Meno di un metro
Cosa è accaduto nelle strutture a carattere familiare che ospitano persone con disabilità durante il primo lockdown?
Con la pandemia le famiglie delle persone con disabilità sono rimaste di colpo più sole.
I disabili non esistono. Esiste la segregazione.
Sono passati già dieci giorni da quando Giuseppe Conte, con un decreto sottoscritto la sera del 9 marzo 2020, ha dichiarato l’intero Paese zona protetta. Da quando #iorestoacasa ha rotto la bolla dei social ed è diventato l’unico mezzo reale a difesa dell’avanzata del Covid-19. Eppure quel divano rovinato, quel divano con la stoffa leggermente strappata, continua a restare lì, nell’androne che precede la piscina del quartiere Olgiata, a Roma.
Arianna, 25 anni, autistica con tratti ossessivi compulsivi, non ha la forza per capire che non può andare a mettere un copridivano, simile a quello di casa sua, sul sofà all’ingresso della piscina dell’Olgiata, che frequenta da sempre. «In realtà per lei era un pretesto: stava tentando a tutti costi di ritornare in piscina. Un incubo. Per 10 giorni di fila l’abbiamo dovuta portare fuori dalla piscina per farle vedere il cancello chiuso. L’interruzione dell’abitudine per Arianna è insopportabile», spiega la mamma, Marina Morelli.
Marina ha oggi 57 anni. A 22 scopre di avere una figlia autistica, Chiara, e un matrimonio che vacilla. È impreparata ma giovane; e così, in breve tempo, riesce a ricostruirsi una famiglia: un nuovo compagno e un’altra bambina, Arianna. Ma un’altra diagnosi arriva a sconvolgere la sua nuova serenità familiare: Arianna ha una forma grave di disturbo dello spettro autistico. «Non sono mai disperata», mi dice, «ma ci sono momenti in cui vivi l’esperienza del limite. Momenti in cui, se non si ha chiaro in mente che la persona davanti a te ha un dolore vero dentro, non è possibile starle vicino».
Marina non si è disperata neanche quando, nei giorni del lockdown, lei e le sue giovani figlie autistiche non potevano mettere il naso fuori di casa, mentre era consentito portare fuori il cane per chi l’avesse. Eppure, dice, «è stata una follia». «Neanche l’ora d’aria. Libero accesso ai parchi comunali e alle spiagge per le persone con disabilità, ripetevo a voce alta: tanto a noi non si avvicina nessuno, siamo abituate alle uscite in solitaria. Invece, nessuno parlava di noi, un silenzio e un abbandono che rendeva la nostra una folle responsabilità. E dire che il carico era già così insostenibile».
Nel Lazio i centri diurni sono stati chiusi il 12 marzo 2020, ma Marina già da una settimana aveva deciso di non mandare più Chiara all’Istituto “Leonarda Vaccari” e Arianna al centro di riabilitazione di Santa Maria della Pietà: «Era impossibile rispettare la distanza». E se Arianna ha voluto vedere con i suoi occhi i negozi chiusi e Marina, nonostante non si potesse uscire, alle 11 di sera l’ha assecondata, «altrimenti in casa sarebbe stato un macello», l’altra figlia, Chiara, 35 anni, ha dimostrato una consapevolezza e una capacità di adattamento inaspettate. «Non credevo che mia figlia avesse questo tipo di risorse interne, alle quali ha potuto attingere – è assurdo a dirsi -, solo grazie alla pandemia».
«Mamma, io ho capito quello che sta succedendo, perché tu mi spieghi le cose profondamente», le ha detto Chiara, mentre era alle prese con uno dei suoi arcobaleni. Chiara disegna arcobaleni sui fogli, sulle tazze, molto tempo prima di quelli appesi alle finestre e ai terrazzi d’Italia con la scritta Andrà tutto bene. Durante le giornate infinite in casa, Chiara, sempre supportata dalla madre perché «da sola non avrebbe retto», ha partecipato anche a delle videochiamate di gruppo. Il risultato è stato “Il leone Pelo e gli amici dello ZOO”, un libro illustrato che dovrebbe essere pubblicato a breve.
