Le importazioni
L’antica storia comune di grano e umanità, iniziata con la domesticazione dei cereali selvatici da parte dell’uomo, continua oggi dove tutto ha avuto origine 11mila anni fa: in Mesopotamia. Sembra una coincidenza ma forse non lo è.
L’antica storia comune di grano e umanità, iniziata con la domesticazione dei cereali selvatici da parte dell’uomo, continua oggi dove tutto ha avuto origine 11mila anni fa: in Mesopotamia. Sembra una coincidenza ma forse non lo è.
Il 20 marzo 2003 la coalizione internazionale a guida statunitense invase l’Iraq cominciando la Seconda guerra del Golfo: l’intervento fu giustificato come “guerra preventiva”, la solita “esportazione della democrazia”. Saddam Hussein era accusato di possedere armi di distruzione di massa e di nascondere militanti di al-Qaeda: secondo le parole dell’allora presidente George W. Bush, la missione militare Iraqi Freedom avrebbe “combattuto il terrorismo, difeso il mondo da un serio pericolo, esportato libertà, prosperità e laicità”. Da allora, l’Iraq ha subito un intervento militare, l’insorgenza sunnita contro il governo centrale e le forze americane, una guerra civile, l’occupazione di un terzo del Paese da parte di Daesh (l’autoproclamato Stato Islamico) e, più in generale, vent’anni di sofferenze e centinaia di migliaia di vittime civili. È storia del nostro tempo, come la grande menzogna delle armi di distruzione di massa, mai esistite.
C’è un nome, forse poco conosciuto ai più, che collega il passato al presente: Dan Amstutz.
Un mese dopo l’invasione, l’Iraq è nel caos. La banca nazionale dei semi, ad Abu Ghraib, il quartiere di quella che divenne la prigione degli orrori, fu assalita e devastata: quasi nessuna delle 1400 varietà di colture conservate nella banca genetica nazionale di Abu Ghraib è sopravvissuta. Fin dagli anni Settanta, la banca dei semi irachena ha raccolto e conservato una collezione dei più antichi semi addomesticati, un patrimonio di biodiversità unico e prezioso per l’umanità grazie alle caratteristiche genetiche contenute in quei semi, adattati ed evoluti, nel corso dei millenni, a condizioni estreme di calore e siccità. Solo la lungimiranza di alcuni scienziati iracheni è riuscita a salvarne alcune varietà: grani, ceci, lenticchie e frutta. Sette anni prima del marzo 2003, infatti, furono loro a spedirne una copia all’Icarda – il Centro internazionale per la ricerca agricola nelle zone aride – ad Aleppo, in Siria.
Gran parte del patrimonio genetico iracheno è andato completamente perduto. E, con esso, macchinari e attrezzature, compresi gli impianti di lavorazione delle sementi. Oltre alla distruzione della banca dei semi, l’Autorità Provvisoria della Coalizione (CPA), istituzione creata dagli Stati Uniti per governare l’Iraq occupato e guidata da Paul Bremer, emanò una serie di ordinanze volte a privatizzare l’economia e aprire agli investimenti stranieri, veri e propri ordini imposti dall’alto al popolo iracheno. Tra questi c’è l’ordine 81 del 2004 che proibisce agli agricoltori iracheni di riprodurre i semi da un anno con l’altro, aprendo a multinazionali come Monsanto, e la nomina di Dan Amstutz, ex-dirigente Cargill (azienda statunitense, il più grande esportatore globale di cereali), a responsabile della ricostruzione dell’agricoltura in Iraq. A indicare il suo nome fu la segretaria all’Agricoltura Ann Veneman, ex membro dell’International Policy Council on Agriculture, Food and Trade, finanziato da Cargill, Nestlé, Kraft e Archer Daniels Midland, attualmente nel consiglio di amministrazione di Nestlé.
Per ricostruire l’agricoltura in Iraq, il governo Bush scelse un uomo gradito all’industria dell’agribusiness. Amstutz è stato dirigente e presidente di Cargill Investor Services, partner di Goldman Sachs&Company, sottosegretario all’Agricoltura per gli Affari Internazionali durante il primo governo Bush e principale negoziatore statunitense per le questioni agricole nell’ambito dell’Uruguay Round del GATT, l’accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio che diventerà WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Per capire chi è e cosa fa Cargill bisogna fare un salto indietro nel tempo.
