Per un passato migliore

I Ministri. Dieci anni fa usciva il disco. Nel 2023 il concerto-compleanno è un evento nostalgico ma che guarda avanti

I Ministri, rock band italiana, mentre suonano all'Alcatraz di Milano il 6 dicembre 2023

Dieci anni prima. Marzo 2013. I Ministri fanno uscire il loro quarto album registrato in studio. Si intitola Per un passato migliore.
Dieci anni dopo. Dicembre 2023. Sul palco dell’Alcatraz, locale per concerti a Milano, il chitarrista e autore dei testi del gruppo, Federico Dragogna dice che il titolo del disco avrebbe dovuto essere un altro: La pista anarchica. «Ma qualcuno, forse un legale della Warner, non ricordo, ci ha suggerito di cambiare titolo all’album per dargli almeno una possibilità di uscire», spiega, prima di iniziare a suonare il brano.

La pista anarchica

L'album più bello è sempre quello prima

Secondo una retorica classica degli appassionati di musica di un certo tipo, quelli con un gusto un po’ nerd, che ci tengono a far sapere che seguono quel dato gruppo da tempi immemori, da prima di chiunque altro, vorrei dire che Per un passato migliore per me non è il miglior album dei Ministri. Il mio preferito rimane Tempi bui (2009). Ma secondo la medesima logica potrebbe arrivare qualcuno a dire «sì ma vuoi mettere I soldi sono finiti (2006)?». E così via, in una gara al primato di chi tira fuori il brano più vecchio che è comunque, sempre meglio, fino alla prima demo registrata in sala prove su una musicassetta: lì sì che si sentiva l’arte e la genuinità.
Non voglio cedere a questa retorica, ma sono davvero convinto che Per un passato migliore sia un buon disco, maturo finché si vuole, non il meglio della produzione, anche se contiene dei brani davvero notevoli.

Ora che è la più stupida / Il bello è che puoi inventartela / Segui la pista anarchica

Un gruppo generazionale e politico

Chi non li ha mai ascoltati, chi non ha mai visto un loro concerto, può fare un po’ fatica a capirlo, perché non stiamo parlando di una band mainstram, ma il fatto è che I Ministri sono un gruppo fortemente generazionale, rappresentativo di quella generazione persa nelle nebbie da quando abbiamo iniziato a mettere le lettere per definirle. Dalla fine della generazione X in avanti, direi: genti sfilacciate e postmoderne, spesso disgregate.
I Ministri sanno riassumere in poche righe disagi e idiosincrasie di tempi complessi, forse davvero bui. «Metà dei soldi va per i recinti / l’altra metà per ridipingerli». «Ora che è la più stupida / ora che puoi inventartela / segui la pista anarchica». «L’anima non serve / serve un posto dove stare / L’anima alle bestie / noi pensiamo con il pane». «Veramente vivo in tempi bui / e non ho nulla di cui preoccuparmi /  perché sono diventato buio anch’io / ma di notte sono uguale agli altri». «In giro ormai era di moda la svastica / E voi sgonfiatela con la dialettica / Non vi allarmate: è una questione politica». «Volevi essere pagato / perché avevi qualcosa da dire / ora che ce l’hanno tutti / puoi star zitto, per favore?». «Il futuro l’avete inventato voi / Il futuro è una trappola».
Sono un gruppo politico, nel senso più alto del termine.

I giornalisti con almeno due cognomi

A volte, nelle loro canzoni, compaiono riferimenti ai giornali e a chi li scrive. Essendo un giornalista con una visione molto critica di alcuni modi in cui viene esercitata la nostra professione, non ho potuto fare a meno di notare e amare questa caratteristica «Tutti i giornalisti hanno / almeno due cognomi», cantano proprio in La pista anarchica. «Ti chiedi come fanno i panettieri / che escono di casa prima dei giornali / i giornali che non leggi più / Perché hai trovato un modo per sfondare / e di non leggerli anche in digitale», chiosano in Comunque, trovando il modo di raccontare in una canzone persino la crisi del modello di business del giornalismo. Noi giornalisti siamo tratteggiati proprio come quelli che si inventano la pista anarchica quando c’è qualcuno a cui dare la colpa. Ma siamo anche quelli che si interessano a Briatore perché alla gente piace leggere il gossip su Briatore, o almeno così ci piace pensare.
L’immagine impietosa di un ruolo che ci dovremmo scrollare di dosso serve a ricordarci che, in realtà, la funzione sociale del giornalismo dovrebbe essere quella di contribuire a costruire racconti condivisi della realtà, a fare comunità, a favorire la coesione, a guardare sempre dalla parte degli ultimi, a dare voce a chi non ne ha. Ma non lo facciamo, ed ecco che il giornalista, nell’immaginario di una lunga generazione senza più fiducia, coincide proprio con quella macchietta un po’ squallida che si inventa piste anarchiche perché tanto può farlo e lo fa anche quando sono stupide.

