Il contrario di sprecare e inquinare è riparare ed educare
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L’Unione europea ha approvato un fondo da 19 miliardi di euro per contrastare le conseguenze socio-economiche della decarbonizzazione nelle aree più fragili del continente. Basterà? L’esempio virtuoso della Repubblica Ceca e i ritardi italiani
Per 162 anni, il carbone e l’acciaio hanno fatto le fortune di Dolnì Vitkovice, il distretto industriale nel cuore della città di Ostrava, Repubblica Ceca. L’ultima fornace si è spenta nel 1998, sancendo il declino delle miniere avviato con la fine del regime sovietico.
Oggi, Dolnì Vitkovice è un sito turistico e spazio culturale: lo scheletro di ferro dei vecchi impianti ospita eventi, festival, esposizioni, a volte anche set cinematografici. Una trasformazione avvenuta anche grazie ai 79 milioni di fondi europei, tra cui quelli della politica di coesione 2014-2020.
Non è un caso che la Commissione Ue abbia scelto questo luogo proprio per un incontro coi media europei dedicato al Just Transition Fund. Il Just Transition Fund (JTF o Fondo per la Transizione Giusta, in italiano) è un nuovo strumento della politica di coesione, pensato per sostenere i territori che soffrono maggiormente le conseguenze socio-economiche della transizione verso la neutralità climatica.
La sfida è enorme e riguarda tutti i paesi Ue, compresa l’Italia. La Repubblica Ceca, anche per via del suo passato fortemente legato al carbone, è uno degli stati che ha cominciato prima ad affrontarla e, oggi, e anche uno di quelli più avanti nell’implementare il JTF. Per questo, è un buon punto di partenza per capire perché questo fondo è così importante.
Il Green Deal europeo è l’insieme di misure per portare l’Ue a zero emissioni nette di gas climalteranti entro il 2050. Comporta cambiare il modo in cui produciamo energia, ci spostiamo, coltiviamo e viviamo molti aspetti della nostra quotidianità. E, in certi casi, significa anche perdere il lavoro. O doverlo cambiare. Il solo settore carbonifero vale quasi mezzo milione di occupati in Europa: 160mila diretti, secondo le stime della Commissione, andranno persi entro il 2030.
«Dobbiamo assicurarci che nessuno sia lasciato indietro» ha dichiarato la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen alla presentazione del Green Deal, nel dicembre 2019. «Questa transizione funzionerà per tutti e sarà giusta, oppure non funzionerà affatto». Le sue parole si sono tradotte nei 19.2 miliardi (25.4 con i cofinanziamenti nazionali) stanziati dal bilancio Ue per il Just Transition Fund tra il 2021 e il 2027. Il JTF non è l’unico strumento pensato per rendere la transizione green più giusta: ci sono anche interventi nell’ambito del programma InvestEU e prestiti per il settore pubblico. Tutti insieme dovrebbero mobilitare, considerando banche e privati, 55 miliardi di euro per sostenere le regioni, le industrie e i lavoratori «che dovranno far fronte alle sfide più pressanti», spiega la Commissione. Si tratta del 5,5% degli almeno 1000 miliardi che il Green Deal si propone di muovere per far si che l’economia Ue sia ad emissioni zero.
Il maggior beneficiario del JTF è per distacco la Polonia, con 4,7 miliardi (3.8 dall’UE). Qui l’elettricità prodotta da carbone è ancora il 69% del mix energetico, un’anomalia rispetto al 16% dell’Ue. Le cifre sono simili per la Germania (32%) e la Repubblica Ceca (43%), che sono anch’essse tra i principali destinari del fondo. L’Italia ha un budget totale di 1.2 miliardi, destinati specificatamente a Taranto e al Sulcis Iglesiente (Sud Sardegna).
«Il JTF È uno strumento specifico che permette alla politica di coesione di aiutare le regioni che dipendono troppo dalle industrie e dalle attività legate al carbonio» ha spiegato la Commissaria europea per la coesione Elisa Ferreira, competente anche per questo nuovo fondo.
Il Fondo per la transizione giusta investe in supporto alle PMI (Piccole medie imprese), energia pulita, ricerca e sviluppo, bonifiche, reskilling e aiuto nella ricerca di lavoro. In casi di perdite occupazionali non compensabili in altro modo, può aiutare anche grandi aziende, ma con molti vincoli. Per esempio, l’Italia aveva valutato di usare il fondo per l’ex Ilva, salvo poi fare marcia indietro per rispettare il principio “Do Not Significant Harm”. Il regolamento del fondo prevede cioè di “non arrecare danno significativo” all’ambiente, e rende impossibile supportare le attività ad alte emissioni dell’acciaieria. Gli interventi a Taranto si concentreranno invece sullo sviluppo di una filiera dell’idrogeno verde e sistemi di stoccaggio dell’energia rinnovabile.
