Come si aggiusta l’Unione Europea?

Tutti i passi da compiere per realizzare il progetto dei padri fondatori

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L’Europa non potrà farsi un una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l’azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania.
Robert Schuman, 9 maggio 1950

Quando Robert Schuman, il ministro degli esteri francese degli anni subito dopo la seconda guerra mondiale, pronunciò la dichiarazione che decretò l’Unione Europea come progetto politico, probabilmente non aveva idea di quanto quelle sue parole fossero profetiche.

Quel discorso, considerato il primo in cui compare il concetto di Europa unita, definisce al contempo la forza e il limite di un disegno politico che avrebbe richiesto anni per essere portato a compimento. Lo stesso che ancora oggi, nonostante più di mezzo secolo, stenta ad essere ultimato e definito. ​​​​​​​​​​​​​​

Il fatto che, anche secondo uno dei padri fondatori, per costruire l’Europa sarebbero occorsi diversi passi e un tempo non breve, è oggi una realtà storicizzata.

E la creatura ibrida che siamo abituati a chiamare Europa, infatti, non è che una specie di versione beta di quel progetto pensato appena dopo la seconda guerra mondiale. Con tutti i limiti che questo comporta.

Per cercare di capire meglio quali sono i passi necessari perché questo progetto possa essere portata a compimento, abbiamo parlato con Carmelo Cedrone, vice presidente della Commissione Economica del CESE (Comitato Economico e sociale Europeo) e membro dell’Ufficio di Presidenza. Negli anni, Cedrone ha svolto una lunga attività di dirigente sindacale a livello nazionale, europeo ed internazionale, con esperienza in molti organismi della Ue e dell’ONU. Negli ultimi anni, poi, ha insegnato Politica Economica Europea all’Università “La Sapienza” di Roma, ed attualmente i suoi studi si stanno concentrando sulla cosiddetta crisi dell’UEM (Unione Economica e Monetaria) e dell’Euro sulla base delle conseguenze della crisi finanziaria (e poi economica) del 2007.

Data la sua personale conoscenza delle dinamiche di palazzo di Bruxelles, con lui abbiamo provato a mettere nero su bianco quali sono i limiti di questa ‘unione a metà’, e in che modo questi possono essere superati per portare finalmente a compimento il disegno dei padri fondatori.

La Conferenza sul futuro dell’Europa

Nel 2019, in occasione dei 70 anni della Dichiarazione di Schuman, del 9 maggio 2020, il premier francese Emmanuel Macron ha lanciato l’idea di una “Conferenza sul futuro dell’Europa”, un grande tavolo di discussione, nato nel tentativo di pensare l’Europa di domani.

L’appuntamento, che già stentava a decollare nelle ore dopo il suo concepimento è stato poi rinviato a causa della pandemia da Covid-19. La conferenza è quindi iniziata nel maggio del 2021, producendo però, almeno ad oggi, risultati poco visibili.

Stando a quanto si legge, dovrebbe funzionare con un meccanismo chiamato “dialoghi di cittadinanza”, ovvero delle proposte fatte dal basso, in maniera diretta, dai cittadini europei.

Coinvolgerli in prima persona per provare a farli sentire attivamente parte del progetto è – almeno in teoria – il punto di forza della proposta, per cercare di far sembrare l’Europa non solamente un ente astratto titolare di un apparato burocratico.

Cedrone, fortemente critico nei confronti della conferenza, ha espresso le sue perplessità in un interessante articolo d’opinione su formiche.net.

Un soggetto economico ancor prima che politico: il peccato originale dell’Europa unita.

Quando parliamo dell’idea di Europa che avevano i padri fondatori, facciamo riferimento a un continente federale, ovvero un’unica grande nazione che contiene al suo interno i singoli Stati. Sulla base di questa idea, le competenze sono ripartite tra stato sovranazionale e singoli entità statali. Così, questa Europa immaginaria avrebbe le chiavi della politica interna, estera, economica, in materia di salute eccetera. Ai singoli stati, poi sarebbero demandate alcune competenze specifiche relative ai singoli territori.

