La pasta

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.
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È ormai passata l’idea che una pasta “gialla” sia di buona qualità. In verità, è vero il contrario.

Cibo povero per eccellenza, da mangiare addirittura con le mani, come faceva il popolo a Napoli nell’Ottocento che si sfamava con gli spaghetti venduti per le strade da uno e da due soldi.
Marino Niola, in “Pasta. Le forme del grano”, Slow Food.
Torre Annunziata vive dell’industria delle paste. I grani le giungono dalla Russia su dei piroscafi, trecento lavoratori del porto mettono quei grani a riva; cinquecento mugnai li riducono in semole in quattordici grandi mulini a vapore; ottocento pastai trasformano queste semole in cinquantaquattro pastifici, duecento meccanici, fuochisti e falegnami ne dirigono e riparano le macchine; altrettanti carbonai le forniscono di combustibile dal mare; trecento uomini della carovana di piazza fanno i servizi esterni con carretti a mano; cento carrettieri trasportano le paste a Napoli; cinquanta facchini della ciurma della ferrovia le caricano sui treni... . Le più moderne forme di lotta si affermano qui e si fronteggiano con una classe imprenditoriale il più delle volte con pochi scrupoli, espressione di visioni padronali e paternalistiche.
Gianfranco Nappi, “Frammenti di storia delle civiltà del grano e del pane nel mediterraneo e altri saggi sul cibo all’epoca della globalizzazione”.

Il viaggio che abbiamo percorso lungo la filiera del grano, partendo dai semi, passando attraverso le importazioni e i mulini, ci porta a uno dei prodotti più noti del cosiddetto “Made in Italy”: la pasta. Come abbiamo visto nei precedenti capitoli, senza le importazioni la pasta non esisterebbe: la produzione di grano duro in Italia semplicemente non è sufficiente a soddisfare la domanda. 

 

La maggior parte dei pastifici industriali ha bisogno di grano importato dal Canada, Australia, Kazakistan o altri Paesi, che viene poi miscelato con quello italiano per ottenere la “ricetta” più adatta alle esigenze dell’industria pastaria. E, per ottenere un determinato tipo di semola o farina, i semi devono possedere determinati caratteristiche genetiche. Una di queste, fortemente voluta dal mondo industriale, è l’alta concentrazione di proteine. Questo parametro serve a garantire l’elasticità e la tenacità degli impasti nel processo di lavorazione industriale: le varietà genetiche dei semi sono state sviluppate per avere le caratteristiche richieste dall’industria. Questa dinamica di potere si traduce in un assoggettamento dei produttori agricoli all’industria pastaria. Scrive l’ISMEA nel rapporto Sistemi di rilevazione dei prezzi agricoli: “È, infatti, quasi esclusivamente l’industria pastaria a stipulare contratti di coltivazione direttamente con il produttore, stabilendo a priori il prezzo di acquisto in base a precise caratteristiche qualitative e tecnologiche della granella. Spesso, in questi casi, l’industria fornisce la varietà di semente più adatta alle proprie esigenze e indica al produttore le tecniche di coltivazione per l’ottenimento di specifiche caratteristiche del prodotto finale“.

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I Semi

Lo scopo delle piante selvatiche non è nutrirci, ma diffondere i propri semi. Ma come fanno a farlo liberamente in un regime di oligopolio?

Per capire meglio come funziona un pastificio industriale siamo entrati all’interno dell’azienda Rummo. Nata a Benevento nel 1846 e giunta oggi alla sesta generazione, con circa 160 dipendenti e un fatturato di oltre 170 milioni di euro (26,5% in più rispetto al 2021), Pasta Rummo utilizza grano italiano e grano importato (da Canada, Australia e Arizona, tra gli altri). Esporta invece verso una sessantina di Paesi, in particolare Francia, Svizzera, Spagna, Stati Uniti e Canada. Ogni giorno, sedici autocarri giungono davanti all’ingresso dello stabilimento dove scaricano la semola che, attraverso un impianto automatizzato, viene trasportata direttamente alle cinque linee di produzione, attive 24 ore su 24, sette giorni su sette. Nello stabilimento vicino al fiume Sannio si producono tra i 3700 e i 4300 quintali di pasta al giorno, di vario formato. Il pastificio Rummo è uno dei primi ad aver adottato una certificazione per la “lenta lavorazione” e per la “tenuta in cottura”. 