A metà Ottocento, a guerra civile americana conclusa, la vittoria del Nord abolizionista sul Sud schiavista portò alla liberazione di masse di operai: migliaia di persone emigrarono, nuovi territori furono scoperti e iniziarono ad essere costruite nuove infrastrutture. Desideroso di entrare a far parte della nuova frontiera del business, William Wallace Cargill lasciò la casa di famiglia nel Wisconsin per trasferirsi a Conover, una cittadina fantasma nell’Iowa. È qui che nel 1865 acquistò ed organizzò il primo deposito di cereali, accanto alla stazione ferroviaria locale: Cargill offriva agli agricoltori un locale per lo stoccaggio del grano, evitando che questo marcisse in campo in attesa di essere venduto, e iniziò a comprare direttamente il grano dopo il raccolto per rivenderlo, prendendo una commissione. Prima di lui, i produttori si indebitavano nella speranza di un buon raccolto, con il rischio di perdere tutto se gli affari fossero andati male. Cargill intuì che la domanda di grano nelle grandi città era in aumento ma che l’intero raccolto si trovava in aree rurali remote, spesso a migliaia di chilometri di distanza dai consumatori. La logistica e il commercio di materie prime stavano diventando un settore chiave e, nei successivi vent’anni, William Wallace Cargill e i suoi fratelli seguirono lo sviluppo della rete ferroviaria: costruirono, affittarono, acquistarono magazzini e granai in punti strategici, creando punti di vendita al dettaglio su nuove tratte. Nel 1870 Cargill si spostò ad Albert Lea, nel Minnesota, vicino al fiume Mississippi, e cinque anni dopo si mosse verso il corridoio costiero del Wisconsin, dove affittò un grande silos a Green Bay, scelta che gli permise la spedizione delle merci fino a New York, attraverso i Grandi Laghi e il Canale Erie. Nel 1890 Cargill possedeva già un centinaio di magazzini in grado di ospitare circa 4,3 milioni di tonnellate di grano. Poi arrivò il commercio oltreoceano.
Con Cargill in crescita gli agricoltori si trovarono sempre più alla mercé di mercanti e intermediari. La Lega Apartitica del North Dakota iniziò a protestare per gli alti costi di trasporto e per la difficoltà di accesso al credito da parte degli agricoltori, invocando politiche pubbliche improntate a “rendere di pubblica gestione gli elevatori, i terminali, i mulini e i magazzini”, richieste che ottennero il sostegno degli agricoltori del Nord Dakota e una vittoria alle elezioni del 1916. La popolarità del programma politico si riversò rapidamente nel vicino Minnesota: allo scoppio della Prima Guerra Mondiale questi diventò un territorio di produzione importante nel commercio nazionale di cereali. In una lettera del 1919 al presidente del Chicago Board of Trade, l’amministratore delegato di Cargill John MacMillan scrisse:
La preoccupazione di MacMillan svanì presto: la Prima Guerra Mondiale segnò il rafforzamento dei rapporti tra i commercianti e lo Stato. La domanda di cereali dall’Europa esplose.
MacMillan fu eletto Presidente nazionale del Consiglio delle Borse del Grano, l’organizzazione centrale che rappresenta le quindici borse del grano più importanti degli Stati Uniti. Il primo grande scandalo, Cargill lo affrontò già durante la Prima Guerra Mondiale, quando venne accusata di profitto di guerra.
Alla fine degli anni Trenta, Cargill fu sospesa dal Chicago Board of Trade, la più antica borsa per futures, per comportamento scorretto sugli acquisti, ma continuò a crescere ad una velocità notevole: negli anni Venti avviò un’ambiziosa strategia di espansione denominata “Endless belt”, cintura infinita, un sistema logistico avanzato per “controllare il movimento del grano dal momento in cui lascia l’agricoltore fino a quando raggiunge l’acquirente finale”. Durante la Seconda Guerra Mondiale, i rapporti tra Cargill e Washington si intensificarono: la Marina affidò all’azienda la costruzione di navi da carico oceaniche, operazione che la rinforzò e le permise un’ulteriore espansione: dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, le esportazioni di cereali sono cresciute, a livello globale, grazie all’aumento della produttività agricola degli Stati Uniti, favorita anche dallo sviluppo della chimica di sintesi (vedi capitolo Semi). Il Midwest diventa una fonte globale di cereali.