Alla gente in riva al mare / Piace prendere il sole per / Diventare marrone / Proprio come Briatore / E per esser sicura che / Sia lo stesso colore / Passa il tempo a sfogliare / Le riviste con sopra / La faccia di Briatore
La faccia di Briatore, I Ministri, Tempi Bui, 2009

Testi unici per temi unici

È proprio questo che fanno I Ministri. Prima di tutto riescono a cantare di questioni concrete: le basi militari, la povertà, il diritto all’abitare, il controllo sociale, la crisi di fiducia nelle istituzioni, la politica che diventa scena politica perdendo il suo senso più profondo, l’intrattenimento come industria estrattiva. C’è la crisi personale (Non l’ha più fatto, non l’ha più fatto / Forse voleva soltanto provare / Non era vero / A me piaceva e mi nascondevo / Per non farvi star male / E ancora oggi quando tu manchi / Quando tu manchi / Io mangio la terra), c’è tutto quel disagio generazionale che ti fa sentire parte di qualcosa, di qualcuno che tutto sommato ti sa capire e raccontare e mettere in scena e in musica. Questo accade non in maniera furba e banale ma con immagini forti, azzeccate, studiate, evocate da parole cercate quasi ossessivamente, come se fossero delle canzoni scritte da David Foster Wallace, che infatti è di ispirazione per uno dei brani che amo di più, Due dita nel cuore. Sono i testi e i temi che rendono I Ministri una band unica. Intendiamoci: c’è anche tutto il resto, c’è la musica, c’è la presenza scenica, c’è l’anima rock – un po’ persa in alcune svolte recenti, ma non vorrei rientrare nella logica nerd di cui sopra –, ci sono i suoni sporchi come devono essere. Ma i testi e i temi sono l’elemento distintivo. Anche la canzone d’amore non è mai banale e finisce per parlarti, per esempio, di fragilità («Sono fatto di neve / e tu che mi vuoi scaldare / tu vuoi farmi morire»). Il gusto per la citazione e per la trasformazione della citazione stessa serve a costruire qualcosa che non è semplicemente derivativo ma che diventa altro (una delle mie preferite, in questo senso: «Ho visto Nina volare / ho visto Nina cadere / non ho visto più niente»). I testi dei Ministri parlano di persone normali, di cose normali («Siamo lo sguardo dei bagnini / quando credono di aver capito il mare»). Ci ricordano anche che la creazione non è un atto solitario ma si fonda su quel che è venuto prima, sulle creazioni di altre persone, in un sapere, in un creare che si accumulano e si modificano, in un’osservazione delle altre e degli altri che non cerca per forza il giudizio ma si sforza di comprendere. Magari è una creazione che si fonda anche su quel passato migliore che vorremmo aver vissuto, anche se sappiamo che i bei tempi andati non esistono se non in un’emozione fra le più ingannevoli, mitomaniache e mistificanti: la nostalgia.