All’evento per giornalisti di Ostrava, nella regione ceca della Moravia-Silesia, la Commissione Europea ha mostrato ai media un luogo in cui la macchina della transizione giusta è stata avviata. Il traguardo è ancora lontano e non ben definito, ma quanto meno il percorso è stato intrapreso. La Repubblica Ceca, a differenza di altri paesi, infatti, ha una strategia per il JTF e l’ha avviata nei tempi previsti. Quella che era una volta la regione di “Black Ostrava”, (la nera Ostrava) città del carbone e dall’aria irrespirabile, punta oggi sullo sviluppo delle PMI e sull’innovazione digitale: “dal coal mining al data mining”, è il motto che sintetizza questa strategia.
Slogan a parte, qui il JTF finanzia progetti come il CEPIS (Centre for Entrepreneurship, Professional and International Studies), un nuovo centro dell’università della Silesia che ospiterà corsi di Impresa e Innovazione, Digital Business e Economia e managment. «È ciò di cui abbiamo bisogno» racconta Daniel Stavarek, rettore del Dipartimento di Amministrazione e Finanza. «Possiamo offrire un modo per cambiare l’economia, dalle industrie pesanti ai micro-servizi», aggiunge. Un altro progetto in questo senso è la costruzione del Black Cube, un hub per la digitalizzazione che servirà da centro di ricerca, formazione e biblioteca.
Nonostante la bella storia di riconversione di Dolnì Vitkovice, però, la città di Ostrava ha perso 34mila abitanti dal 2001 al 2021, passando da circa 315mila a poco più di 280mila. Oggi, quindi, in Moravia-Silesia, la sfida connessa alla transizione verde è contrastare lo spopolamento, offrendo nuove soluzioni occupazionali che sostituiscano le miniere e le fabbriche ormai chiuse.
Il JTF in questa zona punta soprattutto a modernizzare l’economia per frenare la fuga dei giovani piuttosto che a riqualificare i lavoratori delle miniere. La Repubblica Ceca, infatti, è dal 2016 che aiuta le regioni carbonifere con il programma RE:START, finanziato con risorse nazionali e fondi di coesione Ue. E, per questo, per molti minatori della regione di Ostrava sono stati già avviati programmi di compensazioni e pensionamenti anticipati.
A testimoniarlo, forse non a caso, è Dalibor Mikšaník, che guida il pullman con cui i giornalisti arrivano a Dolnì Vitkovice e che, in passato, era proprio un minatore. Grazie a un traduttore, spiega che i suoi colleghi sono quasi tutti andati in pensione o a lavorare per industrie metalmeccaniche.
Per quanto il processo sia ancora in pieno svolgimento, la Repubblica Ceca nel complesso e questa zona nello specifico possono essere considerate una vetrina per la transizione giusta, o almeno questo è sembrato il messaggio lanciato dalla Commissione Ue nell’organizzare qui un viaggio stampa e la premiazione del concorso Regiostars 2023. Le cose, in altre zone dell’Unione, sono molto più complesse. E il futuro di lavoratori come Dalibor molto più in bilico.
Il 31 dicembre 2025 è la scadenza che l’Italia si è data per abbondanare il carbone. Quel giorno la Centrale Enel Grazia Deledda, in Sardegna, chiuderà. La fine dell’impianto, l’unica grande struttura sopravvissuta alla crisi industriale della regione meridionale del Sulcis Iglesiente, causerà perdite stimate tra i 400 e 1200 lavoratori, tra diretti e indiretti.
«Il Sulcis, che ha già un reddito pro capite bassissimo, sta iniziando a spegnere tutto. Se muore anche la centrale è davvero finita» ha raccontato a Slow News Marco Pisu, operatore di una ditta d’appalto della centrale.
La chiusura sarà posticipata, secondo Pisu, ma lo stesso non vale per la scadenza del JTF: il 70 per cento del fondo va speso entro fine 2026, il resto entro il 2029. La lentezza della Regione Sardegna ha già sprecato occasioni di rilancio per il Sulcis e, visto che non si sa quando apriranno i bandi, c’è il rischio concreto di mandare in fumo centinaia di milioni di euro. Oppure, considerati i precedenti nazionali con i fondi di coesione, di spenderli all’ultimo minuto per progetti poco efficaci. Tra i sindacati, la preoccupazione è forte.
