalmente viene un’idea. Da ormai qualche anno i computer vengono utilizzati, da prassi, nelle operazioni militari e simili. Quegli enormi scatoloni non hanno alcuna attrattiva particolare per i civili, i non addetti ai lavori.

Ecco. E se iniziassero ad averne? Ma come? Come suscitare interesse in chi, di computer, non capisce assolutamente nulla?

È da questa scintilla che Edward inizia a prendere appunti e scarabocchiare un programma, che ha come base uno dei giochi matematici più antichi e conosciuti. Il non particolarmente complesso, Nim.

Nel Nim abbiamo un numero di oggetti – fiammiferi, nella tradizione – disposti “a piramide” sul campo da gioco, in tot file. Ad ogni mossa, a turno, un giocatore preleva da una fila a scelta il numero di oggetti che desidera. Vince chi riesce a prelevare l’ultimo oggetto dal tavolo.

È più difficile a dirsi che a farsi: tant’è che, ad oggi, il gioco del Nim viene ancora utilizzato dagli studenti di Informatica alle prime armi per imparare alcuni rudimenti di programmazione.

Ecco, Edward scrive un programmino che fa proprio questo: gli oggetti, i bastoncini, sono rappresentati da delle lucette che si accendono e spengono. Un giocatore è il visitatore di turno, ovviamente.
L’altro, è il computer.

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Eccolo qui il nostro Nimatron, bello come il Sole.

La macchina di Edward debutta alla Fiera Mondiale di New York, ed è immediatamente un successo. Possiamo considerarlo tra i primi, se non il primo, rudimentalissimo gioco elettronico della storia – o almeno così viene celebrato ad oggi.

E ha una caratteristica fondamentale, ovvero che l’intelligenza artificiale del computer viene… instupidita. Mica ci aspettiamo che un computer, anche per quegli anni, venga battuto tanto facilmente da un giocatore umano, vero?

Non sarà l’ultima volta che viene utilizzato questo stratagemma dell’instupidire la macchina. Parliamoci chiaro: mica crediamo davvero di riuscire a vincere le partite ai nostri videogiochi, tutt’ora, perché siamo più intelligenti o svelti dell’intelligenza artificiale. Però ci piace pensarlo. E, in questo frangente, certo non vogliamo che i visitatori se ne vadano, frustrati da quell’armadio pieno di valvole che continua a batterli al giochino dei fiammiferi.

Nonostante questo, il nostro giocattolone riuscirà comunque a vincere 9 partite su 10. Non male.

Il Nimatron, questo il nome con cui viene battezzato, acquista una popolarità enorme. Alla Fiera, si snodano file e file di persone attratte dal passaparola e desiderose di sfidare la macchina. Però a un certo punto la Fiera finisce e il Nimatron, terminato il suo compito, non finirà certo a pezzi in qualche stanzone buio e polveroso.

Anni dopo, colto da chissà quale illuminazione, Edward lo apostroferà come il suo “più grande fallimento”. Non per la macchina in sé, quella andava benissimo e aveva un margine di miglioramento enorme. No. Il fallimento di Edward sta nel non averne colto le possibilità (anche economiche) e non averle sfruttate a dovere.

Il giocattolone venne smontato. Fine della Fiera, fine dei giochi.

Ma la storia del Nimatron, vista in prospettiva, è tutt’altro che un fallimento. Pone infatti le basi per quello che accadrà qualche anno dopo. Sta per arrivare il 1941. Tra non molto Pearl Harbor verrà bombardata e il Presidente Roosevelt pronuncerà quello che passerà alla storia come il Discorso dell’Infamia. C’è una guerra da combattere.

Facciamo un salto in avanti.

Dallo smantellamento del Nimatron sono passati diciassette anni, è il 1958. Il Secondo Conflitto Mondiale e la Guerra Fredda hanno dato un bello spintone al progresso scientifico. Il richiamo delle armi e i fischi dei proiettili hanno sempre attratto un bel po’ di soldi e non è certo per spirito filantropico se nel giro di pochi anni in America i fondi destinati alla ricerca sono stati decuplicati.

Nel periodo appena trascorso c’è stato qualche altro timido tentativo di creare dei giochi elettronici.