Il 17 marzo 2020, il Consiglio dei Ministri approva il #CuraItalia e l’articolo 47 del decreto sembra essere scritto per Arianna e per le persone come lei, quelle che richiedono interventi “non differibili”. L’articolo recita: “L’Azienda sanitaria locale può, d’accordo con gli enti gestori dei centri diurni socio-sanitari e sanitari di cui al comma1, attivare interventi non differibili in favore delle persone con disabilità ad alta necessità di sostegno sanitario, ove la tipologia delle prestazioni e l’organizzazione delle strutture stesse consenta il rispetto delle previste misure di contenimento”.
Ed è quel “può” che fa la differenza per Marina e per tutti i caregiver d’Italia, cioè quelle famiglie che si occupano di una persona disabile 24 ore su 24. La maggior parte dei centri diurni, a causa della rigidità di protocolli, convenzioni, accreditamenti, autorizzazioni, non è infatti intervenuta, se non con qualche videochiamata, per supportare le famiglie, di colpo ancora più sole.
«In un momento di tale instabilità, abbiamo visto quanto il sistema dell’assistenza per le persone fragili sia statico. A Roma alcuni enti accreditati hanno fatto qualche intervento domiciliare, ma sono stati rarissimi. Arianna, in quanto ‘caso indifferibile’, è stata seguita due volte a settimana dalla Asl RM1. Venivano a prenderla e la portavano a Santa Maria della Pietà, dove hanno tanti spazi, e lì faceva un po’ di ginnastica. Certo, il progetto riabilitativo in sé è stato interrotto ma, grazie a questi interventi esterni, Arianna ha riacquistato un minimo di equilibrio».
Negli ultimi 35 anni, Marina ha visto tanta gente sparire dalla vita sua e da quella delle sue ragazze. Anche i padri hanno rifiutato di avere una relazione con le figlie, del resto «succede quasi sempre che quando arriva un figlio disabile c’è soltanto uno che se ne fa carico veramente». Ma l’isolamento, in quei giorni, pesa ancora di più e i telegiornali e le conferenze stampa della Protezione Civile alle 18 sembrano bollettini di guerra. «E in tempo di guerra si salvi chi può! Le mie figlie ed io ci salveremo dal contagio? Se il Coronavirus ci contagiasse, come potrei gestire la mia situazione familiare?», è la domanda di Marina.
Domanda dietro alla quale ce n’è un’altra, più profonda, ancora più carica di angoscia, che Marina sceglie di lasciare nell’aria, di non dire ad alta voce. In quei giorni sono molti gli ospedali, dalla Lombardia all’Abruzzo passando per il Veneto, in cui mancano i respiratori. E oltreoceano, dallo stato dell’Alabama a quello dello Utah – la notizia, ripresa anche da diversi quotidiani italiani, è del 25 marzo 2020 -, i medici hanno ricevuto precise indicazioni: sono stati chiamati a scegliere chi attaccare a un respiratore e chi no. «Noi vogliamo credere che i nostri figli saranno rianimati», dice Marina, e fa una pausa. «Certo, in rianimazione con loro, non ci possiamo essere. Però, se vengono ricoverati, sappiamo bene che questi ragazzi da soli non stanno buoni. E può capitare che vengano legati al letto: questi casi ci sono, anche se nessuno vuole sentirselo dire. Magari ‘legati per il loro bene’, come ci viene detto. Quello che sto cercando di dire è che bisognerebbe pensare a tutte queste situazioni».
Per Marina e gli altri 8 milioni e mezzo di caregiver – oltre il 17% della popolazione italiana in base a dati Istat del 2015 – , con il coronavirus tutti i nodi sono venuti al pettine: l’assenza di una definizione dei “Livelli essenziali degli interventi e delle prestazioni sociali” (LEP), di un riconoscimento legale ed economico del ruolo dei caregiver familiari e, più in generale, l’incapacità di un sistema di servizi di rispondere ai bisogni di socialità, assistenza, riabilitazione e inclusione delle persone con disabilità.
Enrico Mantegazza, presidente LEDHA di Milano (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità) ha dichiarato in merito: «Il Covid non ha creato una nuova emergenza: ha fatto emergere con cruda evidenza le criticità e le debolezze di un sistema che già indicavamo come inadeguato. Per sette mesi abbiamo assistito impotenti al tentativo, da parte della macchina, di far funzionare tutto come prima, preoccupandosi di riaprire i servizi e non di aprire a una possibile vita reale quotidiana le persone con disabilità».
