Perchè ci serve continuare a citare Michela Murgia

Michela Murgia ha smosso le coscienze italiane ricordando a tante donne che possono non stare zitte.

Slow News. Il primo progetto italiano di slow journalism.

Questo pezzo è stato scritto alla fine di agosto del 2023, a pochi giorni dalla morte di Michela Murgia. Il testo contiene riferimenti a alcuni fatti di cronaca che erano stati molto significativi in quei giorni – le persone che leggono potranno ricordare “Lo strupro di Palermo”. Il testo è stato rivisto in minima parte per conservarne l’attualità e sono stati inseriti link per rintracciare i citati fatti di cronaca.

Trigger Warning // violenza

Nei giorni immediatamente successivi alla morte di Michela Murgia, l’ex Senatore Marco Perduca, uno degli uomini e politici più intelligenti e sensibili che conosco, attento osservatore partecipante delle nuove ondate di transfemminismo italiano in un post sul suo profilo Facebook scriveva criticamente come l’onda lunga sui social del lutto per l’intellettuale e attivista Michela Murgia fosse costituita soprattutto da citazioni pubblicate senza la chiosa di ulteriori commenti. Qualche giorno prima Marco si interrogava anche su cosa resterà dopo la fase di partecipazione e commozione che è seguita alla morte di Murgia. 

 

Quanto deve durare il lutto? si domandava Perduca. E, aggiungeva nei commenti, “temo che si va in un “dopo” un po’ troppo lungo e, senza niente togliere alla Murgia, alcune cose si erano lette da qualche secolo…” Con Marco Perduca ci conosciamo ormai da 14 anni e negli ultimi 4 anni con l’Associazione Luca Coscioni, Science for Democracy e Eumans abbiamo lavorato a stretto contatto, quasi quotidiano, contribuendo a dare corpo e vita anche a cose piuttosto importanti, come un Congresso per la Pace Sostenibile, la Democrazia e la Libertà tenutosi a Varsavia a pochi giorni dall’inizio della guerra in Ucraina, un’iniziativa nel mezzo della pandemia per la gestione europea dell’emergenza, audita sotto forma di Petizione anche dal Parlamento Europeo, due raccolte firme referendarie, per l’eutanasia legale e per la cannabis legale, accelerate dalla conquista del diritto a usare la firma digitale per gli istituti costituzionali di democrazia partecipativa. Insomma, con un buon margine di sicurezza nella reciprocità so che con Marco siamo stati compagni e tutt’ora condividiamo una certa visione del mondo e del modo di concepire la politica. 

 

Sulla base di questi vissuti condivisi, consapevole della sua costante ricerca umana, culturale e politica sul femminismo, rispondo oggi a queste sue riflessioni estemporanee ma non retoriche sul lutto per Murgia. Rispondo mentre le strade di Palermo e di Catania ribollono di persone, che al dolorosissimo grido “se toccano una rispondiamo tutte” denunciano che l’unica radice della violenza sia la cultura patriarcale del possesso e del controllo e si adoperano in varie forme di azione quotidiana per fermare la strage dei femminicidi protagonista, insieme agli sbarchi dei migranti, dei titoli dei giornali nell’estate del 2023.

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Credo che questo continuo citare Murgia sia una forma diversa della stessa urgenza, perché quel sangue e quei corpi violati sono ogni giorno più intollerabili. Ed è un sangue che ci scorre più vicino di quanto non pensiamo. Per citare una riflessione degli autori e autrici di Tlon, il bisogno di esprimere il dolore e la rabbia contro la violenza non è solo empatia, è piuttosto il riaccendersi di quello che qualcuno chiama “corpo di dolore” che forse non può avere una dimostrazione scientifica, ma che a livello simbolico può descrivere quello che si sente. Si riaccende una memoria, anche se quella violenza non l’hanno provata in questa vita. E Michela Murgia, in varie forme, ha trovato parole perfette per analizzare, raccontare, decostruire quella violenza nelle sue diverse manifestazioni. È stata Michela Murgia nel 2021 a collaborare con Repubblica, tra le critiche anche durissime di molti, per lanciare un vademecum linguistico per la copertura mediatica sui femminicidi e ancora più importante a contribuire al lancio della sezione Osservatorio Femminicidi. Uno strumento, quello dell’Osservatorio Femminicidi, che da due anni tiene traccia di una delle “stragi di popoli” più palesi e violente al mondo. 