La certificazione è stata rilasciata da Bureau Veritas, ente francese e leader mondiale nel settore delle certificazioni di qualità – dalle infrastrutture al settore aereonautico, navale e petrolifero fino ad arrivare agli impianti industriali e ai gasdotti. Ogni lotto di produzione è sottoposto a prove di laboratorio e all’assaggio per verificare che rispondano ai parametri certificati. 

“Noi scegliamo grani di alta qualità con un indice di glutine alto, con proteine a 13, 14, fino a 15, affinché possiamo garantire la performance alla cottura” spiega Mauro Pinto, direttore dello stabilimento.

All’interno del pastificio Rummo. Benevento, ottobre 2023. Video di Giuseppe Pellegrino. 
Di cosa parliamo con “lenta lavorazione” e “performance alla cottura”?

L’essiccazione è una fase fondamentale della lavorazione della pasta. La legge n°570 del 1967 e il regolamento 187 del 2001 disciplinano solo alcuni aspetti della lavorazione, come l’utilizzo della semola. Ad esempio, è vietato usare grano tenero per la produzione di pasta secca. La legge però non dice niente sull’essiccazione o sulla temperatura. Se nel 1880 per asciugare gli spaghetti ci volevano 8-10 giorni in estate, nel 1903, con l’avvento dell’essicazione meccanica, i giorni si sono ridotti a 3-5, diventando 24-36 ore nel 1950, quando la temperatura di essiccazione raggiunge circa i 60°. Oggi i macchinari lavorano ad altissime temperature, tra i 90 e i 115°, e dopo 2-3 ore la pasta corta è pronta. Il pastificio industriale Rummo, uno dei pastifici ad avere la certificazione “lenta lavorazione”, parte da una temperatura di 90° per scendere agli 80° e ai 60°, impiegando dalle 5 alle 7 ore di essiccazione a seconda della ricetta. Altri noti marchi invece operano ad alte e altissime temperature, dai 90° in su, con punte fino ai 115°.

Aumentare le temperature di essiccazione comporta una notevole riduzione dei tempi di lavorazione e un risparmio dei costi per l’industria. Produrre un pacco di pasta in 20 ore di lavorazione anziché in 3 fa la differenza. Inoltre, le alte temperature permettono di ottenere buoni risultati anche con semole di scarsa qualità. Ma, è evidente, la pasta essiccata a 60° è diversa da quella lavorata a 115°. Come scrive Roberto La Pira su Il Fatto Alimentarealzando la temperatura durante l’essiccazione, il glutine forma un reticolo ben strutturato in grado di trattenere con facilità, all’interno, le molecole di amido gelatinizzato, e in questo modo la pasta tiene sempre bene la cottura”. Oggi quasi tutte le paste, anche quelle più economiche, difficilmente scuociono: per resistere a quelle temperature di essiccazione servono grani moderni, selezionati proprio per l’alto indice di glutine. Altrimenti, la pasta si spaccherebbe. 