C’è stato Bertie The Brain, per dire, un rudimentale computer in grado di giocare a Tic-Tac-Toe (il nostro Tris) e che si prenderà un bel calcione dal comico Danny Kaye, che aveva perso troppe partite per i propri gusti. Ideato e costruito da Josef Kates, ingegnere austriaco, presentato all’Esibizione Nazionale Canadese del 1950 a Toronto, anche Bertie verrà smantellato e finirà nel dimenticatoio.

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Qui Kaye sorride sornione dopo aver vinto una partita. Che falso.

Un sacco di soldi per il progresso scientifico, dicevamo: è in questo contesto che, nel 1946, a Long Island viene fondato il Brookhaven National Laboratory. Si tratta di un laboratorio deputato alla ricerca nel settore dell’energia atomica. Funfact: diventerà famoso al punto da venire citato anche in cartoni animati e fumetti.

Ora, la tendenza a flexare i propri giocattoli non è andata scemando con gli anni, anzi. Ogni anno lo staff di Brookhaven organizza delle visite guidate per eventuali visitatori, durante le quali viene allestita una piccola fiera nella palestra della struttura. In questo frangente, ogni dipartimento mette a disposizione dei curiosi un po’ di roba su cui sta lavorando. Una buona occasione anche per fare piccole gare – ed eventualmente sfottersi amichevolmente tra colleghi di diversi dipartimenti, a seconda dei progetti che risultano più interessanti e coinvolgenti per i profani che arrivano da fuori.

A Brookheaven lavora un fisico, William Higinbotham. Anche lui, come Edward Condon, aveva preso parte al Progetto Manhattan, in particolare all’interno del team che si era occupato di ideare il sistema di innesco della bomba atomica. Sarà testimone della prima detonazione, e come molti altri ne uscirà sconvolto.

Nel 1946 fonderà con altri colleghi la Federazione degli Scienziati Americani (FAS), con la quale inizierà ad occuparsi del controllo sulle armi nucleari e portando avanti l’ideale secondo cui l’energia nucleare vada utilizzata unicamente per scopi non bellici.

Dunque, nel 1958 ci si sta preparando all’annuale fiera per i visitatori di Brookhaven.

William ha ricevuto da poco in dotazione un computer analogico Donner 30 dotato di oscilloscopio. Una delle principali funzioni della macchina è quella di essere in grado, tramite un po’ di lavoro, di “creare” e visualizzare le traiettorie di missili, razzi, aerei e quant’altro.

Sarebbe interessante mostrarlo al pubblico. Però c’è un problema che il fisico vorrebbe risolvere.

La fiera non è male e attira un discreto stuolo di curiosi. Ma come aveva a suo tempo intuito Condon per l’Esposizione Universale di tanti anni prima, uno dei suoi più grandi difetti è quello di essere molto poco interattiva. Occorre qualcosa per coinvolgere il pubblico.

William continua a guardare le traiettorie dei razzi virtuali rincorrersi tra loro. Fin quando, ecco il guizzo. Nel giro di una manciata di ore, William scrive un programmino. E dopo qualche settimana è pronta anche una periferica: quello che oggi chiameremmo un gamepad, forse il primo della storia.

Tennis for Two debutta all’esposizione del 18 ottobre 1958 e anche in questo caso è un successo senza pari, suscitando l’ammirazione e, possiamo presumerlo, le invidie dei dipartimenti rivali. Per giorni, all’interno della palestra di Brookhaven si accalcano centinaia di curiosi che vogliono provare il gioco. Una scena abbastanza familiare, col senno di poi.

Come facilmente intuibile, Tennis for Two simula una partita di tennis: una linea centrale sta ad indicare la rete, sopra la quale si vede passare la traiettoria della pallina. Tramite il pad è possibile colpire la pallina, rispedendola dall’altra parte.

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Potremmo stare a guardarlo per un sacco di tempo.

Higinbotham in questo caso non vuole flexare chissà cosa, a differenza di quanto aveva fatto Condon col suo Nimatron: vuole solo presentare qualcosa di (relativamente) semplice e divertente a disposizione di chi visita il laboratorio.

E ci riesce.

Ci riesce al punto che l’anno dopo propone un sequel, che aggiunge la possibilità di cambiare alcune variabili, ad esempio manipolando la forza di gravità in modo che la pallina vada a finire più in alto o più in basso, si muova più piano o più velocemente, simulando ad esempio di star giocando su un pianeta che non sia la Terra.

Un gioco di successo.

Un sequel appena un anno dopo.

La strada è praticamente spianata.

Inizia qui la storia del videogioco.

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