 

Secondo i dati presentati a luglio 2023 dalle Parlamentari Europee Frances Fitzgerald (PPE, Irlanda) e Evin Incir (S&D, Svezia), in occasione della presentazione della posizione negoziale del Parlamento Europeo sulla proposta di Direttiva della Commissione Europea per contrastare la violenza sessuale e di genere, ogni dieci anni nel mondo scompare l’equivalente di una città come Marsiglia o Amsterdam. Murgia – forse anche dopo aver processato la sua stessa storia di sopravvissuta a un padre violento in un sistema patriarcale – è riuscita in gran parte del suo lavoro a dire l’indicibile sui femminicidi e le loro radici in particolare in due libri: L’ho uccisa perché l’amavo – Falso! scritto con Loredana Lipperini e edito da Laterza nel 2013 e Stai ZItta! E altre nove frasi che non vogliamo sentire più pubblicato con Einaudi nel 2021. Al contempo, con un attento lavoro quotidiano su libri, interviste, podcast, post sui social media, articoli, eventi e prese di parola pubbliche, Michela Murgia ha smosso le coscienze italiane ricordando a tante donne che possono non stare zitte, creando spazi di parola preziosi, per raccontare esse stesse le complessità delle loro storie. 

 

Ha fatto pensare il Paese alle diverse forme di genitorialitá, alle famiglie che si scelgono e si costituiscono sulla base dello ius voluntatis invece che dello ius sanguinis, dando vita alle famiglie queer. La stessa Murgia ha scritto lo straordinario romanzo Accabadora, pubblicato nel 2009, che parla della figura della cultura sarda di “colei che finisce” cioè “la donna che si incaricava di portare la morte a persone di qualunque età, nel caso in cui queste fossero in condizioni di malattia tali da portare i familiari o la stessa vittima a richiederla”. Leggendo il romanzo, che analizza le complessità umane che superano i giudizi morali manichei, ho pensato alla risposta degli umani ai bisogni fondamentali, come il rispetto della soglia del dolore, e mi sono tornati in mente i grandi dibattiti sulla Legge del Mare che impone di salvare le persone migranti che muoiono in mare. Le Accabadore raccontate da Murgia come le Carole Rackete, dunque, in continua ricerca della migliore azione possibile nel difficile percorso della vita che ci orienta tra il giusto e lo sbagliato.

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Murgia ha fatto l’atto più radicale di tutti, usando la sua storia personale e le ultime settimane prima della sua morte come megafono per dare voce, luce e quindi terreno di trasformazione in lotta. Una lotta che sta a noi che restiamo provare a trasformare, anche, in leggi.

E di questa trasformazione di ciò che non è riconosciuto in diritto Marco è uno dei maestri, insieme alle persone dell’Associazione Luca Coscioni. Per citare alcuni esempi le iniziative fatte per riconoscerela genitorialitá sociale e solidale, le famiglie queer, il diritto a scegliere sui propri corpi, dall’aborto al fine vita, il testamento – biologico e non.

 

Il lutto che porteremo legato al braccio per la morte di Michela Murgia non è una performance dell’epoca dei social media che dura solo qualche ora, Marco. È un lutto che sarà lungo come quello di chi perde una sorella maggiore, una sorella maggiore che ci mancherà ma che al tempo stesso è parte carnale di noi, perché è delle sorelle maggiori la capacità di vedere un po’ prima e farsi per prime carico, magari con modi non sempre perfetti o ortodossi, della responsabilità di ribaltare il tavolo al pranzo di famiglia nel giorno di Natale. Murgia mi ricorda Marco Pannella, nella strenua volontà di indicare per prima e in solitudine la luna quando molti ancora non avevano visto nemmeno il dito e nella leadership, progressivamente sempre più forte, capace di spostare sempre più sguardi. E di aiutare gli sguardi a trasfromarsi in piccole quotidiane azioni politiche. 

 

Marco Perduca è ancora più testimone di me di quanto questo tipo di leadership nascano solitarie, nel dolore delle notti e nel sapore delle lotte che nascono come fiumi carsici e si fanno progressivamente tempeste, o atmosfere per usare proprio una sua espressione della stagione referendaria. E per questa sua capacità di vedere oltre, Marco è anche testimone di quanto da questi passaggi progressivi passi tutta la possibilità di fare la differenza nel mondo. 