A Taranto, il processo è, almeno in parte, più avanti: il comune ha definito 4 progetti per 250 milioni di euro, che aspettano l’apertura dei bandi per l’approvazione definitiva. «Abbiamo l’approvazione tecnica per questi progetti da parte dell’agenzia europea Jaspers, ma non ancora le regole per andare avanti e la disponibilità dei fondi» riferisce a Slow News Fabrizio Manzulli, vicesindaco e Assessore allo sviluppo economico di Taranto. A livello regionale e governativo vanno cioè definite alcune procedure prima che i bandi possano aprire. «C’è un ritardo – continua Manzulli – ma lo considero abbastanza normale perché il Sulcis e Taranto stanno facendo da apripista per la transizione: è una misura europea del tutto nuova».
Guardando allo stato di avanzamento del JTF, il confronto tra Repubblica Ceca e Italia è impietoso: da un lato, 32 progetti d’importanza strategica definiti e 302 proposte ricevute in 41 bandi per 800 milioni di euro; dall’altro, 2 progetti strategici e bandi ancora chiusi. C’è però sempre chi fa peggio: la Bulgaria ha già perso 98 milioni del JTF per non aver definito entro il 2022 il piano territoriale, cioè il documento programmatico per accedere al fondo (l’Italia era riuscita a farlo approvare a due settimane della scadenza). Se non consegnerà il piano nemmeno quest’anno, come probabile, perderà altri 800 milioni su un totale di 1.3 miliardi.
Aggiornamento: il 21 dicembre 2023 la Commissione Europea ha approvato il piano territoriale della Bulgaria, che è così diventata l’ultimo stato Ue a definire un programma per la giusta transizione. Il budget JTF per la Bulgaria è di 1.2 miliardi.
Come visto, il JTF aiuta le regioni carbonifere e delle industrie pesanti. Ma chi resta fuori? Per esempio le regioni automotive, cioè legate all’industria dell’auto, che in Ue dà lavoro a 13.8 milioni di persone tra occupati diretti e indiretti.
Per questi territori lo stop alla vendita di motori a combustione dal 2035 e il conseguente passaggio a una maggiore produzione di auto elettriche potrebbe portare a problemi occupazionali. Secondo l’Associazione europea dei fornitori automotive, che ha chiaramente interesse a tenere alta l’attenzione, l’elettrificazione del trasporto stradale genererebbe 226mila nuovi posti di lavoro, ma ne potrebbe mettere a rischio circa mezzo milione.
Raccogliendo anche queste preoccupazioni dell’industria automobilistica, la Commissione per lo Sviluppo Regionale del Parlamento europeo ha approvato la proposta di un nuovo JTF per questo settore, che potrebbe riguardare la programmazione dei fondi post 2027. La mozione dovrà essere votata dalla plenaria del parlamento e vede tra i suoi promotori anche la rete Alleanza delle regione automotive, che include nove regioni italiane.
La Commissaria per la coesione Ferreira, però, preferisce guardare al presente. «La credibilità della politica di coesione dipende da come la usiamo quando abbiamo a disposizione questi mezzi storici. Per favore, concentratevi su quel che abbiamo a disposizione ora» ha detto a Slow News interrogata sulle possibili estensioni del JTF. Ha poi sottolineato che l’Italia deve accelerare per non perdere le tante risorse a disposizione: non solo quelle del JTF (come raccontiamo qui), ma anche del PNRR, degli altri fondi di coesione 2021-2027 e di quelli restanti dalla programmazione 2014-2020.
La risposta pragmatica della commissaria, tuttavia, rassicura ben poco chi oggi è fuori dal meccanismo per la “giusta” transizione. E il discorso va oltre l’automotive: il focus dell’intervento Ue sul carbone rischia di essere troppo limitato e non vedere, quindi aggravare, gli effetti indiretti della transizione, ad esempio su agricoltura, trasporti e turismo. Mettendo insieme questi fattori, uno studio del Cambridge Journal of Regions, Economy and Society ha calcolato che le aree più vulnerabili alla transizione sono più di quelle raggiunte dal JTF, e corrispondono alle regioni più povere d’Europa.
Il rischio è che la maggior capacità delle aree urbane ricche di assorbire e concentrare investimenti e tecnologie green, aumenti la migrazione di personale qualificato dalle regioni meno sviluppate, rendendole ancora più povere. E questo vorrebbe dire aggravare le disuguaglianze territoriali, e non contrastarle come in teoria si proporrebbe di fare la politica di coesione. In altre parole: gli ultimi rischiano di restare ultimi, probabilmente ancora più indietro.
«Il caso del Just Transition Fund – riporta lo studio – è emblematico. Sebbene la missione del fondo sia ambiziosa […], il suo budget di 17,5 miliardi di euro (prezzi del 2018, ora è 19,5, ndr), è tuttavia ben al di sotto delle proposte della Commissione e del Parlamento (40 miliardi, ndr) ed è stato ritenuto inadeguato a coprire il suo ambito di azione. Saranno necessari altri interventi olistici e di ampio respiro per affrontare le ramificazioni negative territorialmente differenziate della transizione verde».
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