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Come stiamo usando le tecnologie per un lavoro sul 2 agosto 1980
La digitalizzazione dei servizi pubblici sta accelerando anche in Italia. Ma gli anziani rischiano di restare indietro. Come evitarlo?
«Una volta, avevo chiesto a una vecchina di portare il telefono. Io intendevo lo smartphone, ovviamente, ma lei è arrivata con il telefono fisso, quello con il filo e la cornetta! Non ci eravamo capiti e lei l’aveva staccato dalla presa e portato in Comune in una scatola rossa. Me la ricordo ancora, ho fatto anche una foto», racconta Giuseppe Milano, ridendo.
Trentun anni, toscano, Giuseppe Milano ha lavorato per più di due anni come facilitatore digitale a Reggello, un comune sulle colline a sud di Firenze con 16 mila abitanti, di cui circa quattromila sopra i 65 anni. A Reggello, Milano aveva il compito di aiutare i cittadini e le cittadine a districarsi tra le novità digitali che sono sempre più presenti nella pubblica amministrazione.
In un momento in cui l’Italia, dopo anni di ritardi, sta investendo molto in questo ambito e sta facendo passi in avanti significativi, la sua è un’esperienza concreta e importante per capire effettivamente opportunità e rischi della transizione in corso.
Il nostro, ha spiegato la Commissione Europea presentando gli ultimi risultati dell’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (Desi), è uno di quei paesi, insieme a Polonia e Grecia, che «hanno migliorato notevolmente i loro punteggi Desi negli ultimi cinque anni, realizzando investimenti consistenti grazie a una maggiore attenzione politica al digitale, anche con l’aiuto dei finanziamenti europei».
Secondo il rapporto, uno degli ambiti dove il nostro paese ha registrato i miglioramenti più significativi è proprio quello dei servizi pubblici digitali. E lo Spid, il Sistema Pubblico di Identità Digitale, può essere considerato il simbolo di questa trasformazione. «Ne ho fatti un sacco di Spid, almeno uno al giorno. Ne avrò fatti un milione», scherza Milano. Eppure il suo vissuto è in linea col dato nazionale.
A inizio 2020, le identità digitali erogate erano 5 milioni 600mila. Praticamente due anni dopo, sono arrivate ad essere 33,7 milioni (dato al 31 gennaio). Una crescita molto forte che, lo scorso settembre, è stata analizzata dall’Osservatorio Digital Identity del Politecnico di Milano.
A crescere non sono solo i rilasci, ma anche gli accessi. «Nel 2022 – ha spiegato l’osservatorio in un comunicato – Spid è stato mediamente utilizzato dagli italiani 25 volte l’anno (crescita del 14%), contro le 22 del 2021 e le 9 del 2020. Emerge un utilizzo sempre meno trainato da obblighi normativi, come l’accesso al cashback o al proprio green pass, e sempre più spinto in modo “organico” da servizi chiave per il cittadino».
In pratica, il rapporto digitale con la pubblica amministrazione sta pian piano diventando parte della quotidianità degli italiani e delle italiane. Ma è davvero così per tutti e tutte?
L’Osservatorio Digital Identity sottolinea come la diffusione dello Spid non sia omogenea «né per fasce d’età né per area geografica». Si va da una dato del 74% nel Lazio a uno del 52% in Molise e, soprattutto, da copertura praticamente totale nella fascia 18-24 anni ad una «situazione molto diversa tra gli oltre 75 anni dove meno di 1 su 4 ha attivato la propria identità digitale». Per avere una vera digitalizzazione, trasversale a tutta la popolazione, bisogna fare maggiore attenzione anche agli anziani. Anche perché il nostro è un paese che continua a invecchiare.
«La tecnologia può essere uno strumento straordinario per accelerare l’inclusione sociale, invece la stiamo usando per creare nuove disuguaglianze», ha scritto Mirta Michilli, direttrice generale della Fondazione Mondo Digitale, un ente del terzo settore che si occupa proprio di inclusione digitale. «Non possiamo diffondere tecnologia – ha aggiunto Michilli – senza preoccuparci delle competenze d’uso, senza aiutare le persone a usare realmente i nuovi servizi digitali».