 

Infine, il colore, il marketing e un cibo più povero. Quando si usano alte temperature, il colore della pasta diventa più intenso e scuro per via della reazione di Maillard. Nel caso della pasta è il vero indicatore dell’artigianalità del prodotto: la legge, infatti, non regolamenta le diciture “artigianale” o “lenta essiccazione” e le aziende le inseriscono nelle confezioni a loro piacere. Anche in questo caso, l’industria è riuscita a trasformare un difetto in pregio grazie a marketing e pubblicità, facendo passare l’idea che una pasta “gialla” sia di buona qualità. Ma è vero il contrario: il colore della pasta è giallo intenso questa è cotta ad altissime temperature e ciò significa che vitamine e proteine avranno subito dei danni e saranno impoverite. “È innegabile”, sostiene Giuseppina Tantillo, docente di Ispezioni degli alimenti all’Università di Bari, “che la qualità nutrizionale della pasta sia compromessa dalle alte temperature di essicazione perché un amminoacido essenziale come la lisina viene distrutto”.

All’interno del pastificio Rummo: penne entrano nel macchinario per l’essiccazione. Benevento, ottobre 2023. Video di Giuseppe Pellegrino. 

Dove c'è Barilla c'è business

Parlando di pasta, di filiere e di concentrazione di potere, non si può non guardare alla prima azienda leader al mondo: Barilla G. e R. Fratelli Spa. Secondo il rapporto “Global Pasta Market Report and Forecast 2023-2028”, le aziende chiave del mercato globale della pasta, in ordine di grandezza, sono: Barilla G. e R. Fratelli SpA, Nestle SA, F.lli De Cecco di Filippo Fara San Martino S.p.A., e la russa JSC Makfa.

 

Nel 2022, il mercato globale della pasta ha raggiunto un valore di circa 25,67 miliardi di dollari e si prevede che crescerà del 3,34% tra il 2023 e il 2028, raggiungendo un valore di circa 31,14 miliardi di dollari. Per il gruppo di Parma, il 2022 si è chiuso con 4.6 miliardi di fatturato (+18% rispetto all’anno precedente). Proprio come altri pastifici industriali –  Rummo o De Cecco – l’industria della pasta sorride. Come ha raccontato al Sole24Ore Antonio De Cecco, amministratore delegato dell’omonimo marchio di pasta, il 2022 è stato più che positivo: “In questi giorni chiuderemo il bilancio 2022 a quota 620 milioni, con una crescita del 20% solo nell’ultimo anno”. Mentre i carrelli della spesa sono sempre più cari e 5,6 milioni di cittadini italiani si trovano in povertà assoluta, il 9.7% della popolazione, evidenzia il rapporto “Tutto da perdere” della Caritas, i grandi gruppi industriali del cibo aumentano i profitti e scelgono di delocalizzare le proprie sedi in Paesi a tassazione agevolata. Solo per citarne alcuni: Cargill ha la sede fiscale nello Stato del Delaware (USA), Louis Dreyfus a Rotterdam (Paesi Bassi) e, dal 2024, a seguito di una complessa catena di fusioni e scissioni, la cassaforte di Barilla nei Paesi Bassi controllerà l’intero capitale di Barilla G. e R. Fratelli Spa, sotto la quale confluiranno gran parte delle controllate estere, fino ad oggi in capo alla sussidiaria di Londra, dove ha tuttora sede il polo digitale del gruppo, scrive Il Corriere della Sera.

Mentre il “Made in Italy” è diventato sempre più un brand che permette di ampliare i mercati, sfruttare la globalizzazione e vendere qualcosa che d’italiano e locale ha sempre meno, la multinazionale Barilla G. e R. Fratelli SpA continua la sua crescita e il suo percorso di acquisizione di brand, aziende e prodotti. Ad oggi è presente in oltre 100 Paesi, inclusa la Russia (che non ha mai lasciato, secondo Leave Russia). Nel tempo, Barilla ha acquisito numerosi brand e marchi: le paste messicane Yemina e Vesta, il marchio greco Misko, la turca Filiz, il marchio svedese di pane Wasa, fino alle alle recenti acquisizioni di Back to Nature, brand statunitense specializzato in snack salutari della holding di prodotti B&G Foods, e Pasta Evangelists (il player inglese specializzato nella preparazione di pasta fresca e sughi, con consegna a domicilio, acquisito nel 2021). Non solo: Barilla controlla i marchi Catelli, Lancia, Splendor in Canada e Harry’s in Francia con Barilla France. Ma non c’è solo la pasta. In Italia, oltre al marchio Voiello, Barilla controlla i gruppi Pan di Stelle, Pavesi, Gran Cereale e Mulino Bianco. 

