Case vecchie, abitanti nuovi
Il Comune di Biccari ha investito negli spazi pubblici grazie ai fondi di coesione UE. Quindi, ha annunciato la vendita delle abitazioni vuote a un euro.
Come è andata?
A Biccari, il turismo è integrato in un disegno di sviluppo locale. Ma nelle aree interne e rurali non è sempre così. Da dove si comincia?
Biccari è un paese della Puglia dove, più che in altri luoghi, gli effetti della politica di coesione UE si vedono. Siamo andati a scoprirli con Sarah Gainsforth, tra case in vendita a un euro e boschi multifunzionali
Negli ultimi quindici anni, centinaia di panchine giganti sono comparse in molti paesaggi italiani.
Sono dei ‘marker’ turistici, dei segni diventati attrazioni, che si sono imposti in molti territori dalle Langhe in giù.
«Il design delle Big Bench, protetto da copyright, viene concesso a titolo gratuito per la realizzazione di una panchina gigante», si legge sul sito dell’iniziativa, chiamata Big Bench Community Project. L’unica condizione è che vengano rispettati tutti gli elementi che caratterizzano, non il paesaggio nel quale la panchina verrà installata (come sarebbe lecito aspettarsi), ma «la visione di Chris». Chris è Chris Bangle, un designer statunitense che si è trasferito con la moglie in un paese nelle Langhe, Clavesana, e qui, nel 2009, ha installato la prima panchina. Secondo la sua visione, sedersi sopra questi manufatti giganti aiuterebbe a guardare il paesaggio con un nuovo punto di vista: quello di chi si sente piccolo.
Per i critici dell’iniziativa, invece, il punto di vista proposto dalle big bench è un altro, quello urbano e turistico che vede i paesaggi come parchi-gioco. Secondo l’antropologa Irene Borgna, questi grandi oggetti somigliano a «invadenti insegne lampeggianti» che rivendicano attenzione.
Si vuole essere visti, è comprensibile. Ma il problema è voler essere visti da fuori, specchiarsi in una narrazione turistica di sé costruita altrove. Non c’è più differenza, infatti, tra lo sguardo turistico e quello degli abitanti: «La montagna è asservita ai turisti perché i locali vogliono che questi accorrano numerosi a riempire le casse del settore», scrive ancora Borgna.
I luoghi si adattano allo sguardo turistico anziché far adattare i visitatori al luogo, la cui unicità non è certo rappresentata da una delle 379 panchine giganti che ad oggi sono sparse per l’Italia. È un meccanismo di adattamento che trasforma i territori, omologandoli a uno standard turistico unico. Infatti, c’è chi protesta e si oppone a nuove installazioni.
Le panchine che dovrebbero servire per attirare il turismo, quindi, possono anche essere viste come un gigante promemoria dei suoi maggiori limiti. Il modello di sviluppo urbanocentrico, industriale e capitalista, sempre più basato sul turismo e sull’estrazione di valore dai territori, ha dimenticato le aree interne. Che senso ha allora, riproporre quello stesso modello proprio nei territori che finora ha ignorato?
Per tutti questi motivi, quando ho scoperto che anche il comune di Biccari aveva installato una panchina gigante, ero contraria all’idea di andare in questo paese di 2.700 abitanti sui Monti Dauni, in Puglia.
Ma ci sono andata, e ho cambiato anch’io punto di vista.
Scoprendo i progetti in corso a Biccari, la panchina è finita sullo sfondo.
Il punto, infatti, non è la panchina gigante, ma tutto il resto.
Per ripopolare Biccari, negli ultimi quindici anni sono stati avviati una varietà di progetti, portati avanti da una varietà di soggetti, pensati per una varietà di persone, tra cui i nuovi abitanti. Gli esempi più efficaci sono la cura del bosco, la creazione di servizi come la ludoteca e la biblioteca, il recupero delle case e la loro destinazione all’affitto anche a famiglie a basso reddito. Tutte iniziative rese possibili dall’impegno dalla sindaca attuale e di quello passato, della giunta, del personale amministrativo del Comune, della cooperativa di comunità, dei gestori del parco avventura e delle tante associazioni locali.
A Biccari la promozione del turismo è soltanto una parte di una strategia più ampia fatta di tanti interventi, da parte di una comunità abitante insieme all’amministrazione. Il turismo è integrato in un disegno di sviluppo che tiene insieme tutti questi aspetti, con un’attenzione alla filiera locale di produzione e commercializzazione che dà un senso anche al turismo.
Se nelle intenzioni di Chris Bangle le panchine giganti dovrebbero contribuire «a sostenere le comunità locali, il turismo e le eccellenze artigiane dei paesi in cui vengono posizionate», in moltissimi paesi non è rimasto neanche un bar. Bisogna fare chilometri in automobile su strade malmesse per prendere un caffè, comprare le sigarette, andare alla posta, in farmacia o in banca, fare la spesa. E di eccellenze artigiane o di produzioni agroalimentari locali spesso non c’è neanche l’ombra.
È proprio questo il problema.
È inutile costruire «invadenti insegne lampeggianti» e percorsi turistici se poi manca tutto il resto.
A innescare processi endogeni di sviluppo locale, non può essere certo una panchina, nemmeno gigante.
Il punto è l’inversione dello sguardo e dell’ordine degli interventi: non si parte dal turismo. Altrimenti si finisce come Castiglioncello, un albergo diffuso di lusso, o come Chiusure, frazione del Comune di Asciano, che rischia di diventare un parco-giochi per le sperimentazioni artistiche di un investitore miliardario. Insomma, si finisce come i tanti “borghi”, diventati alberghi diffusi e svuotati di vita.
Se l’insostenibilità del turismo nelle città non è più tabù ed è raccontata ormai anche dai media ‘mainstream’, resiste però la convinzione, diffusa e infondata, che il turismo aiuti a ripopolare i paesi. Resiste la credenza che il turismo sia una risorsa per contesti urbani minori, paesi spopolati e aree interne marginalizzate da quel modello di sviluppo urbanocentrico oggi in crisi.
Da dove viene questa convinzione, spesso interiorizzata dagli abitanti? La “turistificazione” è un processo di mercificazione, di estrazione e di creazione di valore economico in cui la risorsa non è il turismo ma il territorio. Perché allora il turismo dovrebbe produrre effetti diversi a seconda di dove atterra? Anche i paesi rischiano di diventare resort turistici per ricchi, mentre un’ampia fetta di popolazione, che non si può permettere neanche una vacanza, resta intrappolata in città sempre più torride.
Non esiste un turismo ‘buono’ e un turismo ‘cattivo’. Esistono semmai le politiche che determinano che tipo di impatto il turismo produce, quanto è sostenibile, quanto è economicamente integrato. Il problema è che sono proprio le politiche pubbliche ad anteporre il turismo a tutto il resto, nelle strategie di crescita urbana, nei programmi di sviluppo locale rurale e nelle misure, tra cui quelle di coesione europea, che promuovono queste strategie.
La convinzione che il turismo possa ripopolare aree interne e marginalizzate viene insomma da lontano, e viene dall’alto.
A partire dalla metà degli anni Ottanta c’è stata una “riscoperta” della dimensione locale e della rivalutazione dei suoi fattori di sviluppo. La crisi del modello di sviluppo fordista, industriale e centralizzato ha riportato l’attenzione alla piccola e media impresa, alla rete urbana minore, allo sviluppo periferico, agli spazi fino ad allora trascurati e considerati marginali. Si è iniziato a parlare di “sviluppo locale”, della capacità di crescita dal basso dei territori, della dimensione territoriale come fattore strutturante di sviluppo «attraverso il riconoscimento e la valorizzazione delle risorse endogene», si legge in una raccolta di casi studio di strategie di sviluppo locale in Italia. Si è iniziato a guardare al territorio non solo come «contenitore di risorse ma come fattore produttivo», risultato «di identità e di apertura».
Il passaggio da una stagione di politiche statali calate dall’alto a una di politiche regionali e locali, place-based e dal basso, avrebbe dovuto riconoscere la capacità dei territori di rispondere ai propri bisogni territoriali, ed è stata alla base della focalizzazione dell’attenzione sulle risorse locali.
Negli anni Novanta le politiche e i progetti finanziati dall’Unione Europea, come il programma Leader per lo sviluppo rurale, hanno puntato molto su un’idea di sviluppo territorializzato. Da allora il ruolo del turismo nelle politiche è cresciuto sempre di più. Secondo un’analisi di OpenCoesione, dal 2000, l’Italia ha speso più di 55 miliardi di euro di fondi nazionali ed europei di coesione per l’attrattività turistica, il 74 per cento dei quali è andato alle regioni del Sud. I fondi spesi sono cresciuti tra la programmazione 2007-2013 e quella successiva, conclusa nel 2023, mentre è ancora troppo presto per monitorare quella in corso.
Nel turismo si sono concentrate le aspettative di sviluppo di tutti, enti pubblici, aziende private e abitanti, in un processo di interiorizzazione sempre più acritico. Sulla carta, nelle strategie di sviluppo locale, il turismo è inteso come fattore di sostegno di altri settori di attività come l’agricoltura. Ma nei fatti le cose sono andate diversamente.
«Il grande fraintendimento dei primi cicli di programmazione del programma Leader, dal ’91 al ’99, è stato destinare fondi per ristrutturare case di campagna da trasformare in bed and breakfast. Chi ha provato ad avviare queste attività non rientrava delle spese oppure non riusciva a dare consistenza e continuità alle attività turistico-ricettive impiantate. Non potevano farcela, perché non era stato fatto contemporaneamente tutto il lavoro di supporto ai flussi turistici, con infrastrutture, idee, servizi…», spiega Letizia Bindi, professoressa di antropologia sociale e culturale all’Università degli studi del Molise ed esperta di aree interne.
I primi progetti del programma Leader (che è arrivato a interessare il 70 per cento del territorio nazionale) hanno finanziato soprattutto la creazione di alloggi turistici, conferma un report sul turismo rurale del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria – Crea. Il rapporto spiega che, per quanto non sia possibile «stabilire un rapporto causa-effetto tra gli interventi in ambito Leader e lo sviluppo turistico», nelle aree toccate dal programma si concentrano quasi la metà dei posti letto turistici presenti sull’intera Penisola, a cui vanno aggiunte le strutture agrituristiche, che in queste aree contano il 67 per cento del totale nazionale, contribuendo al primato italiano in Europa di strutture ricettive. Dal 2000, prosegue il report Crea, i progetti Leader di sviluppo turistico hanno «allargato i confini di competenza, recuperando il legame con l’agricoltura, attraverso gli itinerari enogastronomici e la valorizzazione delle produzioni locali». Ci si è resi conto, insomma, che il turismo non si fa solo con il turismo.
«Per fare turismo c’è bisogno di capacità ricettiva, ma c’è anche bisogno di agricoltura, di pastorizia, di altre attività, altrimenti si finisce per vendere la mozzarella fatta con il latte in polvere in città, presentata con un fazzoletto bianco e rosso come fosse quella della nonna», commenta Bindi. I territori ambiscono ad attirare la spesa turistica ma il tipo di sviluppo dipende da dove finisce la spesa, in quali settori e filiere. «Il turismo ha bisogno di attività produttive anche perché sono queste che mantengono il paesaggio» prosegue l’antropologa.
Il paesaggio toscano, per esempio, quello del Chianti e della Maremma, è il frutto di secoli di lavoro agricolo dell’uomo. Ma in Toscana proprio il turismo sta innescando la scomparsa delle attività agricole tradizionali, a partire dall’appropriazione della terra.
Un processo di sviluppo è endogeno, e quindi “dal basso”, quando si fonda sulla valorizzazione di risorse locali, è organizzato in base a modelli locali, il controllo e la proprietà delle risorse sono locali, la redistribuzione e il reinvestimento del valore aggiunto prodotto si riversa all’interno del territorio. Il turismo spesso innesca il processo opposto: le terre e le case vengono comprate da attori non locali come investimento per guadagnare sul turismo, non per rafforzare l’agricoltura e altri settori tradizionali.
In parte questo processo è dovuto alla patrimonializzazione che sottende la logica turistica. Per Bindi, «quanto più una tradizione o una pratica tende a sparire, tanto più la si patrimonializza». Viceversa, quanto più una pratica si patrimonializza, tanto più tende a sparire, perché perde la sua dimensione utilitaristica. In entrambi i casi, l’attribuzione di un nuovo valore simbolico ed economico a oggetti, pratiche e luoghi ne cancella l’uso e la vita: gli strumenti di lavoro diventano oggetti di arredamento, i paesaggi agricoli diventano resort, le botteghe diventano musei.
«Il rapporto tra la crescita della patrimonializzazione e la perdita della pratica ha a che vedere con una serie di dispositivi, relativi anche alla narrazione e alla rappresentazione dei luoghi, connessi alla nostalgia, al rimpianto, a un’idea dicotomica e spesso anche un po’ farlocca di un passato positivo, edulcorato, epurato degli aspetti duri, conflittuali, sporchi e puzzolenti… penso ad attività come la pastorizia e la mietitura. Diventa un passato estetizzato su cui si costruisce valore simbolico ed economico», spiega Bindi.
La messa a valore del rurale, sostiene Bindi, è fortemente legata alla dimenticanza, all’oblio, alla perdita, a uno sguardo “da lontano”. «La campagna è il luogo delle nostre proiezioni, un luogo mitizzato dove tutto è buono e sano come nelle pubblicità della Mulino Bianco, mentre nelle aree rurali sono in corso processi di gestione e appropriazione di beni e risorse naturali assolutamente insostenibili, anche in termini di giustizia sociale, per esempio nel campo della produzione di energie rinnovabili. L’estrazione di valore in questi territori è tangibile», sostiene l’antropologa.
Anche nelle aree interne la turistificazione è spesso una forma di estrazione che non ripopola ma produce vuoto: «c’è l’idea che questi siano territori da cui prendere, prendere benessere, prendere aria, prendere cielo, prendere il silenzio e goderne. E poi quando dovessero essere stati troppo estratti, abbandonarli. Dunque il rischio del vacuo è forte», conclude Bindi.
L’opzione contraria è la cura dei territori.
«La cura richiede uno sforzo più grande, richiede energie, persone, fondi. In questa opzione, le azioni da mettere in campo per lo stesso pezzo di terra sono infinitamente maggiori», propone Bindi.
Per costruire il futuro bisogna inventare attività, produzioni, servizi.
E i fondi per farlo ci sono.
Le aree interne hanno a disposizione il 23 per cento delle risorse Ue straordinarie stanziate dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), secondo un’analisi pubblicata nel nono rapporto Urbanit. Per quanto, come abbiamo visto, il Pnrr non sia stato scritto con una logica place-based, prevede interventi in servizi e infrastrutture che potrebbero migliorare le prospettive di sviluppo locale: mobilità, sanità, rete idrica e contrasto del rischio idrogeologico sono solo alcuni esempi degli ambiti toccati. E poi ci sono i fondi di coesione, che a Biccari e sui Monti Dauni sono stati usati per molti interventi, e che per la programmazione nazionale in corso ammontano a 75,3 miliardi di euro tra risorse europee e cofinanziamento nazionale.
Sono risorse cruciali per evitare che le aree interne restino ostaggio del passato, di una logica turistica fatta di piccole iniziative che poggiano sulle tradizioni ormai estinte, senza politiche e investimenti che guardino al futuro.
Eppure sono risorse che fatichiamo a spendere e, soprattutto, a spendere bene.
Il Pnrr, come ha appena sottolineato la Corte dei conti UE, avanza con fatica e concentrerà nel suo ultimo anno, il 2026, il 62 per cento degli investimenti previsti. I fondi di coesione dell’attuale ciclo di programmazione, invece, sono al palo e vivono ancora più difficoltà di quelle cui storicamente il nostro Paese si è abituato.
Bisognerebbe ripartire da qui: dall’utilizzare al meglio questi fondi per ciascun territorio, con una visione che parta dai luoghi, e non ancora una volta da fattori esogeni che, se non integrati in un processo di sviluppo locale già avviato, rischiano di agire secondo una logica coloniale. In tal senso, anche fare cultura è fondamentale.
«Il lavoro culturale è una leva importante di ricostruzione di senso di appartenenza e di impegno in favore delle aree più fragili e spopolate», ha scritto Bindi. Ma non ci si può limitare a questo, spiega la studiosa: «bisogna anche fare il latte, il formaggio, il grano, le cassette, i cesti, i meccanismi di precisione, l’artigianato: sperimentiamo, inventiamo attività e aziende, anche raffinate, avanzate… quello che vogliamo. Non possiamo però pensare di rigenerare i territori solo con la cultura, altrimenti diventano il parco giochi del cittadino che in estate ha caldo e in inverno vuole la casetta in montagna».
In copertina: Daunia Avventura, il parco all’interno del bosco di Biccari – Foto di Andrea Granatiero
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Biccari è un paese della Puglia dove, più che in altri luoghi, gli effetti della politica di coesione UE si vedono. Siamo andati a scoprirli con Sarah Gainsforth, tra case in vendita a un euro e boschi multifunzionali
Il Comune di Biccari ha investito negli spazi pubblici grazie ai fondi di coesione UE. Quindi, ha annunciato la vendita delle abitazioni vuote a un euro.
Come è andata?
La rigenerazione di Biccari, in Puglia, passa anche da una gestione innovativa del suo bosco. «Le foreste – per l’associazione Riabitare l’Italia – sono la più grande infrastruttura verde del paese» E i fondi Ue sono importanti per gestirle.
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A Biccari, il turismo è integrato in un disegno di sviluppo locale. Ma nelle aree interne e rurali non è sempre così. Da dove si comincia?
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