 

E ora veniamo alla parte più dolorosa e faticosa del post di Marco Perduca, cercando di affrontarla con il massimo rispetto per il suo intelletto e per la sua storia. “Alcune cose si erano lette da qualche secolo”. So che mi concederà un po’ di womensplaining: ha forse ragione, Perduca, che non tutto è pensiero “originale”, ma del resto cos’è la cultura se non un attento lavoro di cucitura di parole nuove e antiche da ricontestualizzare. Per questo credo sia importante, ora come non mai, non sminuire il fenomeno di parole che si fanno echi e tempeste, ma anzi celebrarlo. Murgia è riuscita a trasportare e attualizzare con il suo lavoro tanti pensieri e a sottolineare con un talento unico le intersezioni di diverse urgenze e a trovare parole semplici, comprensibili, che tante hanno sentito sul loro corpo. Vorrei dire a Marco Perduca che quello di cui continuiamo ad avere bisogno è averlo al nostro fianco, come ha fatto fino adesso mentre fa quello che in inglese si dice holding space, e che si potrebbe tradurre in “tenere lo spazio aperto per consentire a qualcuna di fare il suo percorso senza farla sentire inadeguata e senza giudicare”.

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Per questo, spero che avrà la pazienza di finire di leggere questo mio scritto. In questi anni tante volte ho visto Marco Perduca lasciare spazio sul palco e con il microfono (o il megafono quando ci trovavamo nelle strade) per tenere lo spazio a disposizione di donne, giovani e meno giovani che fossero, facendosi ambasciatore concreto della lotta contro i panel #tuttimaschi. E in virtù di questo, in queste dolorosissime settimane di analisi delle parole dello “Stupro di Palermo”, dei “cento cani su una gatta” e delle parole feroci del Generale Vannacci, che chiedo a Marco Perduca di continuare a tenerci un po’ di spazio. In questi mesi, e probabilmente nei prossimi, le parole di Murgia saranno ancora a lungo balsamo lenitivo su quelle ferite, a volte visibili ma molto spesso invisibili, che in tante portiamo. Sono parole che per molte di noi sono strumento per avere il coraggio di esporsi e di dire quello che a volte, spesso, è ancora indicibile. Soprattutto a noi stesse. Sono parole che ci regalano tempo, per farci più coraggio, ora dopo ora, femminicidio dopo femminicidio, stupro dopo stupro, per non stare zitte e fare della lotta personale delle notti la sfida politica dei giorni. E andare avanti a lottare collettivamente, anche quando ci vergogniamo perché la vita e le sue scelte sono complesse e, a volte, le parole di qualcun’altra sono un approdo più facile per iniziare a esporsi. Grazie al suo profilo Facebook proprio Perduca ha suggerito a migliaia di persone la visione di serie e film Netflix che provavano a esplorare queste complessità: ha visto e poi elogiato una serie quasi perfetta come Maid, in cui si vede una donna prima ancora che una madre scoprire di essere una vittima mentre lotta per la sopravvivenza, economica e umana, sua e di sua figlia. Fondamentale in quella serie il passaggio in cui Alex, la protagonista, entra per la prima volta in contatto con i servizi sociali per le donne vittime di violenza, dicendo che il pugno che il suo compagno ha dato all’armadietto non l’ha colpita e che dunque non è una vittima. E trova nella donna di fronte a lei la persona che per prima le apre il dolore, dicendole che se qualcuno colpisce qualcosa accanto a te è probabile che la prossima volta colpirà te. E che nessuna pensa di essere proprio lei una vittima. Grazie a Marco Perduca ho scoperto il preziosissimo film Netflix She Said, che racconta con chirurgica precisione e purezza quanto sia stato difficile per le giornaliste del New York Times Jody Kantor e Megan Twohey raccogliere secondo gli standard giornalistici più alti non solo le prove e le testimonianze, ma soprattutto il coraggio di metterci la faccia, delle decine di attrici di Hollywood che non avevano denunciato Harvey Weinstein e che solo come forza collettiva hanno poi dato vita a una delle più grandi azioni di denuncia pubblica delle molestie e dei ricatti sessuali del mondo occidentale, che poi é diventato il movimento Me Too in cui – attraverso la via giudiziaria e lo stato di diritto – ha deposto il dittatore Weinstein e aiutato concretamente migliaia di donne a avere il coraggio di uscire da situazioni in cui il ricatto sui loro corpi progressivamente fagocitava le loro competenze e la sicurezza in se stesse. Dopo aver letto gli elogi di Perduca a queste due produzioni audio-visive mi sento legittimata a chiedergli di continuare a essere indulgente con il tempo e i modi che ci servono a trovare parole nostre, lasciando a chi ne ha bisogno il tempo che serve, la possibilità dell’autocoscienza e il tempo per organizzare la lotta. Anche a questo serve citare le parole di qualcun altra. Trasformare in parole giuste o ancora di più in iniziativa politica la violenza subita è un personale politico che richiede tempo e la possibilità di stare un po’ nascosta dietro le parole di qualcun altro. Perché dirsi vittime è soprattutto durissimo con se stesse, nonostante sia il passaggio fondamentale per ridefinirsi sopravvissute.