Nel corso degli anni, però, questa idea è stata osteggiata proprio dalle varie realtà statali che si sono poste in difesa dei propri interessi nazionali.

Il racconto di Cedrone parte proprio da questo, cercando di rivedere la narrazione – tanto suggestiva quanto retorica – di un grande paese che dalle ceneri della guerra tirò fuori il Manifesto di Ventotene scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel 1941.

Il sindacalista mette in chiaro fin da subito che – diversamente dal comune sentire – l’idea di Europa è nata partendo da un’esigenza economica, e non da un volere politico.

“Nei giorni subito successivi al ‘45 – comincia il professore -, gli alleati, e in particolare gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, iniziarono a porsi il problema di che cosa fare dell’Europa del dopoguerra, che forma darle, e poi naturalmente quale destino pensare per la Germania, che era stata la causa principale della guerra. All’epoca l’esigenza primaria era impedire ai tedeschi di potersi riarmare, limitando così fortemente anche il loro potere economico, che pesava fortemente sull’industria bellica. Allora, alcuni proposero di distruggere le miniere tedesche, minandole o inondandole con l’acqua”.

Così, continua Cedrone, Jean Monnet ebbe un’idea: “Perché invece di smantellarle non proviamo a utilizzarle e a gestirle insieme? È così che nasce la Ceca, la Comunità del Carbone e dell’Acciaio, ma soprattutto è così che nasce l’Europa”.

Ed è qui che Cedrone individua in qualche modo il peccato originale della nascita dell’Unione: “l’Europa degli inizi, quindi, non si è fatta con quell’intento politico – dice – ma economico. Ed è anche per questo che oggi il disegno dei padri fondatori rimane incompiuto”.

“Così – continua il sindacalista -, per quanto pragmatico, il primo passo è nato sbagliato. E lo è stato anche in riferimento alla richiesta culturale che c’era, ovvero quella di chi voleva un’unione federale, l’abolizione degli stati nazionali in favore di un grande soggetto politico per fronteggiare le sfide del secolo prima e del nuovo millennio poi”.

Una politica estera comune: la seconda grande mancanza di questo soggetto politico ibrido

Com’è facile intuire, questo inizio un po’ zoppo ha condizionato tutto fortemente l’evolversi del progetto politico. A questo, poi, devono aggiungersi gli interessi degli stati nazionali, che poco ci tenevano a ridurre le proprie competenze per consegnarle all’Europa unita. Una prima dimostrazione di questo la si ebbe già nel ’54, quando la Francia pose il veto sul tentativo di creare la Ced, la Comunità Economica di Difesa. “E questo, la mancanza di un esercito continentale e quindi di un organismo che decida concretamente la politica estera del continente, rimane il secondo grosso limite della creatura incompiuta che siamo abituati a chiamare Unione Europea”, dice il professore.

E nonostante, nel 1957 con la firma dei Trattati di Roma, il soggetto politico sembrava potersi definire, quella che ne nacque fu ancora una creatura che poggiava su basi economiche e non politiche: la Cee, la Comunità Economica Europea.

Sicuramente, come premette lo stesso Cedrone, mettere insieme le volontà dei singoli stati non era cosa facile, sia per una questione di interessi – come detto – che per quanto riguarda delle radici propriamente culturali. Basti pensare all’infinita trattativa in atto da anni per l’ingresso nell’Unione della Turchia, o, ancora di più, la questione che riguarda gli Stati Uniti e la pena di morte. “Nonostante ‘l’America’ sia considerata da sempre la più grande democrazia del mondo, la sua struttura federale ha richiesto – prima di tutto – una guerra per essere definita”. Il conflitto, passato alla storia come ‘la Guerra di Secessione’ è servito prima di tutto a mettere insieme stati che avevano delle idee culturali e politiche diverse, cercando di offrire loro dei vantaggi dalla creazione di un unico grande stato federale. Oggi gli Stati Uniti sono questi, eppure, nonostante questo, in alcuni stati è ancora presente la pena di morte e in altri no. Questo dettaglio, però, riesce comunque a far convivere sotto la stessa bandiera stati diversi, perché di base c’è la volontà politica di questi di pensarsi come un’unica grande nazione piuttosto che un puzzle di tante piccole realtà. È vero, ognuno di questi stati conserva gelosamente tante delle proprie competenze, ma quando si muove l’esercito degli Stati Uniti, non si muovono cinquanta eserciti diversi, si muove un’unica forte armata.