Un’inchiesta del The Guardian e di Food and Water Watch del 2021 ha mostrato come una manciata di potenti aziende controlla la maggioranza delle quote di mercato di quasi l’80% di prodotti alimentari e che la scelta dei consumatori è in gran parte un’illusione, nonostante gli scaffali dei supermercati e i frigoriferi siano pieni di marche diverse. Poche e potenti aziende transnazionali dominano ogni anello della catena di approvvigionamento alimentare: dalle sementi ai fertilizzanti, dai macelli ai supermercati, dai cereali alle birre.

 

Sono inoltre numerosi gli studi che parlano dell’industria della pasta secca come un oligopolio stabile

 

Oltre a questa concentrazione di potere lungo la filiera, c’è un altro elemento, poco conosciuto, che riguarda la struttura societaria di Barilla Holding. L’85% è controllato dall’olandese Barilla International, che fa capo alla quarta generazione della famiglia Barilla, mentre il restante 15% appartiene dal 1979 alla società Gafina del banchiere svizzero Gratian Anda, oggi proprietario della banca privata IHAG, direttore e membro del consiglio di amministrazione di Barilla e socio di decine di società come la Pilatus Aircraft e l’azienda di software Advonum. 

 

Altro dato sulla multinazionale della pasta è la spesa nelle attività di lobbying. Come riporta LobbyFacts.eu, nel 2022 Barilla ha speso tra i 100.000 e i 199.000 euro in attività di lobbying riguardanti il “Piano d’azione per l’economia circolare, in particolare sulle attività di lobby che riguardano le proposte per responsabilizzare i consumatori per la transizione verde, la revisione delle direttiva sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio, la strategia per la protezione della biodiversità e il Green Deal”. LobbyFacts riporta anche i vari incontri tra membri e commissari della Commissione Europea e i lobbisti della società: queste attività di lobbying sono legali ma è interessante notare chi sono i protagonisti e come funzionano le porte girevoli. 

 

È anche interessante notare che Guido Barilla, oltre ad essere direttore di Barilla Holding Spa, ricopre anche il ruolo di “amministratore indipendente” della multinazionale francese Danone SA e di consigliere di Gazzetta di Parma srl, di Gazzetta dell’Emilia, di Publiedi srl, di Radio Tv Parma Srl e di altre società.

L’attività di lobby delle multinazionali non è neutrale.

 

In Francia è stata necessaria una battaglia lunga quattro anni per fare approvare il NutriScore, un’etichetta a semaforo con l’obiettivo di aiutare i consumatori a fare scelte alimentari più sane al momento dell’acquisto.

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L’etichetta NutriScore è stata pensata per semplificare l'identificazione dei valori nutrizionali di un prodotto alimentare attraverso l'utilizzo di due scale correlate: una cromatica divisa in cinque gradazioni dal verde al rosso, ed una alfabetica comprendente le cinque lettere dalla A alla E. Si tratta di un sistema a punteggio sviluppato da un gruppo di ricercatori universitari francesi denominato EREN, Equipe de Recherche en Epidémiologie Nutritionnelle, guidato dal nutrizionista Serge Hercberg.

In Italia l’etichetta – approvata nel frattempo in altri sei Stati, tra cui Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania e Svizzera – non la vuole nessuno, dalle grandi imprese come Ferrero alle associazioni industriali e di categoria come Coldiretti,  riporta il sito Great Italian Food Trade. Ma osservando bene gli scaffali dei supermercati all’estero, già si vendono alcuni prodotti italiani con l’etichetta a semaforo: Barilla France ha adottato il NutriScore sui prodotti da forno venduti con il marchio francese Harry’s, di cui è proprietaria dal 2009. 