L’antica storia comune di grano e umanità, iniziata con la domesticazione dei cereali selvatici da parte dell’uomo, continua oggi dove tutto ha avuto origine 11mila anni fa: in Mesopotamia. Sembra una coincidenza ma forse non lo è.
In natura non esiste niente di uguale ma le nostre farine sono sempre più standardizzate.
È ormai passata l’idea che una pasta “gialla” sia di buona qualità. In verità, è vero il contrario.
Lo scopo delle piante selvatiche non è nutrirci, ma diffondere i propri semi. Ma come fanno a farlo liberamente in un regime di oligopolio?
Tra il 1955 e il 1965, le esportazioni di cereali di Cargill sono aumentate del 400% e le vendite annuali hanno toccato i 2 miliardi di dollari. Accumulando capitale, e con l’aiuto dello Stato, l’azienda ha avviato il modello di espansione, discreto ma spietato, che l’avrebbe resa famosa: dal 1865, Cargill è diventata la più grande azienda privata degli Stati Uniti per fatturato, presente in 70 paesi con 155 mila dipendenti e 165 miliardi di dollari di incassi nel 2022.
Uno dei maggiori fornitori di alimenti e materie prime al mondo, dalle uova per McDonald’s al cioccolato per i marchi più noti, dalla carne alla soia, dallo zucchero al caffè. Fino alla farina per pasta, biscotti e merendine.
L’esigenza che aveva portato alla creazione del Chicago Board Of Trade (CBOT) era quella di far incontrare le controparti riducendo le oscillazioni dei prezzi, poter stabilire in anticipo il prezzo per una determinata materia prima metteva al riparo da oscillazioni improvvise dei prezzi. I primi scambi erano di contratti forward (compravendite a termine) che avevano il difetto di non eliminare il rischio di credito poiché non era garantito che le controparti onorassero il contratto. Ma questo non era il solo problema dei primi contratti forward: la titolarità del contratto ne impediva un facile trasferimento e questo grosso limite alla liquidità del mercato ha portato all’ideazione del primo contratto forward standardizzato. Poi furono ideati i contratti futures, uno strumento che permetteva di comprare e vendere un prodotto a un determinato prezzo, anche senza ritirarlo o consegnarlo.
Nella realtà i futures sono trattati anche da chi non deve consegnare ma desidera sfruttare l’andamento del mercato, un terreno fertile per la speculazione: se alla scadenza del future non vi sono operazioni compensative tra chi ha comperato e chi ha venduto, la parte che ha venduto può “forzare” la parte che ha comperato ad accettare la consegna, così come la parte che ha acquistato può “forzare” la parte che ha venduto ad effettuare la consegna. Con la Prima Guerra Mondiale il governo USA fu costretto a vietare il trading sui future con lo scopo di stabilizzare i prezzi: il divieto durò ben tre anni ma fu inefficace, i prezzi subirono ugualmente violente oscillazioni fino alla ripresa delle negoziazioni, quando i prezzi presero una ben precisa direzione: crollarono!
Il governo USA tentò di regolamentare i futures e nel 1932 emise il Grain Futures Act, e in seguito il Commodity Exchange Act (anno 1936) che sostituiva la precedente regolamentazione. Si volle porre un freno agli speculatori che manipolavano il mercato con una pratica chiamata “cornering the market”: la soluzione fu di limitare la quantità massima di contratti che un singolo soggetto poteva mantenere aperti.
Nel video, il porto di Ravenna. Scarico di una nave da 30mila tonnellate di grano proveniente dal Canada. Luglio 2023. Immagini di Lorenzo Laderchi. Montaggio di Arianna Pagani.