La Germania: il paradosso dopo la caduta del muro e lo spread

Un ulteriore e più grande limite, poi, è da individuare in quanto accaduto nei giorni subito dopo la caduta del Muro di Berlino, nel novembre del 1989. La riunificazione della Germania fece sì che questa potesse diventare economicamente più forte di quanto già non fosse. “E – dice Cedrone – se fino ad allora il suo condizionamento era solo economico, da quel momento in poi divenne anche politico”.

“Quando cadde il Muro – spiega ancora Cedrone – quando il destino era incerto e la Germania viveva momenti di spaesamento, Mitterrand e lo stesso Delors chiesero a Kohl la fine del marco tedesco. Di fatto però, in quel modo, la Francia chiedeva alla Germania la possibilità di creare una moneta unica. È ciò che è accaduto dopo che fa la differenza”.

Chiedendo il permesso a Kohl, la Francia metteva i tedeschi nelle condizioni di dettare legge, ponendo sì le basi per una moneta unica, ma finendo per mettere semplicemente l’economia tedesca a capo di quella europea.

“In quella circostanza – commenta Cedrone – siamo stati provinciali. Lo stesso Romano Prodi, presidente della Commissione Europea dal 1999 al 2004, si era messo troppo nelle mani di Khol. Così facendo, la Germania non solo non perse nulla in termini economici, ma fu legittimata come economia di riferimento anche nella costruzione del progetto europeo”.

Secondo Cedrone, quello che avvenne con il Trattato di Maastricht (1992), ovvero l’unione economica e monetaria, nei fatti, fu un errore per le modalità con cui fu messo in atto. “Oggi – dice il professore – dal punto di vista monetario noi non abbiamo una moneta comune, noi semplicemente usiamo la stessa moneta. Date le politiche economiche differenti, è come se avessimo un marco camuffato da euro. Ed è impossibile avere una moneta unica con 19 stati con politiche economiche differenti, con politiche fiscali differenti e soprattutto con dei debiti diversificati. Semplicemente usiamo uno strumento che si chiama con lo stesso nome. L’esempio lampante di ciò è proprio la questione dello spread: noi dovremmo avere un riferimento all’euro generale, un parametro unico per tutti i paesi dell’Unione, invece cosa avviene? Abbiamo il riferimento alla Germania e ai titoli di stato tedeschi, come se loro avessero ancora il marco. E come è possibile dire di avere la stessa moneta se poi io pago un debito all’8% e la Germania sotto lo 0%? Che moneta unica è? Sarà unica ma non è comune”.

Il problema dei problemi: la suddivisione delle competenze

Come anticipato, secondo Cedrone ciò che manca davvero all’Unione Europea per come la conosciamo oggi è una corretta suddivisione delle competenze. In particolare, il sindacalista fa riferimento al “potere decisionale su alcune materie, la spartizione delle responsabilità tra gli stati nazionali e l’Unione”. Oggi, queste sono divise in tre grandi categorie: le competenze di Bruxelles, quelle in mano ai singoli stati e quelle concorrenziali, in cui entrambi gli organismi possono intervenire e su cui possono decidere. “Il problema è che quelle in cui l’Ue decide in maniera autonoma sono pochissime, e nessuna di fatto è di carattere politico. È questo il più grosso dei limiti. All’Unione dovrebbe spettare invece la possibilità di decidere rispetto alle materie che interessano davvero la vita dei cittadini come la sicurezza, sia interna che esterna, le questioni relative all’immigrazione o al terrorismo, la politica estera o la salute. Perché poi accadono cose come la pandemia o gli attentati terroristici e non sai come affrontarle. Perché le polizie non si scambiano le informazioni di intelligence in merito ai terroristi, ad esempio. L’Unione deve avere potere decisionale stretto su 5 o 6 materie, deve fare questo salto e non mettersi a legiferare sulla regolamentazione delle palline da tennis. Serve un cambio di approccio, serve cambiare il rapporto decisionale tra il livello di Bruxelles e gli organismi vari come il Parlamento, la Decisione e il Consiglio. Serve eliminare il diritto di veto, che limita il processo democratico e decisionale, lo rallenta e rallenta le politiche”.