 

In Italia invece le lobby industriali e del cosiddetto “Made in Italy” contano più dei consumatori e vantano il sostegno del governo, come riporta un articolo di Le Monde pubblicato il 26 dicembre 2022, “La nuova presidente del consiglio Giorgia Meloni è da tempo contraria al Nutri-Score. Durante l’ultima campagna elettorale l’ha definito un sistema “assurdo”, “discriminatorio” e “penalizzante” per i prodotti italiani. Il vicepresidente del consiglio Matteo Salvini l’ha descritto come una “boiata” inventata dalle “multinazionali” o addirittura un “complotto segreto” ordito dall’Europa contro l’Italia. A Bruxelles il 12 dicembre 2022 il ministro italiano dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, cognato di Meloni, ha tracciato un quadro apocalittico del “modello Nutri-Score”: l’ha associato alla “carne sintetica” (non autorizzata in Europa) e ha affermato che provocherebbe la “desertificazione di interi territori”. I discorsi contro l’etichettatura non sono una novità in Italia. Il fatto nuovo è che ora sono sostenuti dal governo”.

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All'interno di un magazzino di una azienda agricola francese, in Bourgnogne, nell’est della Francia. L'azienda fa parte della cooperativa Dijon Cereals insieme a 3800 agricoltori che conferiscono direttamente alla cooperativa, fornitrice di Barilla-Mulino Bianco. Il magazzino dell'azienda agricola contiene prodotti fitosanitari, erbicidi, e prodotti di sintesi chimica usati in agricoltura. Marzo 2023. Foto: Sara Manisera
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All'interno di un magazzino di una azienda agricola francese, in Bourgnogne, nell’est della Francia. L'azienda fa parte della cooperativa Dijon Cereals insieme a 3800 agricoltori che conferiscono direttamente alla cooperativa, fornitrice di Barilla-Mulino Bianco. Il magazzino dell'azienda agricola contiene prodotti fitosanitari, erbicidi, e prodotti di sintesi chimica usati in agricoltura. Marzo 2023. Foto: Sara Manisera
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All'interno di un magazzino di una azienda agricola francese, in Bourgnogne, nell’est della Francia. L'azienda fa parte della cooperativa Dijon Cereals insieme a 3800 agricoltori che conferiscono direttamente alla cooperativa, fornitrice di Barilla-Mulino Bianco. Il magazzino dell'azienda agricola contiene prodotti fitosanitari, erbicidi, e prodotti di sintesi chimica usati in agricoltura. Marzo 2023. Foto: Sara Manisera
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All'interno di un magazzino di una azienda agricola francese, in Bourgnogne, nell’est della Francia. L'azienda fa parte della cooperativa Dijon Cereals insieme a 3800 agricoltori che conferiscono direttamente alla cooperativa, fornitrice di Barilla-Mulino Bianco. Il magazzino dell'azienda agricola contiene prodotti fitosanitari, erbicidi, e prodotti di sintesi chimica usati in agricoltura. Marzo 2023. Foto: Sara Manisera

La chiamano sostenibilità, si legge greenwashing

Se, da una parte, Fondazione Barilla porta avanti conferenze, campagne e ricerche evidenziando come la crisi climatica rischi di compromettere la produzione alimentare, dall’altra la multinazionale Barilla continua a finanziare media impegnati nella disinformazione climatica. Un esempio è la trasmissione Quarta Repubblica, in onda su Rete 4. Come ha scritto il giornalista Stefano Feltri nella newsletter “Appunti” “guardare Quarta Repubblica aiuta a capire molto di come si fa disinformazione. Ma agli inserzionisti di Mediaset tipo Barilla e Ferrero va bene finanziare questa manipolazione di dati e scienza?”. E aggiunge: “Le aziende che finanziano media impegnati nella disinformazione climatica dovrebbero assumersene la responsabilità. Un esempio: a me che guardo la trasmissione in streaming appare la pasta Voiello, che è un marchio Barilla. Ma davvero alla Barilla non interessa che i suoi prodotti vadano a sostenere il negazionismo climatico? E alla Ferrero, con i suoi Kinder Pinguì, non importa contraddire anni di sforzi sulla sostenibilità per essere associata a questo tipo di contenuti?”. 