Perché tanto di questo passa da lunghe, o meno lunghe, fasi di rimozione, e trasformare la violenza subita o vista subire da altre in lotta richiede tempo. E cura.

Come diceva la stessa. Murgia se metti diverse donne intorno a un tavolo, con lo scorrere del tempo e del vino ricomporranno le loro notti e probabilmente riusciranno a dirsi tra le lacrime di essere stata la gatta di uno, due, tre, dieci o cento cani randagi. O cagne, perché per quanto paradossale la violenza di genere non ha genere e viene perpetrata anche nelle relazioni tra persone dello stesso sesso. E a volte non servono le tragedie, basta che ci guardiamo tra di noi per fermarci a riflettere su come reagiamo ai   “no” che riceviamo, cosa significa imparare a educarci a una cultura del consenso, ai rapporti che non prevedono i giochi di ruolo, alle gelosie più o meno manifeste che spesso non sono altro che fragilità che basterebbe saper esprimere con altre parole. Possiamo per esempio partire da quanto ha scritto sui suoi social proprio l’altro ieri la ragazza sopravvissuta allo stupro di Palermo, ribellandosi a chi la giudicava ma anche esprimendo tutta la sua paura di non farcela più a reggere il peso di quei giudizi. Solo attraversando questo lungo e doloroso processo, magari tenendoci la mano tra sorelle e fratelli possiamo continuare a costruire insieme una società e una politica della cura, perché altrimenti a quelle che vengono uccise rischiamo di dover aggiungere i nomi di qualcuna che rischiamo di perdere per auto-distruzione. Qualche mese fa, con due attivisti di Volt nella Firenze che ha dato i natali a Perduca, parlavamo del tipo di politica che ci vuole, in Italia e in Europa. Quella politica vera, quella delle persone, quella per esempio praticata dall’Associazione Luca Coscioni. Parlavamo anche di luoghi più sicuri. Luoghi della politica, sia locale sia transnazionale, che ha bisogno di spazi, digitali ma anche tanto fisici, intergenerazionali, intersezionali. Quella politica che ha bisogno di parole declinate al femminile, che ha bisogno di tempo, perché le cose sono complesse, siano esse fatti intimi o decisioni pubbliche. Quella politica che ha bisogno di tanta scienza. Ma anche di strade sicure di notte e di città policentriche, se vogliamo guardare al femminismo con gli occhi dell’urbanistica.

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A un certo punto della serata Pietro, il coordinatore cittadino di Volt, quando eravamo alla quarta birra Moretti mi ha detto “Si vede che tu sei una donna che non ha paura di andare in giro da sola di notte”. Ho apprezzato la stima e sorriso con amarezza Non gli ho chiesto perché, ho pensato fosse perché mi aggiro con un sorriso abbastanza sicuro di me e uno zaino in spalla. O perché ho provato a fondare e sono stata co-presidente di un movimento europeo con Marco Cappato, o perché recentemente con lui e Felicetta Maltese ci siamo autodenunciate per avere accompagnato in Svizzera la signora Paola, malata di Parkinson, per ottenere il suicidio assistito. O per appunto avere organizzato due congressi politici in Polonia in due anni. Ho sorriso amaramente e il poco che sono riuscita a dire è che se è vero che se sono una che non ha paura a camminare da sola di notte, o prendere autobus diurni e notturni in giro per l’Europa o che si ferma di notte sulle panchine di Bruxelles a guardare la luce sono tanti i momenti in cui la paura mi sovrasta, magari nei momenti più belli e più dolci con le persone che mi amano. Ed è dolorosissima e apparentemente incontrastabile questa paura. E una vittima – potenziale o reale – non ha sempre il volto o i modi di fare che ti aspetti. Non gli ho detto che sono stata una vittima anche io. Una che si è tatuata solo un anno fa sul braccio un verso della poesia A Litany for survival della poetessa e attivista americana, lesbica e nera, Audre Lorde che ho suggerito anche a Marco Perduca di leggere e sono stata orgogliosa di vedere nella sua libreria.