Alcuni del settore le chiamano “le multi”. Altri le chiamano il “gruppo ABCD”. Per i non addetti ai lavori, dietro la sigla “ABCD” ci sono le multinazionali dell’agroindustria più importanti al mondo: le statunitensi Archer Daniels Midland, Bunge, Cargill e la franco-svizzera con base in Olanda Louis Dreyfus Company. Negli ultimi anni, nella lista dei più grandi commercianti di materie prime si sono aggiunte la cinese Cofco, diventata la seconda al mondo dopo Cargill, la Wilmar di Singapore e anche Viterra, controllata dalla multinazionale Glencore, che nel giugno 2023 ha annunciato una mega fusione con Bunge per far nascere un altro gigante del commercio agricolo globale, dal valore di circa 34 miliardi di dollari.
Semplificando, il compito di queste aziende è comprare, stoccare, trasportare, costruire infrastrutture portuali, trasformare e vendere commodities alimentari da una parte all’altra del mondo. Le commodities, nel nostro caso, sono materie prime alimentari che si scambiano sul mercato, immagazzinabili e conservabili nel tempo. Prodotti standardizzati, anonimi, senza identità, né legami con il territorio dove sono coltivati. Merci: si comprano in grandi quantità, in anticipo anche di tre, sei, dodici mesi, si stoccano in magazzini, granai, o silos e poi viaggiano su navi di medie e grandi dimensioni arrivando ovunque nel mondo.
Il cibo ha sempre viaggiato nella storia dell’umanità e il libero mercato ha accelerato gli scambi su larga scala permettendo, da un lato, un accesso maggiore a una più grande varietà di prodotti, dall’altro una maggiore crescita economica. Tuttavia, dagli anni Ottanta la deregolamentazione dei mercati finanziari e lo sviluppo dei mercati derivati hanno fortemente condizionato scambi e prezzi di materie prime e beni di prima necessità, come il cibo. Le scelte politiche messe in atto nei paesi a basso reddito dalle istituzioni finanziarie internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, tramite una serie di Piani di Aggiustamento Strutturali hanno orientato l’economia di questi verso una privatizzazione sempre maggiore che ha favorito spesso le grandi corporation globali.
L’agribusiness ha spinto a ribasso i prezzi delle commodities alimentari, mettendo in concorrenza tra loro i paesi di produzione e favorendo un sistema agricolo basato su monocolture e manodopera a basso costo, marginalizzando l’agricoltura tradizionale e la biodiversità. Le politiche di aggiustamento strutturale del debito hanno imposto un modello di sviluppo basato sulla crescita della bilancia commerciale a scapito di produzioni agricole orientate al mercato interno.
Oggi, Paesi che storicamente hanno sempre prodotto grano, come la Tunisia, il Libano, l’Egitto solo per citarne alcuni, hanno abbandonato gran parte delle colture tradizionali e non riescono a soddisfare il loro fabbisogno. L’Egitto, paese a demografia positiva, ad esempio importa l’80% del suo fabbisogno cerealicolo da quando la logica della fabbrica globale di cibo ha spezzato molti circuiti di produzione interni, assoggettando pezzi sempre più grandi di territorio alla logica delle monocolture e portando all’accaparramento di terra da parte di multinazionali e corporation. Si produce per l’export più che per assicurare cibo agli abitanti dei territori che lo producono.
Come spiega a Slow News Silvie Lang, responsabile del dipartimento soft commodities di Public Eye, organizzazione non governativa indipendente con sede in Svizzera che monitora le violazioni dei diritti umani e dell’ecosistema delle principali multinazionali, “dietro ABCD ci sono aziende molto potenti che controllano il commercio globale di diverse materie prime, come i cereali, il cacao, la soia o il caffè. Sono fortemente integrate e controllano tutto: possiedono piantagioni, hanno capacità di stoccaggio e controllano la logistica. Cargill, ad esempio, ha una flotta di 700 navi che utilizza per le proprie attività, ma anche per terzi. Inoltre, questi giganti hanno iniziato a controllare i settori della lavorazione e della produzione. In pratica sono i veri gestori della catena del valore delle materie prime agricole, ed è per questo che è scorretto definirli semplici commercianti”.