 

La chiamano sostenibilità, si legge greenwashing. Negli ultimi anni, Barilla ha portato avanti la creazione di una filiera di grano duro prodotta in Italia – e venduta solo in Italia –  per adattarsi alla domanda dei consumatori. Sul sito si legge che Barilla si è impegnata a stringere dei contratti di filiera con i produttori, che  gli agricoltori adottano la rotazione delle colture, si prendono cura dei suoli e riducono l’uso di concimi chimici. Noi ci crediamo. Nel frattempo, però, per rispondere alla domanda di pasta globale, Barilla deve importare grano duro e tenero – e altre materie prime necessarie ai prodotti dolciari – da altri Paesi dove si continua a coltivare in monocoltura, usando glifosato e concimi di sintesi chimica. La realtà è che Barilla, così come buona parte delle grandi aziende italiane, non potrebbe produrre così tanti biscotti, pasta, crackers senza importare materie prime dall’estero.

Chi controlla la tracciabilità del prodotto?
Come si garantisce che sia realmente sostenibile a livello sociale e ambientale?

Abbiamo provato a contattare l’ufficio stampa di Barilla ma non ha mai risposto alle nostre richieste di intervista. 

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Bourgnogne, est della Francia. Foto di Sara Manisera

Siamo andati nella Bourgogne, nell’est della Francia, per incontrare due produttori di grano tenero fornitori di Barilla-Mulino Bianco. Fanno parte della cooperativa Dijon Cereals insieme a 3800 agricoltori che conferiscono direttamente alla cooperativa. I proprietari, che preferiscono non rivelare la loro identità, possiedono più di 1000 ettari di terreno coltivati a grano tenero, orzo e girasole. Hanno aderito alla Carta del Mulino nel 2021, un disciplinare per la coltivazione sostenibile del grano tenero che prevede la presenza di fiori in campo, la rotazione delle colture e vieta l’utilizzo di glifosato. Chi conferisce a Barilla deve inoltre seminare determinate varietà di grano, richieste dalla multinazionale, affinché la farina sia adatta alle esigenze delle ricette industriali. “In teoria non possiamo mettere glifosato ma in agricoltura tutti fanno quello che vogliono. È un’autodichiarazione. Non riceviamo controlli né da Barilla, né dalla cooperativa anche perchè sarebbe impossibile controllare tutto”, spiega uno dei due proprietari. E alla domanda se i prodotti che usano fanno male al suolo, all’ambiente e alla salute, lui risponde, “sì, ma in questo modo produciamo di più. Né a noi, né a Barilla interessa produrre tutto in biologico perché ridurremmo la produzione e questo significherebbe vendere meno pasta e guadagnare di meno”.

All’interno di un magazzino di una azienda agricola francese, in Bourgnogne, nell’est della Francia. L’azienda fa parte della cooperativa Dijon Cereals insieme a 3800 agricoltori che conferiscono direttamente alla cooperativa, fornitrice di Barilla-Mulino Bianco. Il magazzino dell’azienda agricola contiene prodotti fitosanitari, erbicidi, e prodotti di sintesi chimica usati in agricoltura. Marzo 2023, foto di Sara Manisera.

Questo lavoro è stato ideato e realizzato da Sara Manisera, Bertha Foundation Fellow 2023, con il sostegno di Bertha Foundation e prodotto da Slow News.

Operatore video: Giuseppe Pellegrino

Illustrazioni di: Vito Manolo Roma

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