
Un articolo del 1972 uscito in Olanda che parla di qualcosa che a distanza di più di 50 anni, qui in Italia, è ancora la normalità.
Quasi tutti i giornali, quando devono scegliere una parola per indicare quella categoria di articoli che parlano di come ci muoviamo, la maggior parte di loro sceglie un nome che rivela l’ombra di una presenza enorme. Quale? Quella delle auto.
Vediamo come. È interessante.
In Italia come funziona? Il Corriere della Sera ha la sezione Motori, come anche la Repubblica e La Stampa; Domani non ha nessuna categoria specifica e quando parla di mobilità usa, a seconda delle volte, Economia, Politica o Ambiente; il Post ha, anche se nascosta, la categoria Auto, con tanto di landing page dedicata.
E all’estero? Il Guardian ha la categoria Cars, che però nella tassonomia della url diventa technology/motoring; Le Monde opta per un Industrie Automobile scisso da Trasports. Mentre il NYTimes ha Automobiles.
Tutte queste etichette rivelano un’abitudine all’esclusione, ovvero a vedere la mobilità attraverso l’unica prospettiva del conducente di un’automobile. È abbastanza chiaro il perché: l’industria delle auto pesa tantissimo sulle entrate pubblicitarie di tutto il giornalismo, in ogni parte del mondo. È l’ombra nascosta di cui sopra.
Qui su Slow News, invece, usiamo una categoria inclusiva: Mobilità.
Lo vogliamo fare perché consideriamo che muoversi sia un diritto per tutte le persone, al di là del fatto che abbiano o meno i soldi, le abilità fisiche o l’età per guidare una macchina.
Lo possiamo fare, invece, perché l’industria di qui sopra non ha nessun controllo su quello che facciamo. Perché i soldi che ci finanziano non vengono da lì, e più in generale non vengono dalla pubblicità.


Un articolo del 1972 uscito in Olanda che parla di qualcosa che a distanza di più di 50 anni, qui in Italia, è ancora la normalità.

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