We were never meant to survive

 

Un tatuaggio sull’interno dell’avambraccio, quasi a ricordare di essere sopravvissuta a un’altra forma di olocausto. Non era previsto che sopravvivessimo. Sono sopravvissuta nonostante ci abbia messo anni a capire che stava succedendo proprio a me di essere una vittima e che non ero invincibile. Sono una sopravvissuta che ha il coraggio di camminare per strada di notte ma a volte ha il terrore di esprimere il suo pensiero o non riesce nemmeno a fare l’amore. Ho il coraggio di stare su un palco o su una piazza davanti a centinaia di persone ma mi paralizzo a colazione a casa alla mattina se il caffè si rovescia sui fornelli. Perché da quei fornelli si sente a volte ancora, per fortuna sempre più lontano, l’eco delle urla. Sono una sopravvissuta che per anni ha lasciato che qualcuno che diceva di amarla le potesse urlare ripetutamente che era una troia quando qualcuno per caso le guardava il sedere per strada, che si è sentita talmente tante volte dire di essere un’idiota da avere finito per crederci e dover gestire attacchi di panico e di ansia prima di ogni evento pubblico o prima di consegnare un articolo. E sono stati tanti gli eventi e gli articoli in questi anni. Sono stata una di quelle donne che arrivano in ospedale con il volto coperto di sangue e dicono al personale medico che i denti si sono rotti cadendo nella doccia. E finiscono anche per crederci. O che quando arrivano a casa i carabinieri chiamati da qualche vicino compassionevole li manda via dicendo che va tutto bene. Sono una che ha passato gli ultimi quattro anni a raccontarsi e poi raccontare un pezzettino alla volta la propria storia e fare pace con la vergogna e avere la fortuna di essere circondata, per la maggior parte, di persone che l’hanno accolta con amore e senza giudicarla. Bastavo io da sola a giudicarmi e a ricercare ossessivamente la risposta alla domanda “perché non te ne sei andata”. E imparare a perdonare me stessa.

Per essere stata troppo a lungo, per non avere denunciato, ma ringraziando me stessa perché a un certo punto invece comunque era proprio finita.

Ho anche imparato che le tossine ci mettono tanto a andare via e che la sindrome da stress post traumatico che vogliamo anche guarire con la legalizzazione delle terapie psichedeliche si manifesta anche con atteggiamenti oscuri anche a noi stesse e momenti distruttivi e autodistruttivi anche molto e difficili da gestire se non li conosciamo o riconosciamo. E se ne può andare solo con tanta tanta cura e tanto amore – lasciando comunque segni che ci ricorderanno sempre che non saremo mai più quelle di prima. E ho imparato a scoprire che la violenza non è un attacco terroristico che spunta dal nulla, ma un puzzle di micro-comportamenti che si accumulano. E che solo un attento minuzioso lavoro di decostruzione, anche del patriarcato interiorizzato e accettazione delle nostre fragilitá, la può sconfiggere per davvero e forse nel profondo. Ho imparato ad accettare che mi dicessero che ero coraggiosa mentre mi sentivo esposta e vile come un verme. E in questa nuditá cercavo, ma forse cerco, di negoziare un punto di equilibrio che magari un giorno si trasformerà in lotta. 

 

Ho scritto questo lungo testo a Marco Perduca per spiegargli perché a volte ci servono le parole degli altri, ed esponendo la mia verità mi metto al fianco delle altre sorelle, le tante invisibili come me che magari trovano un po’ di conforto e un po’ di spiegazione in una citazione di Michela Murgia che legittima la nostra storia e il nostro sguardo sul mondo. Lei che è stata forte per tante di noi mentre tante di noi, invisibili, si stanno, stavano e staranno ancora curando le ferite o cercando di ridurre quelle che vengono inferte nelle diverse intimità. Spero che leggendomi Marco capisca quanto sia importante, lasciarci le nostre citazioni e nello stesso tempo ragionare collettivamente su come reagire anche giuridicamente alla vittimizzazione secondaria che è espressamente disincentivata dalla Convenzione di Istanbul, lavorare per il pieno recepimento della direttiva dell’Unione Europea per la lotta alla violenza di genere e alla violenza domestica (entrata in vigore ufficialmente a giugno del 2024). Spero che Marco leggendomi possa essere indulgente con la nostra fragilità e con il tempo che serve per trovare parole proprie. 

 

E lasci che scegliamo noi quando parlare, cosa dire, con quali spalle coprirci. È difficile stare, ma è stando che costruiamo la lotta. Lasciaci oggi la nostra Murgia quotidiana. Lasciaci piangere le sorelle morte. E continuare a ricercarci tra vive. Solo così insieme saremo speranza quando ci sembrerà di non averne. Perché come diceva Murgia “il femminismo nasce da un punto interiore molto profondo e diverso per ciascuna e nessun* diventa femminista perché non aveva niente di meglio da fare”.

La foto di copertina è presente nell’album TEDxTorino “Genius Ex Machina” del 20 febbraio 2019 con licenza creative commons.

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