Secondo il rapporto pubblicato nel 2022 dall’ETC group, un gruppo di ricerca indipendente che si occupa di agricoltura e controllo democratico delle tecnologie, i profitti di questi colossi sono esplosi negli ultimi due anni: solo Cargill ha registrato un aumento del 23% dei ricavi, toccando la cifra record di 165 miliardi di dollari per l’anno 2022, mentre Archer Daniels Midland ha realizzato i profitti più alti dalla sua fondazione nel 1902. “È stato calcolato che dal 2020, dall’inizio della pandemia, la famiglia che controlla Cargill, composta da 8 ultramiliardari, si è arricchita di 20 milioni di dollari al giorno. Mentre le persone non possono permettersi il cibo, questa è l’azienda che sostiene di nutrire il mondo”, dice Silvie Lang.
Anche il rapporto dell’International Panel of Experts on Sustainable Food Systems (IPES), evidenzia la concentrazione di potere nel commercio mondiale di cereali e la mancanza di trasparenza, che si traducono in una catena di approvvigionamento poco resiliente e soggetta a diversi shock: la pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina ne sono l’esempio più recente.
La segretezza dei trader è parte integrante del loro modello di business.
Slow News ha provato a contattare tutte queste multinazionali attraverso i loro uffici stampa. Hanno tutte declinato la richiesta d’intervista. Jochen Koester, dell’azienda di intermediazione di materie prime Agrotrace con sede a Ginevra, ha accettato di parlare con noi. Per lui, che lavora proprio con Cargill o Dreyfus, queste società sono necessarie a sfamare il mondo, garantire il trasporto e la logistica delle materie prime da una parte all’altra del globo. «Non esiste una soluzione alternativa. Queste società sono necessarie. Possiedono silos, navi, magazzini perché così forniscono un servizio più economico. Ovviamente fanno i loro profitti ma è normale che sia così. A volte si dice che queste grandi società commerciali influenzano le cose. Sì, certo influenzano le cose. Ma non credo che causino distorsioni. Sono come le compagnie petrolifere. Causano distorsioni? Certo che no!».
Eppure, tutte queste società sono state al centro di scandali ambientali e umanitari (ne parleremo nell’ultimo capitolo di questa serie) ma, pur essendo fondamentali per l’approvvigionamento di cibo, sono sconosciute ai più. «La maggior parte delle persone non conosce il nome Cargill, Cofco o Bunge. Anche se sono enormi, anche se ogni ingrediente che finisce sulle loro tavole arriva grazie a loro, nessuno le conosce», dice Koester.
Il 5 maggio 2023, al Palazzo del Ghiaccio di Milano, si è tenuta la fiera CEMI, uno degli appuntamenti più importanti dedicato alle agrocommodities: organizzato dall’associazione Granaria e sponsorizzato dalle aziende come Cargill, Bunge, Viterra, CerealDocks e Intesa San Paolo, ha visto la partecipazione di oltre 600 persone tra importatori, broker, commercianti, mangimisti, trasformatori e mulini. Su 700 partecipanti, 15 persone, al massimo 20, sono donne. Gli altri sono uomini di mezza età, colletti bianchi poco inclini a parlare con i media.“Il mercato è molto volatile e si è imbarbarito. Si sono creati mercati paralleli. In due mesi i prezzi sono collassati perché è arrivata la merce dell’Ucraina. Non sai cosa compri, non sai che qualità arriva. Ma tutta questa roba finisce nelle nostre pance”ci ha spiegato un dipendente di Cofco in condizione di anonimato. Le multinazionali del commercio di materie prime “sono molto potenti” ma “non esistono cartelli perché sono società molto avide”. Di altro avviso è un dipendente italiano della multinazionale statunitense Bunge, principale importatore di soya OGM e non-OGM in Italia, destinata all’industria mangimistica: “So bene che queste multinazionali hanno degli impatti sulla deforestazione ma senza di loro non avremmo i famosi prosciutti esportati in tutto il mondo, o i formaggi. L’Italia non ha né soya, né mais a sufficienza per sfamare polli e maiali e lo stesso vale per il grano che serve a fare la pasta”.