E poi, con un tono un po’ deluso, lo stesso Cedrone dice: “Se però dobbiamo accontentarci di questa forma ibrida, lo dobbiamo sapere. Dobbiamo saperlo noi e devono saperlo i giovani, perché non possiamo ancora rimanere in attesa di un progetto politico che 70 anni dopo stenta a compiersi”.

Il diritto di veto: stati piccolissimi i cui interessi ostacolano la politica comunitaria

Com’è evidente, un ulteriore problema, accanto alla questione della suddivisione delle competenze, è di natura istituzionale. “Con questa conformazione giuridica – dice il professore -, stati piccolissimi possono influenzare le politiche e le decisioni dell’intera politica comunitaria”. Nel momento in cui il diritto di veto viene conferito anche a stati come Malta che ha lo stesso numero di abitanti di una grande provincia della Lombardia, allora la macchina si inceppa. “Così – continua Cedrone –  mancando un processo decisionale che possiamo definire omogeneo, finiscono per prevalere quasi sempre gli interessi degli stati più grandi, in grado di influenzare il pensiero di quelli più piccoli, ma non solo”. “In questo modo – afferma – l’Europa tutta si rivela essere semplicemente qualcosa di amorfo, di ibrido, un mostro a più teste, come dico io. E questo è un limite rispetto a quello che ci servirebbe, ovvero un processo decisionale ben definito, che possa consentire alle politiche comunitarie di funzionare”. La suddivisione – anzi la revisione – delle competenze è il fulcro del discorso di Cedrone. Dal suo punto di vista, nel momento in cui ci sono troppi organismi il cui processo decisionale è sempre troppo limitato e mai abbastanza democratico, l’Europa stessa finisce per accartocciarsi su se stessa, dando così un potere smisurato agli stati trainanti. Anzi, allo stato trainante: la Germania.

La possibilità offerta dalla pandemia di Covid-19: una nuova speranza

Eppure, quando a Cedrone viene chiesto se la pandemia può essere la molla di un cambiamento, il suo pessimismo viene meno. Il professore precisa che sì, con la sospensione del patto di stabilità, il finanziamento del debito sul mercato e poi il gettito di liquidità portato dal Next Gen Eu si è fatto un salto “ma è il salto di un ranocchietto. È un precedente, sì, ma non è la soluzione. Non ancora”.

Il vento che si respira è quello di “una nuova speranza”, dice il professore, “come quella che nell’89 prese noi giovani dell’epoca. Noi in quel periodo speravamo che così l’Europa avrebbe potuto fare il salto politico necessario, ma la nostra speranza fu disillusa”. “Poi poteva succedere di nuovo con la crisi finanziaria del 2007-2008, ma anche lì non accadde del tutto e si fece l’opposto di quanto si sarebbe dovuto fare, ovvero stringere le maglie”.

Il 23 marzo scorso, spiega il professore, il primo ministro francese Macron, assieme a Italia, Spagna e altri 6 paesi, firmarono un appello perché l’Europa “facesse debito comune per far fronte alla crisi economica che avrebbe portato la pandemia. E quella è stata una svolta se la guardiamo dal punto di vista giuridico e politico, perché per la prima volta l’unione ha deciso di emettere un debito comune. Sarà qualcosa di simbolico ma è molto importante perché può essere l’inizio, il principio di un nuovo processo economico e politico verso una nuova Unione Europea”.

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