Due dita nel cuore

Fra nostalgia e presente

Eppure non si può non sentire nostalgia, a vederli da vecchi fan all’Alcatraz. Quasi non ci si crede, per chi li segue dagli esordi, che qua si son davvero superati i quaranta e si va anche oltre. Eppure il concerto è energico, i pezzi vanno via uno dopo l’altro, per due ore e venti a cantare e ballare e riprendere e fotografare e pogare e stare fermi – ché il tempo passa anche per il pogo costante – e per qualche istante il tempo sembra non essere passato, non fosse che per la quantità di giganteschi schermi di smartphone che però, ormai, fanno parte del contesto.
Ci sono le divise – un classico della band, che ci suda dentro orgogliosamente da quando suonavano in club dal soffitto bassissimo; c’è l’headbanging di Dragogna, ci sono i predicozzi di Davide “Divi” Autelitano, voce e basso, che da sempre interviene fra un brano e l’altro con monologhi impegnati ma non esattamente lineari; c’è la voce dello stesso Divi, miracolosamente rimasta integra nonostante gli urli disumani sul palco; c’è Michelino Esposito, il batterista che genera sempre grandi entusiasmi; c’è il pogo, appunto; c’è lo stage diving con surfata sul pubblico, ma non più sulle note de Il bel canto (c’erano volte in cui Divi ritornava sul palco con gli abiti a brandelli), ci sono pezzi storici, praticamente nulla di recente.

Ma gli anni sono passati eccome: lo rivelano i corpi, le facce, i capelli, persino gli ospiti dello show: si susseguono sul palco Filippo Cecconi (Effe Punto), già chitarrista proprio con i Ministri, Andrea Appino degli Zen Circus, Davide Toffolo e quindi tutti e tre gli  allegri ragazzi morti. Ed è subito nostalgia, anche se non è vero che era meglio quando si stava peggio. Il tempo è passato. Lo rivela il fatto che ci sono genitori con bambini all’Alcatraz: dieci anni fa non li vedevi ancora. Mia moglie –noi siamo tra i fan che si trovano sulla strada degli attempati – andò a uno dei loro concerti quando era incinta della nostra primogenita. E infatti, quando arriva Auroro Borealo, elemento del presente, confessiamo entrambi la nostra ignoranza. Ma a posteriori, perché quel punto io ero già a pogare ché sono quello dei due che soffre della sindrome di Peter Pan. Borealo, prima di scatenarsi sul palco come ultimo ospite sulle note di Vicenza (La voglio anch’io una base a), interpreta un ruolo perfetto. Quello del Ministro del pogo, giunto a regolamentare questa forma di ballo collettivo difficile da capire per chi non pratica il mondo dei concerti.

Infine

Ritornando a casa, di notte, verso la provincia milanese, vengono in mente le canzoni mancate, oltre a quelle cantate («Dove sei nata tu ora c’è una petroliera / Lunga come un’autostrada, ma più larga ancora»), il vecchio blog su Blogspot, paroladiministri – ho controllato, c’è ancora, ultimo post del 2015, ed è ancora bello leggerlo – e il fatto che non mi capacito del perché I Ministri non siano mainstream.
«La tua è un’ossessione, per i grandi numeri. Ma che importanza ha?», mi dice mia moglie, che mi invita sempre a rassegnarmi alla nicchia che non può essere anche massa.
È vero. Ha ragione lei. Ma alla fine penso che se lo meriterebbero, di essere mainstream. Forse perché penso che sarebbe bello che quei temi e quei testi venissero discussi e cantati.
Ma forse sono vittima anch’io della nostalgia per un passato migliore mentre l’unica cosa che possiamo fare è vivere adesso e guardare avanti, decostruendo quell’idea falsa che fosse sempre meglio prima.

C'è solo un modo per vedere oltre / Pianificare la propria morte / Ed è fare i debiti è fare i debiti, è fare i debiti, è fare i debiti / È fare i debiti, è fare i debiti, è fare i debiti, è fare i debiti
Abituarsi alla fine, I Ministri, I soldi sono finiti, 2006

La scaletta del 6 dicembre 2023, I Ministri, Alcatraz

Per dovere di cronaca, ecco i brani eseguiti

Mammut
Comunque
Le nostre condizioni
Stare dove sono
Caso umano
Se si prendono te
La pista anarchica
Mille settimane (guest Effe Punto)
I tuoi weekend mi distruggono
I giorni che restano
L’amorale (guest Andrea Appino)
Spingere (guest Andrea Appino)
La nostra buona stella
Una palude
Peggio di niente
Un viaggio
Gli alberi (con Davide Toffolo)
Il mondo prima (con i Tre Allegri Ragazzi Morti)
Vicenza (La voglio anche io una base a)
Diritto al tetto (con citazione perfetta per Smells Like Teen Spirit)
Abituarsi alla fine

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