I dati delle importazioni e delle esportazioni ci aiutano a comprendere quanta retorica ci sia dietro il “Made in Italy”: per fare in Italia la pasta e gli altri prodotti esportati in tutto il mondo con il marchio “Made in Italy”, infatti, servono materie prime importate, a partire dal grano duro o tenero, proveniente da Canada, Francia, Stati Uniti, Ucraina, o dai mangimi e dalle farine per nutrire gli animali allevati nei distretti agroalimentari italiani della pianura padana o dell’Emilia Romagna.
Gli stessi attori della filiera ci confermano la dipendenza dell’Italia dalle importazioni di materie prime. Paolo Mantovani è socio di MantoMed, azienda di intermediazione di materie prime, e ha oltre 40 anni di esperienza nel settore dei cereali e dei mangimi. Lo incontriamo alla fiera CEMI, a Milano: “L’import di grano in Italia serve al nostro export di pasta. Noi siamo un paese di trasformatori e per quanto ci siano parti politiche o agricole che continuano a parlare di Made in Italy, la verità è che noi siamo trasformatori, non produttori”.
Parliamo dei migliori mugnai, norcinari, pastai, alimentaristi al mondo, ma resta impossibile esportare pasta italiana nel mondo fatta solo con grano italiano.
Sandro Alberti, presidente dell’Associazione Granaria di Milano che riunisce imprese, multinazionali, mangimisti, e tutti gli attori operanti nel settore agroalimentare, è proprio di quest’avviso: “Attualmente importiamo merce OGM da Brasile, Argentina e altri paesi, destinata ai mangimi animali.. È chiaro che se noi usassimo semi OGM in Italia aumenteremmo la produzione ma abbiamo fatto una scelta. Io credo che non possiamo pensare di dipendere solo dall’estero perché se arriva uno che chiude il Bosforo per via della guerra, noi in Italia ci ritroviamo in braghe di tela, come è capitato. Inoltre, sappiamo che i fondi finanziari sono in grado di influenzare il mercato in modo massiccio, speculando sulle commodities, incluso il grano. Il modo per frenare questa speculazione? Un tempo c’era l’ammasso pubblico”.
Se da una parte c’è chi auspica un ritorno più massiccio dello Stato nella gestione di certe materie prime, dall’altra c’è chi difende la massima libertà del mercato. Nel mezzo, come raccontato da alcune inchieste internazionali, ci sono manovre finanziarie, poco trasparenti, non collegate alla produzione di cibo. Il 7 marzo 2022, mentre il grano raggiungeva il prezzo più alto di sempre, a causa dell’invasione della Russia in Ucraina e il conseguente blocco dei porti, il team di gestione patrimoniale di JP Morgan incoraggiava i clienti a investire sui fondi agricoli e sulla scommessa del rialzo dei prezzi. Tra gennaio 2020 e la fine del 2022, le società di investimento specializzate hanno aumentato dell’870% i propri acquisti con finalità speculative su questi mercati e quasi un terzo delle posizioni di acquisto sarebbe oggi nelle mani di società di investimento. Soggetti che, va ricordato, non hanno nulla a vedere con la produzione o commercializzazione del cibo. “Società di investimento come Black Rock, Vanguard, State Street, che gestiscono anche fondi pensionistici dei lavoratori hanno come unico obiettivo la crescita e la massimizzazione del profitto e spingono quindi in quella direzione anche con manovra azzardate e poco trasparenti”, spiega a Slow News Pat Mooney, esperto di diversità agricola, biotecnologie, co-fondatore e direttore esecutivo del gruppo di ricerca indipendente ETC: “Queste società, inoltre, hanno dichiarato di volersi ritirare dagli impegni annunciati sul cambiamento climatico perché non possono garantire profitti agli azionisti. Ma mentre loro fanno profitti, migliaia di persone muoiono di fame”.
Nel 2022, il mondo ha registrato i tassi di inflazione più alti degli ultimi 40 anni, con l’inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari che è stata ancora più alta. Nel marzo 2022, l’indice dei prezzi alimentari della FAO ha registrato il valore di 159,7 e, benché il prezzo internazionale degli alimenti sia in calo, resta ai livelli più alti di sempre.
