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Vi è mai capitato di imbattervi in quelle pubblicità per giochi per smartphone oggettivamente… brutte, per non dire irritanti?
Quelle pubblicità in cui, magari, viene mostrata direttamente una schermata di gioco, la simulazione di una partita, e la soluzione è ovvia, sarebbe semplicissima… eppure, il giocatore (fittizio) sembra proprio non vederla?
La strategia dietro queste pubblicità è chiara, ed è stata ampiamente approfondita da Sherwood: sfruttare la frustrazione per stimolare l’azione, ovvero il download del gioco. Questo fenomeno, conosciuto come rage bait, consiste nel creare esperienze pubblicitarie volutamente irritanti o assurde, in cui gli spettatori vedono errori e scelte controintuitive ripetute da un finto giocatore. Di fronte a queste situazioni, la frustrazione cresce fino a spingerci a scaricare il gioco, con l’intenzione di fare meglio e risolvere il gioco in prima persona.
Tra gli esempi più noti vi è il gioco “Royal Match”, che utilizza l’immagine di un re in costante pericolo, intrappolato in stanze piene di trappole e ostacoli. Questi spot, spesso ingannevoli, mostrano un gameplay che raramente riflette l’effettiva esperienza di gioco. Come rilevato da MobileAction, “Royal Match” è stato uno dei giochi più pubblicizzati sull’App Store, accumulando guadagni per oltre tre miliardi di dollari dal lancio, segno che la strategia del rage bait funziona.
Il ricorso a pubblicità fuorvianti non è, però, limitato a “Royal Match”. Esistono molti altri casi in cui il gameplay presentato negli annunci è del tutto diverso da quello reale. Questa pratica ha spinto alcune aziende a creare parodie dei giochi promessi: un esempio è il titolo di Monkeycraft “Yeah! You Want ‘Those Games,’ Right? So Here You Go!”, che permette di giocare i mini-giochi proposti nelle pubblicità, ma che non sono mai stati realizzati nella versione effettiva dei giochi.
Nonostante l’insoddisfazione dei consumatori, il settore continua a investire in queste strategie poco ortodosse. Si tratta di una vera e propria industria, con un fatturato annuale stimato intorno ai 90 miliardi di dollari, superiore persino a quello dei videogiochi su console tradizionali. Tuttavia, l’uso di pratiche come i dark patterns (elementi di design ingannevoli che guidano il pubblico a interazioni non desiderate) sta attirando l’attenzione delle autorità di regolamentazione. Negli Stati Uniti, la FTC ha già multato aziende come Tapjoy e, recentemente, Epic Games, per l’uso di questi schemi manipolatori.
Questa situazione crea anche sfide per gli sviluppatori più piccoli e per le aziende pubblicitarie di mobile gaming, che cercano di attrarre grandi marchi verso la piattaforma, scontrandosi con la cattiva reputazione del settore. Come sottolineato da diversi esperti, solo gli sviluppatori più grandi dispongono di team legali in grado di garantire la conformità alle normative pubblicitarie; le aziende minori, al contrario, adottano un approccio più rischioso, a scapito di una trasparenza effettiva.
L’efficacia di queste strategie è indubbia, ma solleva domande etiche su come l’industria del mobile gaming continuerà a evolversi e se il successo attuale possa spingere il settore a raggiungere un miglior equilibrio tra profitto e responsabilità nei confronti dei giocatori.
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