Per realizzare questa possibilità di una «vita reale quotidiana», e cioè che la persona con disabilità possa integrarsi a scuola, a lavoro, nella società, la legge n. 328 del 2000, quindi 20 anni fa, ha previsto che si predisponga il cosiddetto progetto individuale per ogni singola persona. Nel “progetto Individuale”, infatti, vengono scritti tutti i desideri e i bisogni delle persone con disabilità: in questo modo si possono creare dei supporti per aiutarle a fare ciò che vogliono. Nella pratica, tocca al Comune, d’intesa con un’equipe multidisciplinare dell’A.S.L, predisporre il progetto individuale indicando i vari interventi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali di cui necessita la persona con disabilità, nonché le modalità di una loro interazione.
Insomma, la persona con disabilità non dovrebbe essere una somma di rette, titoli sociali e supporti vari: «Vorrei essere messa in comunicazione con tutti quei soggetti che si occupano del percorso di vita delle mie figlie e non sentirmi fortunata solo perché abbiamo una brava neuropsichiatra che si fa in quattro», sintetizza Marina. Passare da una gentile concessione alla esigibilità dei diritti: è il sogno di Marina e di molti genitori di un figlio disabile; sogno che però nella realtà si trasforma in una sorta di ossessione e incessante lavoro in vista del cosiddetto “dopo di noi”, il giorno in cui né mamma né papà ci saranno più ad accudire i propri “picchiatelli”.
«Le persone vanno prese in carico comprendendo chi sono, che gusti hanno, che desideri hanno, indipendentemente se disabili o no. Tu vorresti vivere una vita che ti fa schifo? Vorresti che ti venissero imposte cose o anche semplicemente dato da mangiare degli alimenti che non ti piacciono?». E questa volta sono io a chiedere una pausa.
Mentre stiamo lavorando alla pubblicazione di questa puntata, vengo a sapere, il 1 dicembre 2020, che Marina Morelli e le sue due figlie Chiara e Arianna sono risultate positive al Covid-19: hanno contratto il virus da un operatore domiciliare di una cooperativa. (1)
Marina ha avuto la febbre alta, Arianna ha ancora una forte congiuntivite, Chiara è l’ultima che si è contagiata. Ad oggi però tutto sembra sotto controllo, a giorni faranno il tampone per capire se sono negative. Eppure Marina al telefono è esasperata. «C’hanno contagiato e c’hanno abbandonato», mi ripete. «Ho provato a farmi aiutare in questi giorni, sai? Gli operatori sanitari sono anche venuti a casa tutti bardati, ma li ho dovuti cacciare: spalancavano finestre, porte… Arianna avrebbe preso di sicuro una polmonite in tutta quella corrente. So che in Toscana non funziona così, il protocollo non è questo, non è possibile».
Marina più di una volta mi ha detto che rispetto agli altri caregiver ha meno rabbia dentro, perché in questi anni ha fatto un grosso lavoro su se stessa, ha fatto «un viaggio di avvicinamento» alle figlie, così lontane e diverse, anche attraverso la scrittura. Marina, infatti, ha scritto libri e composto poesie su questa «triade felix», parole sue. Ecco, in questo momento ci piacerebbe chiudere dedicando a lei, e a chi ogni giorno deve combattere la disperazione, proprio una sua poesia.
La speranza è negli occhi
d’un bambino.
La speranza è nell’amore
di chi lotta e difende i nostri figli
in un mondo
che sa essere disperato,
ma nel quale non può non confidare.
La speranza è un bambino.
La speranza è credere che,
fra mille cattivi
persi nella disperazione,
troveremo un essere buono
ch’ancora spera e crede in sé,
e in te.
La speranza è il bambino
Che è in te, e in me.
La Speranza, dalla raccolta “Infinità”, 2 aprile 2009
Errata Corrige(1) Originariamente avevamo scritto “operatore domiciliare dell’Asl”. Era un errore che Marina ci ha chiesto di correggere, perché si trattava, invece, di un operatore di una cooperativa.
I disabili non esistono. Esiste la segregazione.
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