La schiavitù mauritana è differente. Non ha catene né ceppi di legno, non ha palle di ferro né sbarre alle finestre ma è economica, psicologica, religiosa e culturale allo stesso tempo: si basa infatti su un’interpretazione dell’Islam sunnita nel rito malikita, una scuola giuridica che è stata un tempo presente anche in Sicilia e in al-Andalus.
Tale interpretazione sostiene, facendola molto breve, che Allah accetta l’esistenza degli schiavi anche se questi sono fedeli musulmani, che quindi solo se mansueti potranno guadagnarsi il Regno dei Cieli. In tal senso la schiavitù in Mauritania è sì contemporanea, perché esiste qui e ora, ma si caratterizza con elementi del passato, in forme poco assimilabili alla concezione moderna di schiavitù (per cui sui giornali gli «schiavi» sono i rider di Deliveroo e Moovenda mentre gli operai che in Qatar preparano i Mondiali di Calcio 2022 sono «lavoratori a basso costo» come lo erano i costruttori delle piramidi).
La Mauritania, la prima Repubblica Islamica al mondo, 4,3 milioni di abitanti in un territorio quasi interamente desertico grande tre volte l’Italia, è governata da un élite dominante arabo-berbera (circa il 20% della popolazione) che domina sulla popolazione Haratin (si legge «aratén»: sono i discendenti degli schiavi e gli ex-schiavi affrancati o in stato di dipendenza, circa il 48-50% dell’intera popolazione mauritana) e sui neri liberi (il restante 30%, principalmente di etnia wolof, fulani, soninke e bambana).
Il Global Slavery Index indica che circa 43mila persone, tutte Haratin, sono vittime di sfruttamento servile ma parlando con Biram – che cita studi di altre organizzazioni internazionali – il numero ipotizzato è molto più alto, tra le 500 e le 600 mila persone: il 15% della popolazione mauritana. In realtà, nei fatti, non si tratta di persone: non sono iscritti all’anagrafe, non vengono registrati alla nascita e quindi non vanno a scuola, non hanno accesso all’assistenza sanitaria e sono letteralmente inesistenti.
La schiavitù in Mauritania si trasmette per via matriarcale, per cui se una schiava viene abusata dal proprio padrone il figlio della violenza sarà anch’egli uno schiavo: per questa ragione le donne sono le più colpite dalla piaga della schiavitù perché fattrici di nuovi schiavi, instancabili lavoratrici domestiche da 15-20 ore al giorno, totalmente in balia del padrone (che decide persino se queste possono o meno sposarsi). Se il padre invece è uno schiavo non ha alcun diritto di rivalsa sul minore.
Oltre le donne la schiavitù colpisce i bambini: iniziano a lavorare a 5 anni accudendo gli animali, lavando i piatti e trasportando oggetti, dai 7 iniziano a svolgere mansioni più faticose e dagli 8 diventano, le bambine, possibili prede sessuali. Dalla schiavitù è possibile uscire: ogni schiavo costa, in media, 2500 Euro e può riscattarsi in vita con il lavoro, o nel caso di benevolenza del padrone.
Ma la realtà è ben più dura perché dalla schiavitù non si esce mai: un ex-schiavo non ha alcuna formazione, non sa spesso nemmeno scrivere il proprio nome, non esiste all’anagrafe e non ha alcun diritto ai documenti. Dalla Mauritania non potrà andarsene mai: qui potrà svolgere, come ogni invisibile del mondo, solo lavori sottopagati, con l’aggravante che lo status di uomo «libero» gli toglie anche la sicurezza di un tetto e di un pasto al giorno.
Questa è la storia delle origini di Biram, il contesto culturale nel quale nasce in una tenda nel bel mezzo del deserto in una regione al confine con il Senegal: