A livello europeo, però, il suo nome è legato alla politica di coesione Ue, per la quale ha scritto un importante documento, informalmente chiamato proprio “Rapporto Barca”.
Il rapporto indipendente, intitolato “Un’agenda per una politica di coesione riformata”, è uscito nel mese di aprile di quattordici anni fa. Ma è ancora oggi un punto di partenza importante per ragionare, nell’ambito del progetto A Brave New Europe – Next Generation, di quanto l’Unione Europea e il nostro Paese facciano per ridurre le disuguaglianze.
Nel 2009, nel suo rapporto per la Commissione UE diceva che una riforma della politica di coesione era necessaria per “rispondere all’aspettativa dei cittadini europei che tutti, indipendentemente dal luogo in cui vivono, siano in grado di beneficiare dei vantaggi economici derivanti dall’unificazione”. Vista oggi, la politica di coesione è riuscita a contrastare le disuguaglianze?
I fondi della politica di coesione non sono stati buttati via, sono serviti. Staremmo peggio se non ci fossero. Questi fondi, però, per gli stati Ue non sono ordinari, ma straordinari e servirebbero a far cambiare traiettoria. Hanno faticato moltissimo a farlo. In prevalenza, hanno continuato a compensare la direzione presa dall’Unione Europea.
Per quanto non siano pochissimi, i fondi della politica di coesione rappresentano pur sempre una cifra intorno allo 0,4% del Pil Ue: non bastano, da soli, a fermare e invertire l’aumento delle disuguaglianze territoriali. A meno che non vengano usati per cambiare il modo in cui vengono fatte le politiche ordinarie.
Il rapporto come proponeva di farlo?
Con un approccio place-based o, meglio, come lo definiamo oggi in italiano, un approccio rivolto alle persone e ai luoghi. É un’idea di politica di coesione che dà spazio e ruolo ai livelli territoriali.
È una logica che non è né bottom up né top down. Né dal basso né dall’alto. A livello europeo e nazionale, vengono definite delle missioni strategiche che contengono principi e grandi indirizzi. Ai livelli territoriali, queste missioni strategiche trovano la loro caduta a terra, integrandosi con i saperi che i luoghi possiedono.
Quattordici anni dopo, come vede recepite quelle idee?
Rileggere oggi quel rapporto, che porta il mio nome ma è stato redatto da un gruppo straordinario di un centinaio di persone, fa una certa impressione. Per i temi che poneva, come l’inclusione sociale, la questione demografica e la sfida ambientale. Ma anche per il metodo che proponeva.
Quelle idee hanno contaminato il linguaggio, ma non sono state abbracciate dalla politica. Non aver seguito un approccio davvero place-based ha frenato l’efficacia della politica di coesione. E questo è successo perché la classe politica e dirigente europea è ancora lontana da un approccio rivolto alle persone e ai luoghi.
Che cosa intende concretamente?
I funzionari di alcune direzioni generali della Commissione Europea, così come le classi dirigenti intorno ai capi di Stato e di governo Ue sono sordi. Non ascoltano cosa hanno da dire i territori, con i loro saperi e le loro aspirazioni. Pensano che esprimano solo bisogni e sofferenza che si possono vedere nei dati e non, appunto, ascoltando le persone che vivono in quei luoghi.
Faccio un esempio concreto. In una zona interna dell’Italia, un’associazione valdese ha lavorato su come dare le terre del Comune ai giovani che vogliono tornare a fare agricoltura in quel luogo. Si tratta di una modifica di nove parole ad una normativa, che renderebbe il processo possibile e facile. Eppure questa modifica, frutto di un sapere molto avanzato che si è sviluppato in un preciso territorio, non è ancora stata fatta da nessun governo. Ogni tanto, però, in quell’area interna arrivano dei soldi, distribuiti con atteggiamento caritatevole e molto meno utili di quella modifica per i terreni ai giovani.