Per questo, i facilitatori digitali sono cruciali.
«Eravamo come dei nipoti che aiutano i nonni, con la differenza che noi abbiamo avuto una formazione», spiega Federica Santoro, collega di Milano a Reggello.
«Si rivolgevano a noi tanti anziani, ma non solo loro», aggiunge Milano. «Tante volte è anche una questione di lingua, per gli stranieri che non capiscono bene ma anche per gli italiani che hanno problemi di comprensione. Quando la gente ha dei dubbi e trova un riferimento, una guida, la sfrutta», racconta Milano.
Concretamente, Santoro e Milano passavano le loro ore di lavoro in due diversi uffici del Comune di Reggello, l’anagrafe e i servizi sociali, accogliendo le richieste di cittadini e cittadine e accompagnandoli a risolvere le difficoltà che incontravano, per fare lo Spid, appunto, ma anche per chiedere un sostegno o ottenere un documento. Il tutto senza sostituirsi al lavoro degli impiegati comunali, ma svolgendo compiti che questi non hanno né il tempo né, a volte, le competenze per fare.
«Spesso», continua Santoro, «gli anziani arrivano col presupposto che il digitale è una cosa che non capiranno. In tanti ci hanno detto: “Meno male che ci siete e che non devo pagare nulla”». A pagare, infatti, ci ha pensato l’Unione Europea. E, in particolare, la sua politica di coesione.
Santoro e Milano hanno iniziato il loro operato nel 2020 nell’ambito del Servizio civile regionale che la Toscana, dal 2015, finanzia grazie al Fondo sociale europeo (Fse) e, in particolare, alla linea che promuove l’occupazione giovanile. I due facilitatori hanno partecipato a un progetto che ha coinvolto altri 220 giovani circa ed è stato coordinato da Anci Toscana. È stato chiamato Botteghe della salute, prevedeva molte altre attività oltre alla facilitazione digitale e Hilde March ne è stata la responsabile e spiega che «la facilitazione digitale è stata finanziata al 100 per cento dal Fondo sociale europeo. Senza quei contributi, non si sarebbe potuta fare».
Milano ne è consapevole. «Sappiamo da dove vengono i fondi: la scritta Fse l’abbiamo vista un sacco di volte, ovunque, l’avevamo anche sulla scrivania», dice. Le attività che lo hanno coinvolto sono proseguite anche quando le risorse Ue della programmazione 2014-2020 si sono esaurite. Per quasi tutto il 2022, i facilitatori digitali sono stati pagati direttamente dalla Regione Toscana, con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Poi, però, a fine anno, la loro esperienza è terminata.
Il discorso però è tutt’altro che chiuso.
Il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza post pandemia finanziato dall’Ue, destina il 21%dei suoi 191 miliardi proprio alla missione che include digitalizzazione, innovazione e competitività. E tra le iniziative avviate c’è anche un Servizio civile digitale, a livello nazionale.
Anci Toscana ha già partecipato a un primo bando per 50 posti sui servizi di sanità digitale, un altro da 120 posti dovrebbe arrivare presto e l’obiettivo, riprende March, è «ampliare gli obiettivi dalla facilitazione alla alfabetizzazione digitale e acquisizione dell’autonomia funzionale da parte degli utenti». Non solo. Sempre grazie al Pnrr, dovrebbero essere aperti in tutta Italia migliaia di Centri di facilitazione digitale nel triennio 2023-25. Alla Toscana ne spettano 169.
Nuove possibilità potrebbero quindi aprirsi per i facilitatori come Santoro e Milano. Quest’ultimo, nel frattempo, lavora su turni nel punto vendita di una grande catena di elettronica.
«Il nostro lavoro di facilitatori – riflette – aveva una grande umanità. Mentre aiutavi un anziano a fare lo Spid, questo ti raccontava un sacco di cose. Si capiva che, in un mondo digitale freddo, cercavano il contatto con le persone. È quello che faccio un po’ anche adesso, in negozio. Agli anziani vendo i cellulari, ma ci chiacchiero anche».
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