Negli ultimi anni, le interruzioni delle catene di approvvigionamento sono state imputate a diversi fattori: all’impennata dei prezzi, alla pandemia, alla guerra in Ucraina e alle interruzioni delle forniture di petrolio, gas, fertilizzanti e beni di prima necessità, ma anche al ripetersi di eventi meteorologici estremi che hanno compromesso la produzione alimentare in tutto il mondo.
Tuttavia, anche in presenza di una produzione alimentare adeguata e di livelli di scorte che soddisfano la domanda globale, insieme al calo del prezzo internazionale del petrolio e del gas tra il 2020 e l’inizio del 2023, l’indice generale dei prezzi alimentari resta superiore del 14% rispetto al 2021: una una crisi strutturale del stesso sistema agroalimentare industriale globale, troppo concentrato, finanziarizzato e ultra-specializzato. L’attuale sistema alimentare industriale si è dimostrato altamente inefficiente nell’affrontare le sfide energetiche, sanitarie, ecologiche e alimentari del nostro tempo: si basa sull’uso di petrolio e gas, dipende da grandi volumi di fitofarmaci e fertilizzanti utilizzati nella coltivazione di monocolture e nei trasporti a lunga distanza, necessari al funzionamento di questa macchina globale di cibo.
Lo scarico del grano al porto di Ravenna. Giugno 2023. Video di Giuseppe Pellegrino.
Il porto di Ravenna è il più grande porto cerealicolo e delle materie prime attinenti a zootecnia e agroindustria in Italia. Qui approdano semi, cereali e farine da tutto il mondo. In un torrido mattino di inizio luglio, ferma alla banchina della Docks Cereali Spa, il più grande terminal del Mediterraneo per lo stoccaggio e la movimentazione di merci secche, inclusi i cereali, c’è una nave carica di 40.000 tonnellate di grano proveniente dal Canada, destinata per metà a Barilla e per metà alla multinazionale Viterra. “È grano di alta qualità” dice Roberto Rubboli, uno dei responsabili temporanei dell’azienda, ex-presidente della compagnia portuale: “È un grano che risponde alle specifiche richieste dell’industria, ovvero la standardizzazione del prodotto”.
Ci vogliono circa sei giorni per scaricarla. Decine di treni e centinaia di camion sono pronti per la logistica: ogni treno può trasportare circa 1000 tonnellate di merci e ogni camion 30 tonnellate. Questi mezzi raggiungeranno i mulini, le aziende agricole, i trasformatori. Il porto di Ravenna ha un valore storico, legato soprattutto ad aziende avicole, come Aia e Amadori, suinicole e, ovviamente, a chi fa la pasta.
Dal Canada, e da altri paesi, come Francia, Russia, Ucraina, Kazakistan, arriva il grano che sarà trasformato in pasta. La quale, a sua volta, sarà impacchettata ed esportata dall’altra parte del mondo: un sistema agricolo industriale globalizzato, basato su monoculture, abbondanza, spreco e standardizzazione del cibo. Cibo che, secondo qualcuno, “sfama il mondo”: è la FAO a ricordare che la fame colpisce 735 milioni di persone, 122 milioni di persone in più rispetto al 2019.
Tra il 2007 e il 2008, l’aumento dei prezzi delle materie prime alimentari, in particolare cereali causò una crisi alimentare: rivolte contro il “caro cibo” scoppiarono in Egitto, Filippine, Camerun, Haiti fino ad arrivare alle primavere arabe del 2010-2011.
E oggi?
Quindici anni dopo, poco è cambiato: il settore agroalimentare resta in mano a pochi attori dotati di un enorme potere economico e politico, le legislazioni antitrust non sono adatte a riconoscere e a limitare tale potere e le politiche degli ultimi 30 anni continuano ad impoverire e rendere dipendenti dalle importazioni molti paesi del Sud globale.
Questo lavoro è stato ideato e realizzato da Sara Manisera, Bertha Foundation Fellow 2023, con il sostegno di Bertha Foundation e prodotto da Slow News.
con la collaborazione di: Andrea Carcuro (Scomodo)
Immagini di: Arianna Pagani e Lorenzo Laderchi
Copertina: Vito Manolo Roma
Grafici, elaborazione e visualizzazione dati, schemi: Alberto Puliafito
Editing: Andrea Spinelli Barrile